26 settembre 2013

L’intervista/Franco Vaccari Ma la fotografia è un ready-made?

 
Il grande autore concettuale modenese si racconta a tutto campo. Dicendo la sua sul rapporto tra fotografia e identità. E rivelando inediti particolari biografici, i numi tutelari Duchamp e Benjamin, ma con qualche presa di distanza. E poi gli studi di fisica, l’importanza dell’ironia e del titolo. Perché anche nell’immagine le parole contano

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Savignano sul Rubicone, 14 settembre 2013. Grande interprete della fotografia concettuale, Franco Vaccari (Modena 1936) si racconta in quest’intervista realizzata dal vivo nell’Open Space del SIFEST #22. Tra le mostre del circuito del festival di Savignano (il titolo di quest’edizione è “Specie di Spazi”), curato da festival Stefania Rössl e Massimo Sordi (fino al 29 settembre) è presente anche Mediacollages che riunisce due lavori video dell’artista modenese L’album di Debora (2002) e Provvista di ricordi per l’Alzheimer (2003) in cui la fotografia è l’elemento comune. Fotografie accumulate, realizzate per lo più da altre persone, decontestualizzate e aperte a nuovi orizzonti di conoscenza.

Essere figlio di un fotografo professionista ha probabilmente allenato il tuo sguardo all’osservazione – ma anche al ribaltamento – dei meccanismi del linguaggio fotografico tradizionale. In che modo quest’esperienza, insieme allo studio della fisica all’Università di Milano, ha nutrito la tua ricerca artistica?
«Quando sono nato mio padre non faceva più il fotografo e comunque è sempre stato contrario al mio nascente interesse per la fotografia. In pratica devo dire che da parte sua non ho ricevuto nessuna influenza, anche se in giro per casa c’erano le sue macchine fotografiche. La mia esperienza con la fotografia è da autodidatta. La curiosità è l’elemento che mi ha avvicinato alla fotografia. Pensandoci, però, c’è un aneddoto che si riferisce a mio padre – quando ancora faceva il fotografo – che mi ha sempre colpito in quanto riconosco nel suo comportamento, rapportato a quella situazione, qualcosa che potrei definire uno stile di famiglia e in cui mi riconosco, come se facesse parte di qualcosa appartenente ad un codice genetico. Una volta gli si presentò di sera una signora anziana che espresse il desiderio di avere delle fototessera – la fototessera sarà una costante, poi, della mia attività successiva – mio padre le spiegò che in quel momento non aveva la possibilità di realizzare quel suo desiderio. Ma lei continuò ad insistere, allora lui tirò fuori da un cassetto della scrivania delle fototessera di una donna, che aveva più o meno l’età di quella signora, ferme lì da tempo perché non erano mai state ritirate e gliele offrì. “Ma non sono mica io!”, disse. E lui, pronto, le rispose “Ma lo sa solo lei”. La donna prese quelle foto e probabilmente le usò pure. Trovo che quest’episodio sia straordinario per diverse cose. Primo perché mi ricorda lo spirito di mio padre e quella sua libertà di pensiero che l’ha portato a fare un gesto del genere. Poi, perché è un episodio che apre prospettive di riflessioni interessanti sul tema identità e fotografia. Pone, per esempio, il problema di cosa fosse l’identità nel periodo in cui si sono svolti i fatti, se l’identità era così forte che non poteva essere minacciata da un semplice fatto fotografico o così labile da poter essere intercambiabile».

La scrittura ha sempre avuto un posto significativo all’interno del tuo lavoro di artista concettuale, sia nell’ambito delle prime esperienze di poesia visiva con Pop esie (1965) e Entropico (1966) che in quello teorico come autore di saggi tra cui Duchamp e l’occultamento del lavoro (1978), Fotografia e inconscio tecnologico (1979), Duchamp messo a nudo (2009)… 
«Gli studi scientifici ad un certo livello, come quelli di una facoltà come fisica che ho compiuto fino ad arrivare alla laurea, mi hanno portato ad un certo tipo di riflessione che probabilmente non avrei avuto se avessi fatto studi più elementari. Se penso al modo in cui affronto certe problematiche mi accorgo dell’importanza dei modelli scientifici incontrati durante gli studi, non tanto per i caratteri specifici quanto per la necessità di affrontare le cose con una problematica il più ampia possibile».
Quando affermi che non è importante che il fotografo sappia vedere, perché la macchina fotografica vede per lui, sembra che ti ricolleghi alla teoria di Walter Benjamin  dell’”inconscio ottico” che attribuisce alla macchina fotografica la capacità di registrare ciò che sfugge allo sguardo e all’inconscio dell’uomo: è così?  
«Nel mio libro Fotografia e inconscio tecnologico ho scritto un intero capitolo per pagare il mio debito nei confronti di Benjamin e del suo concetto di inconscio ottico, però ho anche spiegato – senza dilungarmi troppo – in cosa il concetto di inconscio tecnologico si differenzi da quello ottico di Benjamin. La polarità dell’inconscio tecnologico, appunto, è volta verso la tecnologia del mezzo, mentre quello ottico di Benjamin è più diretto a porre in evidenza ciò che è inconscio per l’autore delle immagini, ovvero ciò che sfugge. Il concetto di inconscio tecnologico – come dicevo – vede attivo nel mezzo un inconscio, come se ogni mezzo tecnologico possedesse o fosse posseduto da un inconscio in attività».

Spesso le tue opere sono associate ai ready-made per via del meccanismo del presentare frammenti di realtà, piuttosto che rappresentarli. Duchamp sembra essere una figura centrale nella definizione del tuo pensiero. Qual è, secondo te, la forza del messaggio di questo grande artista che sfida mode e confini temporali?
«Duchamp è la figura egemone per l’influenza che ha avuto nel pensiero post bellico. Per tutta la seconda metà del Novecento l’autore che a poco a poco ha rivelato la sua influenza, che è diventata sempre più evidente, è appunto Duchamp piuttosto che Picasso, nume tutelare del primo Novecento. Il suo pensiero è fondamentale per tantissimi aspetti, uno è la perdita d’importanza della figura dell’autore. L’enfasi che veniva data all’autore, come fosse quasi un nume tutelare della creatività circondato da un’aura particolare, scompare con Duchamp. La sparizione dell’aura è anche uno degli aspetti che Benjamin ha trattato più diffusamente».

Hai prodotto anche un numero cospicuo di video e cortometraggi, a partire da Nei sotterranei (1966-67) fino a L’album di Debora (2002), Provvista di ricordi per il tempo dell’Alzheimer (2003) e Buona notte (2004). C’è autonomia tra immagini fisse e immagini in movimento?
«Il raccontare, per me, è sempre stato un motivo ispiratore di fondo e quando mi sono sacrificato inibendo questo aspetto l’ho vissuto, appunto, come un sacrificio. Con il video mi si sono aperti spazi narrativi, non in senso stretto di qualcosa che inizia, si sviluppa e viene portato ad una conclusione, ma come lo sviluppo di qualcosa che non si può esaurire con un’immagine, per quanto densa e sintetica, ma ha bisogno di seguire un suo sviluppo. Diverse volte, ad esempio, ho usato il rallenty proprio per poter portare più a fondo la capacità dello sguardo di penetrare i particolari e ho anche vissuto l’uso del video come se fosse un taccuino di appunti. Quando mi veniva in mente qualcosa che volevo in qualche modo circoscrivere, descrivere e che non potevo fare con un’immagine, la videocamera ha preso il posto del taccuino. Inoltre con la videocamera potevo usare materiale non girato o scattato da me, quindi materiale altrui, e nel fare questo mi sono trovato in consonanza con un modo di sentire che credo sia particolarmente attuale».

Provvista di ricordi per il tempo dell’Alzheimer è un progetto particolarmente toccante, come nasce?
«Quell’anno, era il 2003, il tema del Festival della Filosofia che si tiene nella mia città, Modena, riguardava la vita e certi aspetti di sofferenza che l’accompagnano. Per una coincidenza di date quell’anno ci sarebbe stata anche una giornata particolare legata all’Alzheimer. Mi fu chiesto se fossi stato disposto a fare qualcosa su questo tema e la mia prima reazione fu di ripulsa. Era un tema che per fortuna non conoscevo e intuivo che era una malattia che si accompagnava molto alla sofferenza. Quindi avevo deciso di non accogliere l’invito, poi una notte nel dormiveglia mi è venuto in mente che il titolo di un mio qualche lavoro fatto con il video poteva essere Provvista di ricordi per il tempo dell’Alzheimer che era qualcosa di analogo alle provviste che fanno certi animali di pelliccia che devono affrontare il lungo inverno. Ho trovato che quest’immagine che un po’ si lega a quelle di favola, a immagini di tepore conquistato, in qualche modo controbilanciava la negatività del tema. Già nel titolo, poi, era come se la sceneggiatura fosse tutta chiara. Infatti utilizzando materiale solo in parte mio, ma comunque di famiglia – a partire dalla mia infanzia – ho realizzato questo video». 
A proposito del titolo, quanto è importante nel concetto dell’opera?
«È importantissimo. Il titolo deve circoscrivere il tema in modo sintetico, perché solo se esiste una terminologia che aderisce bene all’argomento questo viene inquadrato nella sua specificità. Se non ci sono le parole adatte, la lettura di quello che viene proposto viene dirottata verso qualcosa che non c’entra con il problema svolto». 

Opera, spettatore e spazio, dalla relazione di questi tre elementi nasce anche Esposizione in tempo reale n. 4. Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio, una delle tue opere più note, che è stata presentata nel Padiglione Italia alla Biennale di Venezia del 1972. “[…] ho esposto una cabina Photomatic (una di quelle cabine per fototessere che si trovano nelle grandi città) ed una scritta in quattro lingue che incitava il visitatore a lasciare una traccia fotografica del proprio passaggio. Io mi sono limitato ad innescare il processo facendo la prima photostrip, il giorno dell’inaugurazione; poi non sono più intervenuto. Alla fine dell’esposizione le strip accumulate erano oltre 6000”, come hai affermato. Nella dialettica tra casualità, programmazione, spontaneità, accumulo e anonimato che ruolo ha l’ironia?
«L’ironia è sempre una presenza che fa bene, se non è eccessivamente sottolineata. Mi piace che tu abbia colto questo aspetto di questo mio lavoro che correva il rischio di essere preso anche troppo sul serio. Da parte mia ci doveva essere un qualcosa di giocoso per alleggerire quella che poteva essere vista come un’eccessiva concettualizzazione». 

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