19 dicembre 2012

L’intervista/Silvia Levenson Sotto il vestito, la storia

 
Una vita e una famiglia che attraversano un secolo di storia. Con i suoi drammi, ma anche l'incontenibile forza del riscatto. Incontro con l'artista argentina Silvia Levenson che rielabora il passato attraverso materiali e oggetti seducenti e apparentemente inoffensivi: vetro, borse, sottovesti. In vista di una mostra che riaprirà Palazzo Mocenigo di Venezia. E con un occhio al femminicidio

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Venezia. Odore di antico e di storie vissute al primo piano nobile di Palazzo Mocenigo, donato nel 1945 da Alvise Nicolò al Comune di Venezia, che lo ha destinato al Centro Studi di Storia del Tessuto e del Costume. Una passeggiata con Silvia Levenson (Buenos Aires 1957, vive a Meina sul Lago Maggiore) tra pareti damascate, tele annerite dal fumo delle candele, lampadari di cristallo, affreschi e soffitti lignei tipicamente veneziani. In questi ambienti sontuosi, in cui non mancano riferimenti a momenti più intimi con la vasca da bagno e le lenzuola bordate di pizzo del grande letto tardo settecentesco (vi ha dormito l’ultimo discendente del doge Alvise I con sua moglie Costanza Faà di Bruno) nel 2015, alla riapertura del palazzo dopo i lavori di restauro, Levenson sarà protagonista di un percorso in cui le sue sculture di vetro dialogheranno con gli abiti d’epoca e le collezioni del museo. Oggetti della quotidianità come libri, saponette, bottiglie di medicinali, sottovesti, abiti, borsette e scarpe che rimandano ad un’idea di leziosità innocua e seducente, però puntualmente ribaltata dall’interferenza di elementi come lamette da barba, aghi, filo spinato, coltelli. Il pericolo, l’ambiguità corroborante, l’incertezza addomesticata attraversano come un monito passato e presente.

Il progetto Spring Collection, ideato da Elena Povellato della Galleria Traghetto, sarà preceduto, in occasione della 55° Biennale di Venezia, dall’installazione Finché morte non ci separi, a cura di Jennifer Scanlan in collaborazione con il comitato italiano “Se non ora quando” che si occupa di femminicidio.

La valigia è stata il punto di partenza del tuo lavoro quando, arrivata in Italia con un background di disegnatrice grafica e militante politica in un partito trotzkista, hai iniziato a fare arte. La valigia, quindi, è strettamente connessa al tuo vissuto personale. Una circolarità con un punto di partenza, il 1904, quando i tuoi nonni paterni ebrei lasciarono la Russia per cercare salvezza in Argentina. Nel 1981, con il tuo ex marito e vostra figlia di tre anni, siete riusciti a scappare dalla dittatura. Qual è il passaggio successivo che porta all’ironia noir delle borsette con mannaie, spine, lamette da barba?


«Per prima cosa ho guardato a questo viaggio circolare della mia famiglia, e l’ho fatto diventare altro in vetro. Usando, quindi, un materiale che è anche molto seduttivo. Sono partita da questa riflessione più politica e sociale – e anche molto intima – per passare ad uno sguardo molto più completo della realtà. Ecco allora la quotidianità, quello che c’è ma non si dice. Tutto il mio lavoro è illuminare la parte oscura della realtà. Un po’ come quello che è successo in Argentina dove, quando c’era la dittatura, moltissima gente non voleva sapere niente di quello che stava succedendo. Mentre, quello che facevamo noi, era proprio rendere visibile una parte che nessuno voleva vedere. Esattamente ciò che continuo a fare attraverso la mia opera. Mi riferisco anche alle cose che io stessa non voglio vedere e di cui prendo coscienza attraverso l’arte. L’ironia – che è molto argentina – mi permette di prendere le distanze e vedere una parte della realtà e, quindi, poter sopravvivere. Perché l’impatto del dramma, soprattutto nella violenza domestica, mi porterebbe a collassare e non riuscirei a sviluppare non solo il mio lavoro, ma anche il modo di vedere la vita».

Evocativo e narrativo sono aggettivi associati al tuo lavoro, costruito intorno ad un’assenza. C’è, però, un momento in cui è esplicita la consapevolezza della denuncia: quando il vetro dialoga con la fotografia. Il ritratto fotografico riconduce ad un’identità,  che sia la tua di bambina, con i tuoi genitori e tua sorella in Family Album o quella dei desaparecidos e dei loro figli sequestrati o nati in cattività, come nel progetto Identidad, in cui parli dell’impegno delle Abuelas de Plaza de Mayo a restituire l’identità a centinaia di ragazzi. Parallelamente la parte emotiva, dolore e rabbia, trova una via d’uscita. È così?

«Esattamente! In effetti l’assenza del corpo ha caratterizzato la maggior parte del mio lavoro: l’altalena con le scarpine, piuttosto che il vestitino dove c’è il racconto della bambina, che però non è presente perché si è sottratta a quel vestito. Quando, invece, il corpo è presente, è quello della mia famiglia, il mio stesso corpo ed eventualmente il corpo sociale, come per Identidad. In questo progetto è la prima volta che lavoro con immagini di persone – se si escludono quelle della mia famiglia – che sono esistite ed esistono. Parlando di identità diventa imprescindibile. Quando ho iniziato a lavorare sulla mia immagine nelle fotografie da bambina, a New York mi è capitato di andare a vedere una collezione privata completamente dedicata alle fotografie di famiglia. Quando sono entrata nella camera da letto dei collezionisti, e ho visto me e mia sorella, mi ha fatto una forte impressione. Vendo i miei lavori e so che vanno a finire nelle case di altre persone, ma il fatto che avessero messo la mia fotografia in un luogo così intimo come la camera da letto, e non in salotto, mi faceva sentire come se fossi stata adottata da quella famiglia. È stato in quel momento che ho capito la portata dell’operazione che stavo facendo, anche su me stessa».

Il mondo degli adulti visto dai bambini è spesso un punto di partenza per entrare nell’argomento “famiglia”, scenario di conflitti che riflettono una gamma di violenze. Dal matrimonio che proponi come una torta nuziale con la granata rosa ad una gamma di situazioni che nel tuo sito internet riunisci sotto la voce “cannibalismo dei sentimenti”. Ci potrà mai essere l’happy ending?

«Sì perché, anche se non sembra, sono ottimista. Quello che faccio è apparentemente esagerato, del resto la realtà è molto complessa e ha tante sfaccettature. Però mi sorprendo sempre quando c’è chi mi parla della propria infanzia come di un momento bello, perché la maggior parte delle mie amiche ha avuto un’infanzia terribile. Non è un caso che mi sia rapportata a loro. Nel mio lavoro non faccio altro che parlare della realtà. Nel 2005, ad esempio, ho seguito una mia amica, una donna molto forte che era stata picchiata dal suo convivente, in tutto il percorso di denunce, avvocati, ospedali. Questo fatto mi ha riportato alla consapevolezza che abbiamo nel sentirci forti, ma di come ci sia una realtà intorno a noi che a volte non vediamo. Dopo questi fatti ho cominciato a documentarmi. Guardando le statistiche sono rimasta molto colpita dal fatto che sia una realtà sommersa, perché la gente si vergogna. Non avrei mai immaginato, poi, che anche in Paesi come la Norvegia gli indici di violenza domestica sono molto alti. Siamo portati a pensare che le violenze in famiglia appartengano al cosiddetto Terzo Mondo, invece è tutto molto più trasversale. Non c’entra l’educazione, né il grado di emancipazione, sono molte le donne che, per varie ragioni, si ritrovano in situazioni come quella della mia amica».

Al vetro, un materiale dalla natura ambigua e complessa, affidi le tue riflessioni sull’uomo e sulla società. Messaggi giocati sulla complicità degli opposti: fragile/resistente, accattivante/pericoloso, interno/esterno, ironico/drammatico, lezioso/serio, freddo/caldo. Negli anni Novanta hai scoperto le sue caratteristiche evocative e le possibilità espressive, tecnica che implica un lungo processo di lavorazione. Quanto è importante il contatto diretto che hai con l’opera, nel passaggio dall’idea all’oggetto? Nell’ex cartiera di Meina sul Lago Maggiore dove abiti da un po’, c’è il tuo laboratorio dove tieni anche corsi di fusione in vetro.

«Nel mio caso il processo è importante quanto il lavoro finito. Ho un assistente, per cui non faccio tutto il lavoro da sola, ma so come farlo. Questo mi interessa perché, diversamente da altri artisti, pur facendo disegni e progetti, devo vedere, modellare, provare con le mie mani per capire come funziona un lavoro. Il momento in cui uso le mani, diventa quindi un’occasione per sviluppare il pensiero, la parte concettuale. Un’altra cosa che mi entusiasma molto dell’uso del vetro, è che è un materiale domestico ancora poco usato nell’arte contemporanea. Una tecnica che è stata impiegata nel tempo per le arti decorative, che vedevano coinvolte proprio le donne, sempre considerate più adatte per le arti minori che per l’arte più elevata. Sì, mi piace molto usare un materiale domestico, ma anziché fare vasetti da mettere sui mobili, ci metto la mia visione della società. La parte formale è fondamentale, perché è come un amo, un collegamento, con chi guarda e anche con me stessa. Ma il mio non è un atteggiamento da tecnica, né da virtuosa».

1 commento

  1. Da veneziano abitante sulla riviera del Brenta che si occupa di poesia, scrivendone libri da molti anni, mi è dispiaciuto, e non poco, per la scomparsa di Germano Celant, il grande maestro della cosiddetta Arte Povera che, secondo me, “scoprendo l’acqua calda” di una facile critica visiva, non esiste affatto, così come non esiste la “poesia povera”

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