08 dicembre 2014

L’Intervista/Marco Scotini

 
Se la natura è un soggetto antagonista
Una mostra al PAV di Torino fa il punto su pratiche e artisti che fanno del mondo vegetale un mezzo di contestazione

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La vegetazione come elemento di emancipazione sociale e politico è il tema della mostra che al Pav (fino all’11 gennaio) riunisce a fianco delle opere di tredici artisti internazionali, documenti storici e scientifici, materiali d’archivio e manifesti che coprono un ampio spettro di posizioni, dall’antagonismo politico alle scienze naturali. Sullo sfondo di uno scenario geopolitico globale, dalla Guinea Bissau all’Oceano Indiano, fino al Messico, la vegetazione diventa un campo di contestazione sociale nei murales di Emory Douglas; uno strumento di resistenza politica nelle immagini proiettate all’interno della Salle Verte, realizzata in foglie di palma e bambù da RozO; il terreno su cui economia capitalista e movimenti ecologisti si misurano, nelle sperimentazioni con semi biologici per il riequilibrio del suolo di Ayreen Anastas & Rene Gabri. Abbiamo incontrato il curatore, Marco Scotini, per approfondire i temi presentati e discutere delle implicazioni storiche e sociali del mondo vegetale.
Critical Art Ensemble, Campo Sterile, 2014, installazione ambientale, terra, trattamento Roundup Ready, 700x300 cm.
All’ingresso del PAV i visitatori della mostra sono accolti da tre grandi figure di gommapiuma, tre grandi pannocchie che sostengono un cartello contro gli OGM, realizzate da Pietro Gilardi, che è il fondatore del centro d’arte torinese. Ci racconti della vostra collaborazione e di come è nato questo progetto?
«Oltre un anno fa, Piero Gilardi mi ha detto che era nel destino che prima o poi ci saremmo incontrati ed aveva perfettamente ragione! Pur venendo da generazioni molto diverse, crediamo entrambi (è una sorta di fede laica) che l’arte non sia più solo la voce espressiva interiore dei singoli, ma un progetto comune di emancipazione sociale, immaginativa e materiale. Cioè vediamo l’arte piuttosto come una facoltà di controllare e progettare la propria vita: quello che si chiama empowerment. In questo senso Gilardi è una sorta di grande maestro che, dalla fine degli anni ’60, ha attraversato l’arte non come un campo predefinito ma come un’avventura da sperimentare ogni giorno, con tutte le sue contraddizioni. E, forse, solo oggi siamo in grado di riconoscerlo definitivamente come un modello insostituibile. Sono affascinato dalla sua capacità di esodo dal successo del sistema dell’arte per abbracciare la funzione creativa ad altri livelli: all’aperto, nella fabbrica sociale, nelle pieghe più complesse del capitalismo contemporaneo post-68. Per questo è stata per me una grande esperienza selezionare con lui i materiali artistici, grafici e documentali degli anni ‘70, da esporre all’interno di Disobedience Archive (The Republic) per il Castello di Rivoli lo scorso anno. Poi è stato Piero ad invitarmi a curare un progetto dentro il nuovo contesto ambientale e vegetale del PAV. Più che un progetto espositivo tradizionale volevo fosse una sfida all’altezza dell’invito. Per questo ho voluto dare alla natura una storia e una memoria sociale, piuttosto che leggerla per il suo DNA biologico e fisiologico che la sottrae alle variazioni nel tempo. Compaiono dunque erbari dell’Ottocento, materiali degli anni ‘50 e ’70 così come molte ricerche estetiche contemporanee. Si tratta solo dell’inizio di qualcosa rispetto a cui tutti noi dovremo lavorare in futuro. Ma le pannocchie di mais di Gilardi che citavi stanno all’ingresso come un vero e proprio trilite. Nell’architrave/banner si rivendica la libertà dall’OGM per questo cereale ma è un invito più ampio alla libertà dalle gerarchie tecnocratiche dell’attuale neoliberismo». 
Piero Gilardi, O.G.M. Free
Questa mostra segna un ritorno ad un tuo precedente interesse per il tema della natura, ma soprattutto dell’uso del paesaggio e della sua addomesticazione da parte dell’uomo. C’è un legame tra “Vegetation as a Political Agent” e “Dopopaesaggio”, il progetto che hai sviluppato tra la metà degli anni ’90 e i primi del 2000 in Toscana?
«Il progetto a lungo termine “Dopoaesaggio” è stato un invito rivolto agli artisti a seminare, piantare o coltivare le erbacce. Siamo negli anni ’90 e il desiderio era allora quello di spostare l’attenzione all’idea del cantiere, agli interventi di micropolitica, agli orti comunitari, alle pratiche concrete, ai tempi lunghi, al place-making. Eravamo in campagna e, come ho detto altre volte, è stato un po’ come il Walden Pond e i boschi intorno a Concord per Thoreau. Cioè, il contesto ideale per pensare il suo pamphlet del 1849, Civil Disobedience. Di fatto poi c’è stato tutto il mio interesse per un ampliamento dell’estetica e degli elementi creativi fino ad includere i processi di trasformazione  e insurrezione sociale e che ha anche accompagnato il movimento sulla “globalizzazione dal basso”. Credo che il rapporto con l’ambiente naturale e la sua produzione contesa fosse meno visibile, ma ci fosse ancora. Se non altro in due sezioni presenti in Disobedience Archive come “Reclaim the Streets” e “Bioresistance and Society of Control”. Comunque il progetto per il PAV è ancora diverso. Si interroga soprattutto sui processi del colonialismo e sullo sfruttamento economico, sociale e culturale della natura. Ma anche e soprattutto sugli effetti di resistenza che questi processi hanno attivato nel tempo». 
Dan Halter, Mesembryanthemum Space Invader, 2014, Delosperma cooperi, dimensioni ambientali.
Le opere e i documenti esposti si muovono su un doppio registro, tra la storia e la contemporaneità: credi che in questo senso si possa parlare di pattern che si ripetono, nel modo in cui la natura viene ad interagire con la storia, come campo di confronto ideologico, politico, militare? 
« La storia dell’arte, attraverso i suoi atlanti visibili, è quella che sa più direttamente mostrare i pattern dei cicli della differenza e della ripetizione.  Mi interessano anche quei casi in cui a latitudini diverse e sotto regimi (presunti) diversi si danno uguali soluzioni allo stesso momento. In mostra al PAV ci sono alcuni casi esemplari. Mi viene in mente il murales fatto l’anno scorso da alcuni gruppi zapatisti assieme a Emory Douglas, in cui viene utilizzata una vecchia grafica di propaganda del ’69 del Black Panther Party ma al posto del fucile viene inserita una spiga di mais. Oppure la proposta dell’artista come agro-ecologista, fatta nel ’74 (con largo anticipo) da un uomo e una donna nei poli opposti della Guerra Fredda: Imre Bukta in Ungheria e Bonnie Ora Sherk in California. Oppure il palinsesto fatto dai ROZO sulle forme del colonialismo francese all’interno di una capanna vernacolare fatta di foglie di palma. O, ancora, la classificazione delle piante in estinzione che ripropone Critical Art Ensemble. Una cosa è chiara: dal Settecento in poi è il modello capitalista che non cessa di ripetersi, così come (di conseguenza) le sfide lanciate ad esso».   
In che modo lo sguardo degli artisti riesce a far emergere queste dinamiche in modo più radicale?
«Un nuovo paradigma si aggira per il mondo. È il paradigma estetico, rispetto a quello scientifico che ha dominato la modernità. Stiamo solo attenti a non confondere l’arte con tutta la “decorazione” contemporanea che ha altre genealogie e referenti entro quel mondo che l’arte stessa cerca di combattere».

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