10 gennaio 2013

L’intervista/Guido Guerzoni Noi, gli sfiduciati dell’arte

 
Abbiamo tolto il nostro orologio che segnava i giorni da quando AMACI aveva chiesto d'incontrare il premier Monti. Il governo è caduto e non è successo niente. Ma perché si lanciano appelli e, dal primo ministro, in giù, nessuno risponde? Perché i musei continuano ad essere vuoti e alcuni forum culturali deperiscono in fretta? Prova a rispondere l'economista della cultura Guido Guerzoni. Con un occhio su quanto accade fuori dell'Italia

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Perché secondo lei Monti non ha risposto alla richiesta d’incontro rivoltagli da AMACI? E come potrebbe agire AMACI per rendere più incisiva la sua voce?

«C’è imbarazzo, non si sa che risposte dare. Dal canto suo l’arte può provocare risposte e reazioni plateali, che facciano breccia nell’apatia collettiva; basterebbe usare con maggior convinzioni i mezzi e gli stessi linguaggi dell’arte. C’è un disegno di legge presentato lo scorso anno (Disposizioni per la valorizzazione e la promozione dell’arte contemporanea, Vannucci, Veltroni, Baretta, Fluvi, Carella, Vico, del 14 febbraio 2011), che  potrebbe essere un buon punto di partenza: è stato concepito per agevolare la produzione contemporanea in temi di deducibilità fiscale in caso di acquisti e contiene altre proposte interessanti in termini di defiscalizzazione. Si tratta di un provvedimento ragionato e trasversale, condivisibile per offrire delle prime soluzioni al problema, senza perdere ulteriore tempo».

Anche la chiamata alle arti promossa da AMACI lo scorso 29 settembre non ha riscosso la partecipazione auspicata. Quali sono i limiti strutturali del sistema arte in Italia?

«La sfiducia. C’è una sfiducia generale nella capacità di sopravvivere in un ambiente se non in termini puramente individuali, dove ognuno combatte per la propria vita personale. Di conseguenza le persone stanno rinunciando ad agire insieme: meglio concentrare le poche energie su piccoli progetti e di respiro locale, anche se spesso a stento si riescono a portare avanti. Nella giornata del 29 settembre ho notato la presenza di pochissimi ventenni e trentenni, e ciò è sintomatico di uno scollamento tra generazioni».

I Musei di Arte Contemporanea sono destinati a un turn over di nascite e decessi rapidi, forse dipendente dall’incapacità di dialogare con il grande pubblico. Come si esce da questa situazione? È un problema di risorse, di educazione?

«Oggi è un problema di risorse. Se penso a venticinque anni fa il pubblico dell’arte contemporanea era una piccola minoranza, mentre oggi è enormemente cresciuto e sono convinto che continuerà a farlo. Ma la mancanza di risorse impedisce alle diverse sedi di portare avanti attività permanenti. A livello statale non c’è il minimo interesse per la contemporaneità, si tende solo al faticoso mantenimento di ciò che è storicizzato. Lo Stato deve farsi carico di garantire un rapporto con il presente e il futuro, e con esso non intendo solo quello artistico: mancano spazi e musei dedicati alle scienze, alle tecnologie, ai nuovi media, al design, alla comunicazione, alla moda, insomma ai paradossali pilastri del made in Italy e dell’Innovazione. All’estero sono nate istituzioni prestigiosissime che si occupano solo di questi temi; in Italia no. Basta salvare le antica vestigia, in un totale scollamento con il presente, che non abbiamo più il coraggio di immaginare».

Defiscalizzazione e procedure più chiare nelle nomine dei dirigenti culturali: problemi che affliggono il sistema museale italiano e che andrebbero allineati su standard europei. Ci sono delle novità da questo punto di vista?

«Per quanto riguarda le nomine nel settore pubblico si è di norma soggetti ai relativi obblighi di trasparenza e pubblicità degli atti; il diverso grado di visibilità dei candidati è un altro discorso. Ma il vero problema è che le posizioni dirigenziali sono veramente poche, con una scarsissima mobilità. Quindi, le poche posizioni aperte sono occupate dalle stesse persone, tutte di una certa esperienza e curriculum: in sostanza chi è arrivato presto, rimane fino a tardi».

Cosa prenderebbe in prestito dalle politiche culturali di Francia e USA?

«Dalla Francia il coraggio. Anche in momenti di crisi l’impegno statale non è mai venuto meno; se ci sono stati dei tagli, come è avvenuto nell’epoca Sarkozy, questi sono stati bipartisan, mai indiscriminati e soprattutto all’interno di un disegno di rilancio e di presidio di specifici settori, con un forte sostegno alla produzione contemporanea e alle industrie creative. In America abbiamo una situazione di maggiore sussidiarietà, per cui le politiche culturali vengono gestite da tanti soggetti diversi. Ma la cosa interessante è che esiste un mercato del lavoro che offre la possibilità di costruire carriere professionali non legate necessariamente a reti di relazioni locali o interessi politici. Oltre al fatto che il sistema ti permette di assumere delle responsabilità importanti anche da molto giovane. Per non parlare della trasparenza nella selezione del personale».

Come potrebbe configurarsi l’attività di forum permanenti per l’economia e la cultura?

«Ce ne sono già. Il caso più emblematico è quello di Florens, in Emilia Romagna lo è stato il Festival dell’Arte Contemporanea di Faenza. Si tratta di piattaforme nate e gestite da soggetti privati, questo perché lo spontaneismo e la sfiducia si sono tradotti nella voglia di fare da soli. Non è più possibile pensare a piattaforme istituzionali, anche se è pur vero che l’evento consumato in una singola giornata o settimana non risolve i problemi».

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 81. Te lo sei perso? Abbonati!

1 commento

  1. In tempi duri bisogna saper andare oltre le forme limitate e autoreferenziali, per cui forse solo in un reale confronto di intenti si possono unire le tante energie, spesso in contrasto, per poter ottenere reali progettualità per tutti

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