20 settembre 2012

Dalla Polonia con furore

 
Il fotografo inglese Mark Power racconta gli inizi quasi casuali della sua carriera culminata con l'ingresso nella celebre agenzia Magnum. E dove una tappa fondamentale è stato un reportage, durato tre anni, sulla Polonia. La guerra è uno dei suoi interessi maggiori, insieme alla trasformazione della società. Ma molto hanno contato gli scambi con altri fotografi. Dove l'attvità professionale si mischia all'amicizia

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The Sound of Two Songs. Poland 2004-2009 è il progetto che ha visto impegnato Mark Power (Harpenden, UK 1959, vive a Brighton) per cinque lunghi anni in Polonia e che presenta in anteprima italiana al Si Fest 2012 – Savignano Immagini, a cura di Stefania Rössl e Massimo Sordi, che ha per titolo Learning from photography/ Imparando dalla fotografia (14 settembre-7 ottobre 2012). Nelle sale di Palazzo Martuzzi il ritmo delle foto a colori, stampate in grande formato, è scandito dall’alternarsi di ritratti a figura intera e paesaggi prevalentemente urbani. Il segno rosso della porta di un campo di calcio nel bianco della neve (Warszawa 02.2005); una donna bionda con i capelli sciolti sulle spalle, avvolta nel cappotto lungo con il collo e i polsi di pelliccia, sul bordo della piscina (Beata. Rzeszow 12.2004); quattro pneumatici senza l’automobile (Krakow 12.2006). Immagini che inquadrano un’idea di progresso, di natura potentissima in parte domata, di società in trasformazione. Ma che lascia trapelare anche sentimenti autentici, curiosità, fiducia. L’abbiamo intervistato in occasione di un suo talk al festival.

Leggiamo nel tuo website che nutri un interesse per la fotografia da quando, ragazzino, hai trovato nella soffitta di casa un ingranditore artigianale costruito da tuo padre. Cosa ti ha incuriosito, in quel momento?

«Mio padre è un ingegnere e, quando era giovane, è stato nella Marina per due anni ed era interessato alla fotografia. Gli piaceva fotografare le petroliere all’orizzonte e si era costruito da sé un ingranditore con cui stampava le sue piccole foto. Le immagini che avevo trovato nella scatola della soffitta inquadravano sempre la stessa nave al centro dell’orizzonte. Un po’ alla maniera dei Becher. Si vedeva che mio padre organizzava lo spazio da ingegnere e avrebbe voluto che anch’io facessi l’ingegnere. Probabilmente pensa ancora che debba trovare un lavoro vero».

Affermi di essere diventato fotografo accidentalmente. Nel 1981, dopo la laurea in Fine Art al Politecnico di Brighton, hai viaggiato per due anni in Estremo Oriente, Australia e Nuova Zelanda. Quali sono le potenzialità che hai scoperto nella fotografia e che te l’hanno fatta prediligere rispetto alle altre arti visive?

«Nel 1981 c’è stata una giornata molto importante per me. Ero ancora uno studente di pittura e andai a Londra per un giorno, in giro per mostre. La prima che vidi era la mostra di Mark Rothko, poi andai a vedere quelle di due fotografi, Bill Brandt e Don McCullin. Alla mostra di McCullin c’era una donna che piangeva, tanto era commossa dalle immagini. Sono rimasto colpito dall’immediatezza, dalla comunicazione diretta e democratica di questa tecnica. Quando sono partito per due anni per l’Estremo Oriente ho portato con me il quaderno con le matite per poter disegnare, e una piccola macchina fotografica da 50 sterline con l’obiettivo fisso. Non ho praticamente disegnato quasi nulla, ma ho scattato moltissime foto. Però, in quei due anni non ho avuto modo di imparare molto, perché nonostante scattassi molto, spedivo i rullini a casa, facendoli sviluppare solo due anni dopo. Così non c’è stata l’evoluzione veloce di quando si ha la possibilità di vedere subito i propri lavori. Quelle foto, comunque, non erano niente di speciale. Erano immagini naif, scatti delle vacanze, però il fatto che siano foto in bianco e nero le fa sembrare artistiche».

Un elemento fondamentale di tutti i tuoi progetti – da The Shipping Forecast (1996) a Superstructure (2000), The Treasury Project (2002), 26 Different Endings (2007), The Sound of Two Songs (2010) – è il tempo. Una scansione temporale piuttosto dilatata, quasi antitetica rispetto all’immediatezza a cui deve sottostare il reportage. Come riesci a conciliare la professione di fotografo, con quella di docente – insegni fotografia all’Università di Brighton – e con gli impegni familiari, avendo una moglie e due figli?

«È molto difficile! Stamattina mia moglie mi ha telefonato, urlando che i nostri figli non si stanno comportando affatto bene. Abbiamo anche un cagnolino che si chiama Kodak… Normalmente lavoro contemporaneamente anche a due o tre progetti. È come se fossi un giocoliere che, nello stesso momento, cerca di tirare in aria troppe palline. In realtà, insegno solo un giorno a settimana ed è un’esperienza che mi arricchisce molto, perché mi dà la possibilità di imparare tantissimo. Quando ho iniziato, vent’anni fa, mi ero detto che lo avrei fatto solo per cinque anni, invece ancora insegno».

The Sound of Two Songs è considerato un documento storico sulla Polonia contemporanea. È un progetto iniziato nel 2004, quando per Magnum eri stato incaricato di raccontare l’entrata del paese nell’Unione Europea. Nei tuoi venti soggiorni, hai avuto due “chaperon” d’eccezione, il fotografo polacco Konrad Pustola e il film Camera Buff di Kieslowski (1979). In che modo questi differenti sguardi si sono intrecciati al tuo vissuto?

«Quando sono arrivato in Polonia, la prima cosa che ho fatto è stata affacciarmi dalla finestra dell’appartamento che avevo preso in affitto, all’ultimo piano di un palazzone di Varsavia. Ho visto una città enorme: non sapevo da che parte cominciare a fotografare. Così ho deciso di spostarmi verso il confine della Bielorussia, per vedere se trovavo un posto più piccolo dove iniziare il lavoro. Camminavo con la mia pesante attrezzatura e avevo l’impressione che tutti mi stessero a guardare con l’aria sospettosa. Poi ho realizzato che non erano gli altri, ma ero io stesso a creare con il mio linguaggio del corpo quell’atmosfera di sospetto nelle altre persone, perché non sapevo bene cosa stessi facendo. Così sono tornato a Varsavia e sono andato alla Magnum, chiedendo una guida senza la quale sentivo di non poter iniziare il mio lavoro. Qualcuno chiamò Konrad, la prima cosa che fece fu mostrarmi tutti i suoi lavori, poi andammo in un bar a vedere la partita di calcio Inghilterra-Polonia. L’Inghilterra vinse 2 a 1, ma Konrad accettò la sconfitta, motivo per cui cominciammo a lavorare insieme. Abbiamo continuato per tre anni e nell’arco di quel periodo mi ha fatto conoscere dei posti bellissimi e mi ha presentato alla sua famiglia, ai suoi amici. Inizialmente Konrad aveva studiato economia, poi è diventato un fotografo. Attraverso di lui ho conosciuto tantissimi fotografi polacchi. Tutti mi hanno accolto molto bene ed erano molto interessati al lavoro che stavo facendo. Ho trascorso molte ore nell’auto di Konrad, parlavamo della possibilità di frequentare un master al Royal Collage of Art di Londra. Anch’io per due anni avevo provato ad entrare nel College, senza riuscirci: Konrad sarebbe stata la mia terza possibilità! Scrissi per lui la lettera di referenze, stampai le sue fotografie e le consegnai a mano. Konrad Pustola è il primo studente polacco ad esser stato ammesso al Royal Collage of Art. Adesso è tornato nel suo Paese ed è diventato una star. Sono felice di aver potuto ricambiare il tempo e le energie che lui mi ha generosamente messo a disposizione. Quanto a Kieslowski, sinceramente ero più interessato ai film degli anni Ottanta, prima della caduta del muro di Berlino, in particolare, a Decalogo. Ho riguardato questo film che, per me, è come una pagina di storia, utile per capire com’era la vita in Polonia vent’anni prima».

Dal 2002 collabori con l’agenzia Magnum, di cui sei membro effettivo dal 2007. È cambiato qualcosa nel tuo approccio alla fotografia?

«Prima di tutto il fatto che ora posso sedermi al tavolo dei votanti, quando si sceglie un nuovo membro. ‘Perché proprio lui?’ Questa è la prima domanda che ci si pone. ‘Quanti anni ha?’ Io, quando ho fatto domanda per entrare nell’agenzia, ero sui quarant’anni. Per quattro volte, in cinque anni, sono stato rivotato dagli altri membri per rimanere alla Magnum. Il motivo per cui molti fotografi non riescono a passare in questo sistema di voti è perché, molto spesso, non sanno bene quale è il proprio lavoro. Provano a fare quello che la giuria si aspetta da loro e non quello che veramente sentono di fare. Personalmente sono sempre stato coerente con l’idea che avevo di me e della mia fotografia, questo è il motivo per cui sono stato votato. Da allora il mio modo di fotografare non è cambiato, ma mi ha messo una certa pressione. Adesso cerco di produrre lavori migliori con maggior frequenza. È logico che in un’organizzazione così grande si creino gruppetti di amici. I miei sono persone come Alec Soth, Jim Goldberg, Alessandra Sanguinetti. Ognuno di noi mostra i lavori agli altri. È un privilegio lavorare con grandi fotografi, c’è sempre la motivazione a fare qualcosa di meglio».

Sei stato curatore, nell’ambito di Krakow Photomonth Festival 2007 della mostra Theatres of War, in cui hai coinvolto i fotografi Lisa Barnard, Luc Delahaye, Christopher Stewart, Donovan Wylie e Geert van Kesteren a raccontare momenti di guerra. La sede era la fabbrica di Oskar Schindler, diventata museo della memoria. Come sei riuscito a mettere in relazione i diversi aspetti delle guerre dei nostri giorni, senza rischiare di scivolare in un qualcosa di manierato?

«Sono sempre stato interessato alla fotografia di guerra, anche se non è un genere che ho mai fatto, in particolare all’approccio dei fotografi contemporanei a questo argomento. Per cui ho pensato che questo argomento fosse qualcosa di interessante da approfondire. Poi, ero venuto a sapere che la fabbrica di Oskar Schindler era completamente vuota e in rovina, e chiesi se potevamo organizzare la mostra al suo interno, perché è un posto straordinariamente importante per la storia. Non so se il progetto sia manierato o meno, però avere quella location ha aggiunto sicuramente qualcosa al progetto. La maggior parte dei fotografi di guerra vorrebbe dare il messaggio che tutto ciò debba finire, mentre esporre le opere nella fabbrica di Schindler dava invece l’idea che la guerra, purtroppo, è ancora attuale. Il luogo ha sottolineato questo concetto, rendendolo più evidente. A parte questo è un posto enorme e bellissimo, non a caso la fabbrica è diventata un museo di arte contemporanea».

Progetti futuri?

«Sto lavorando ad un libro sulla religione cattolica in Polonia, un argomento un po’ rischioso… Sono fortunato perché la mia famiglia ha un piccolo appartamento a Cracovia, quindi posso tornare lì e continuare a lavorare a questo progetto. Ho anche in mente un lavoro sul sistema delle prigioni in Inghilterra, ma non l’ho ancora iniziato. Sono in quello strano punto della vita, in cui si aspettano idee nuove e illuminanti!».

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