21 giugno 2014

L’Intervista/Xing Danwen Io e la mia vita in transito nella Cina del cambiamento

 
Nata durante la rivoluzione culturale, ha vissuto in prima persona la trasformazione della Cina. Usa il suo corpo come metafora delle pressioni a cui l’individuo è sottoposto quotidianamente. Perché – afferma – «se come artista non posso cambiare nulla, posso però stimolare le coscienze ponendo delle domande». L’abbiamo incontrata in occasione della sua prima personale in Italia

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Xing Danwen, Utopia - Officine dell'Immagine - Milano (foto di Manuela De Leonardis)

Architetture “confortevoli” – ambite e ambiziose – omologano i futuri abitanti, traducendo quella che è una vita da fiction in dramma. È l’illusione di una realtà effimera. Così come i rottami di una tecnologia che rincorre se stessa diventano cumuli di materia, a suo modo attraente e respingente. Il presente – già memoria di se stesso – con le sue inquietanti contraddizioni è il fil rouge della mostra Xing Danwen. UTOPIA (a cura di Silvia Cirelli) alle Officine dell’Immagine di Milano (fino al 28 giugno 2014), prima personale italiana dell’artista cinese. Xing Danwen (Xian 1967, vive e lavora a Beijing) appartiene alla nuova generazione di artisti cinesi che, nati durante la rivoluzione culturale, hanno vissuto in prima persona l’impatto delle trasformazioni di una società chiusa che veniva catapultata nell’era consumistica e globalizzata. In vent’anni di attività – la sua prima personale internazionale è With Chinese Eyes. Photonews alla Gallery Grauwert di Amburgo nel 1994 – l’artista, da un iniziale approccio alla fotografia documentaria, si è orientata verso altri linguaggi che includono video e performance, come in I Can’t Feel What I Feel (2012), che fa parte di un progetto in fieri sul dolore. L’artista usa il proprio corpo come metafora delle pressioni a cui l’individuo è sottoposto quotidianamente nella società contemporanea: «In termini medici noi cinesi – spiega – diciamo che in qualsiasi parte del corpo si avverte un dolore, allora vuol dire che c’è qualcosa di bloccato. Partendo da quest’osservazione ho iniziato a pensare alle persone e alle condizioni di vita. Più si vuole dalla vita e tanto più alto è il prezzo da pagare. In questo video non faccio altro che mostrare quanto le persone siano vulnerabili nella vita reale».
Xing Danwen, Utopia - Officine dell'Immagine - Milano (foto di Manuela De Leonardis)
Realtà e finzione o realtà e memoria: nel tuo lavoro il confine è impercettibile. Dopo un iniziale approccio documentario, la tua fotografia si caratterizza per una visione più ampia. In che modo la tua formazione in ambito pittorico ha influito nel passaggio alla fotografia?
«Penso che come pittrice si possa sempre creare una finzione. Il mio incontro con il mezzo fotografico è stato una coincidenza, perché quando ero giovane la fotografia non era considerata come forma d’arte. Sono stata catturata da un’immagine fotografica vista su una rivista e da quel momento ho deciso di entrare nel linguaggio visivo della fotografia. Ma non ho mai frequentato una scuola di fotografia. La fotografia, per me, è un altro mezzo per creare arti visive. Fin dell’inizio non ho mai avuto problemi su quello che volevo catturare, piuttosto ne ho avuti molti a livello tecnico. La mia pratica è stata quella di fare tanti errori per arrivare ad un valido utilizzo delle attrezzature. Nel tempo ho iniziato a capire le possibilità di questo mezzo. Forse, proprio perché non provenivo da un percorso di studi ristretto al campo fotografico, ho potuto lavorare a mente libera. Negli anni ’90, oltre al mio lavoro di artista, ho fatto molti reportage e attraverso quel lavoro fotogiornalistico ho avuto modo di confrontarmi con la realtà, la società, la gente. Penso che quest’esperienza mi abbia fornito gli strumenti critici che mi hanno permesso di chiedermi cosa volessi dal soggetto. Inoltre, mi ha portata fuori dal mio studio, che era il mio piccolo mondo personale, facendomi vedere quello reale con la società e la vita delle persone. È stata una grande sfida personale tra la visione e ciò che vedevo. Attraverso questa pratica sono finalmente arrivata ad una buona combinazione che mi permette di usare la fotografia per parlare di un soggetto che è tra realtà e finzione».
Xing Danwe - Urban Fiction #23 - 2005 (Courtesy l'artista e Officine dell'Immagine -Milano)

Il massacro degli studenti di piazza Tienanmen ha segnato un punto di svolta. Silvia Cirelli parla di “nuova Cina underground, provocatoria, inconsueta, di rottura rispetto al passato”. Tu appartieni a questa generazione, essere donna è stato più impegnativo nell’affermazione del tuo pensiero? 
«Sì, naturalmente. La Cina ha una forte tradizione e la società cinese è machista. Ho vissuto in un periodo storico molto interessante, sia dal mio punto di vista personale che per quanto riguarda la storia della Cina. È stata una sfida parallela, come donna ero una giovane di vent’anni che aveva iniziato ad esplorare la vita, vivendo la contraddizione tra quello che avrei voluto essere e cosa, invece, sarei dovuta diventare. Dal punto di vista storico, appartengo a quella generazione nata durante la rivoluzione culturale, questo significa che siamo nati all’insegna della ribellione. Proprio nel momento in cui stavamo crescendo e iniziavamo a pensare per conto nostro, in Cina sono iniziati i grandi cambiamenti. Ci siamo ritrovati a vivere il passaggio dalla vecchia Cina di Mao a quella di Deng Xiaoping, ovvero dal comunismo al capitalismo. Non avevamo modelli di riferimento e non sapevamo esattamente cosa volesse dire, seguivamo obiettivi molto astratti senza conoscere cosa fosse la modernità. La Cina era molto chiusa e non c’erano le informazioni per capire quale fosse lo standard mondiale al quale noi stessi stavamo tendendo. Anche al livello personale è stato un momento difficile di sfida. Volevo essere innanzitutto indipendente, individualista e combattere per il mio obiettivo, confrontandomi con quella che sarebbe dovuta essere una donna secondo la società tradizionale. È stato duro e stressante, ma anche eccitante. In quel periodo ho realizzato un corpo di opere – I Am a Woman – che affrontano le problematiche di quegli anni. Un altro lavoro è A Personal Diary che parla di una generazione che combatte per la libertà. Tutte le persone che hanno partecipato a questo lungo progetto erano miei amici, artisti di diversi campi che stavano lottando per la propria libertà di espressione. Attraverso di loro sono arrivata a capire chi realmente volessi essere. Penso che ciascuno di noi può imparare qualcosa di sé attraverso il riflesso degli altri». 
Xing Danwen - Born with Cultural Revolution - 1995 (Courtesy l'artista e Officine dell'Immagine -Milano)
Come nasce un’opera come Born with Cultural Revolution (1995) che ritrae una donna nuda incinta con il ritratto di Mao alle sue spalle? È mai stata censurata nel tuo Paese?
«Immagino che sicuramente verrebbe censurata in Cina, ma non è mai stata esposta lì. Sarebbe già censurata al momento della spedizione! Comunque questo lavoro non è così politico come alcuni vorrebbero vedere. È semplicemente la relazione personale tra me e la modella, che è nata nel 1966 ed era incinta della seconda generazione dei figli della rivoluzione culturale. Il ritratto di Mao faceva parte delle decorazioni della sua casa, non sono stata io a metterlo lì per creare un set. Non ho fatto altro che fotografare la modella nel suo spazio vitale. Il mio approccio per arrivare a creare quest’immagine, e le informazioni che contiene, nasce dal voler parlare di quella seconda generazione così confusa, e della nuova in arrivo. Questo trittico, in realtà, faceva parte della serie I Am A Woman. È stato Wu Hung, famoso curatore cinese e professore di arte alla University of Chicago, che nel 1998 vedendolo nel mio studio, lo scelse per la sua prima grande esposizione sull’arte cinese contemporanea, Transience-Chinese Experimental Art at the end of the 20th Century che ebbe luogo l’anno dopo allo Smart Museum of Art di Chicago. Solo dopo la sua scelta ho capito il significato politico che questo lavoro aveva al suo interno. Mi sono anche resa conto che la presenza di quell’icona connotasse in maniera differente queste foto rispetto alle altre della serie I Am A Woman». 

Xing Danwen - disCONNEXION #b3 - 2002-2003 (Courtesy l'artista e Officine dell'Immagine -Milano)Xing Danwen - disCONNEXION #b1 - 2002-2003 (Courtesy l'artista e Officine dell'Immagine -Milano)

DisCONNEXION, Duplication, Urban Fiction, The Myth of Progress, nonché UTOPIA… il titolo stesso delle tue mostre è l’enunciato del lavoro artistico che porti avanti dal 2002, al ritorno dal soggiorno newyorkese. Cina, progresso, urbanizzazione, globalizzazione: la riflessione che condividi con lo spettatore ruota spesso intorno a questi temi. Quale è il compromesso che si deve accettare per poter guardare al futuro?
«Grazie all’aver avuto la possibilità di vivere in Occidente ho capito che in Cina l’espansione delle grandi città non è altro che uno dei primi obiettivi per raggiungere lo standard mondiale. Ma senza una vera istruzione e conoscenza di quello che é l’Occidente, i cinesi hanno solo un’idea di facciata. Una fantasia di quello che è l’obiettivo da raggiungere. Con lo sviluppo economico la gente ha maggiore possibilità di avere una vita più agiata ed i governanti stanno spingendo perché questa fantasia possa diventare realtà. Alla fine, però, questa spinta per arrivare alla realizzazione del sogno si traduce nell’acquisto di automobili, di case. Una vita migliore, più agiata, che sta distruggendo, – cambiandone l’aspetto – le città tradizionali e che crea congestioni di traffico, sovraffollamento, inquinamento, aumento di nuovi appartamenti e prezzi esorbitanti degli immobili. Cambiamo i valori stessi della vita. Questo ha portato ad un grave problema sociale, i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Icona della situazione finanziaria è anche il cambiamento che ha portato ad acuire il senso di isolamento e solitudine delle persone. Questa, è per me, la più grande malattia delle grandi città. La Cina dovrebbe poter evitare questi errori, ma di fatto si continua a perseguire questa politica e ciò crea, attualmente, un grande dramma. Nel mio lavoro non faccio altro che osservare questi problemi di chi si trova a vivere in queste grandi città. Come artista non credo di poter cambiare nulla, ma posso stimolare le coscienze continuando a porre delle domande».

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