05 marzo 2016

L’Intervista/Alessio Zemoz

 
SUL VUOTO E ALTRE STORIE
Incontro con il vincitore del Premio Fotografia Italiana Under 40, promosso da Fondazione Fotografia Modena e Sky Arte

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Classe 1985, Alessio Zemoz è il vincitore dell’edizione 2016 del Premio Fotografia Italiana Under 40, promosso dalla Fondazione Fotografia di Modena e Sky Arte, che sarà annunciato doamttina, 6 marzo, al Foro Boario della città emiliana. La giuria, presieduta da Filippo Maggia (direttore di Fondazione Fotografia Modena), e composta da Christine Frisinghelli (fondatrice Camera Austria), Shinji Kohmoto (fondatore Parasophia Festival Kyoto), Simon Njami (co-fondatore Revue Noir) e Thyago Nogueira (capo dipartimento di Fotografia Instituto Moreira Salles, Brasile) ha scelto il progetto di Zemoz tra i finalisti Gianni Ferrero Merlino, Eva Frapiccini, Marco Lachi, Tiziano Rossano Mainieri, Angelo Marinelli, Egle Picozzi, Alberto Sinigaglia, Luca Spano e Lorenzo Tugnoli. Lo abbiamo intervistato in anteprima, per raccontarvi le sue fotografie anche con le parole.
Mi parli un po’ della tua storia? Quando ti sei avvicinato alla fotografia?
«Non è poi così speciale; mi ci sono avvicinato verso i diciotto anni, in una maniera che definirei quasi privata, quando si sono verificati due episodi a distanza di qualche mese uno dall’altro. Ricordo qualche compagno di liceo che si divertiva e che produceva cose che forse oggi definirei interessanti. Io non capivo con esattezza ma ero attirato. Così ho riaperto la borsa dell’attrezzatura fotografica di mio papà, inutilizzata da molto tempo. Il mio primo approccio con la fotografia è stato analogico: una reflex anni ’80 con set di ottiche base, ma perfette per sperimentare. Ho giocato per qualche tempo, del tutto istintivo e inconsapevole. Tuttavia, a ripensarci, e stato un altro episodio che segnò in maniera netta il mio rapporto con la fotografia, avvenuto a casa dei miei nonni materni. Tra un paio di libri dedicati alla Valle d’Aosta (castelli, artigianato e cultura) e uno a Papa Giovanni Paolo II, ce n’era uno diverso: parlava di identità e tradizione, parlava di “noi altri” e lo faceva con un linguaggio diverso, con fotografie in bianco e nero, dure, composte e alcune bellissime. Quel libro non aveva niente a che fare con gli altri volumi e non capivo come e perché fosse finito lì. Non c’era niente da capire, era lì e basta. Era lì per me. Sentivo che dovevo imparare a guardare e a fotografare. Un po’ romanzata, ma è così che è cominciata la mia avventura nel mondo della fotografia». 
Alessio Zemoz Lo Vaco / Il Vuoto, 2012-2014 Immagine dalla serie, dittici e trittici, 50x40 cm ciascuna fotografia, stampa inkjet Courtesy l'artista
E poi che è successo?
«Sono tante altre le fotografie che hanno cementato la mia passione per questo linguaggio e arrivano tutte da un primo periodo di auto formazione sui testi disponibili nelle biblioteche dei comuni (pochi e incompleti), i primi corsi di tecnica e poi una decisione radicale: dopo il liceo scientifico, l’Istituto Europeo di Design di Torino. Ho atteso un anno per poter prendere la borsa di studio, senza la quale non avrei potuto avere accesso al corso, e nel mentre attivai un percorso dedicato ai linguaggi dell’audiovisivo al Dams, sempre a Torino. Poi il diploma, qualche lavoretto, tanta fatica, e il rientro in Valle dove paradossalmente ho potuto fare importanti esperienze professionali nell’ambito dell’immagine contemporanea in generale».
Il lavoro con cui hai vinto il Premio Fotografia Italiana Under 40 parla del vuoto. È un vuoto “di paesaggio” che in realtà è decisamente più sociale che agricolo. Pensi che l’aspetto documentaristico, poetico o meno, sia una caratteristica che riguarda in toto tutta la fotografia e, in generale, l’arte visiva?
«Penso che buona parte della mia fotografia abbia origine in una dimensione che può fare riferimento al documentaristico. Non sono sicuro di avere una definizione chiara, e forse è per questo che mi sforzo di esprimere strategie e soluzioni per superare i limiti, generare nuove contaminazioni e progettualità. La fotografia che amo, in fondo, fa riferimento ad un “dato” che è quello del reale. Come capita a molte persone attorno a me, anche io non abito comodamente in questo “dato reale” e forse è per questo che spesso il dato non mi risulta sufficiente per esprimere la narrazione o il sentimento della percezione. In questo senso l’episodio de Lo vàco [titolo del progetto con cui Zemoz ha vinto il Premio, n.d.r.] è particolarmente rappresentativo. Da un dato paesaggistico e antropologico, con la conseguente ricerca realizzata dall’antropologa Valentina Manella, ho trovato la maniera per far emergere un racconto personale se non addirittura intimo: da soggetto ricercante sono diventato oggetto della ricerca. Il vuoto che ho riscontrato nel paesaggio si riflette nell’ambito sociale e, spingendoci oltre, riflette una certa condizione dello spirito che spesso capita di sentirsi addosso nel voler vivere di arte in un luogo periferico».
Alessio Zemoz Lo Vaco / Il Vuoto, 2012-2014 Immagine dalla serie, dittici e trittici, 50x40 cm ciascuna fotografia, stampa inkjet Courtesy l'artista
Queste riflessioni sembrano suggerire altri pensieri sulla fotografia
«Si, questo progetto è anche l’occasione per esprimersi sui limiti della fotografia, della rappresentazione e del linguaggio per immagini (in cui credo fortemente) come strumento di conoscenza e approfondimento. Questo progetto potrebbe suggerire che la nostra civiltà vive un momento contraddittorio nei confronti del dato reale e forse è qui che nasce l’esigenza di una relazione più radicata con la sua rappresentazione. Se non è la nostra civiltà, quanto meno lo sono io: credo di vivere un momento del genere e per farvi fronte mi occupo delle fotografie, spesso in senso artigianale del termine. Per me la fotografia è un po’ come l’arte del restauro, di cui mi occupo per passione: rimette a posto le cose che uno vede, gli dà nuovo senso. Come il restauro, anche la fotografia (ri)porta in superficie l’essenza (ma fino a che punto la verità?!), con tutti i suoi segni e significati». 
Dicevi che hai studiato a Torino e che vivi in Val d’Aosta, quindi penso tu preferisca stare un po’ defilato rispetto ai grandi centri. C’è un motivo particolare?
«La ragione principale sta nel fatto che in questo territorio riesco ad esprimermi al meglio. Ciò non fa riferimento alla sola produzione artistica, ma a tutta la galassia di attività che mi vede coinvolto dedicate all’immagine in generale. Vivere in un grande centro non mi permetteva di fare la fotografia di cui avevo bisogno. Non si sono verificate le condizioni per poter restare in un grande centro. Non si sono verificate per me, per tante ragioni, anche economiche. Avere l’ambizione di vivere in montagna per l’arte o la fotografia d’arte contemporanea è una condizione difficile ma stimolante. È un territorio straordinario ma spesso duro da affrontare. Ho avuto ottimi maestri e pessimi esempi, e ho imparato da entrambi, ma poi alla fine tutti si allontanano da un contesto difficile come quello della montagna». 
Alessio Zemoz Lo Vaco / Il Vuoto, 2012-2014 Immagine dalla serie, dittici e trittici, 50x40 cm ciascuna fotografia, stampa inkjet Courtesy l'artista
Mi racconti del progettoSKIA, visto che riguarda la fotografia contemporanea di e in montagna?
«ProgettoSKIA è nato a Torino e aveva, ed ha tutt’ora, come obiettivo quello di rispondere alle esigenze di alcuni giovani di realizzare progetti di fotografia d’autore. Dal punto di vista etimologico skia deriva dal greco antico e può significare ombra, figura apparente, fallace visione: una straordinaria definizione di fotografia, e del nostro modesto frugare nelle (nostre) ombre. Dopo una fase di riprogrammazione SKIA trova il suo contesto ideale in montagna che è concepita dai suoi promotori come luogo ideale di espressione e libertà creativa, nel merito di tutte le tecniche, i generi e gli ambiti. Pertanto l’obiettivo di progettoSKIA è quello di elaborare, sostenere curare produzioni artistiche che si confrontino direttamente con la realtà della montagna o che semplicemente in essa trovino il contesto ideale per la realizzazione. Questo significa che stiamo lavorando per generare le condizioni per ospitare, assistere ed eventualmente proporci in una logica di servizio verso gli artisti interessati. Oltre a questi aspetti, progettoSKIA si pone anche come soggetto attivo nell’ambito della progettazione e del fundraising».
Come si svolge la tua giornata di fotografo? Scatti compulsivamente, per esempio con lo smartphone, o prima di fissare qualcosa fai sopralluoghi, passi tempo in un’area, cerchi di conoscere il territorio più a fondo?
«Senza dubbio i miei processi sono lunghi. Amo principalmente progetti a lungo termine e per i quali serve buona preparazione. In effetti prima di scattare studio e preparo le condizioni ideali dentro le quali poi mi posso muovere. Devo dire che la fase di produzione è articolata e complessa: ho bisogno di fissare a lungo ma anche di sperimentare molto. Però non scatto compulsivamente. Per indole, pubblico poco: ripongo una grande fiducia in un media tanto fragile e ambiguo (e per questo meraviglioso) come la fotografia. In effetti eseguo verifiche e indagini nei e sui contesti di cui mi occupo». 
Che rapporto hai con la tecnologia?
«Rispetto al progresso tecnologico in genere ho un buon rapporto, spesso esigente. Nel contesto della fotografia mi ritengo attento, ma non feticista. Ogni progetto ha le sue peculiarità e non necessariamente la tecnologia più all’avanguardia risponde alle esigenze. Dal punto di vista personale non sono social».
Alessio Zemoz Lo Vaco / Il Vuoto, 2012-2014 Immagine dalla serie, dittici e trittici, 50x40 cm ciascuna fotografia, stampa inkjet Courtesy l'artista
Quali sono i fotografi a cui guardi come modelli di riferimento?
«Amo incondizionatamente alcuni autori, grandi classici per dirla tutta, per ciò che hanno prodotto e per ciò che ho potuto apprendere della personalità artistica e individuale, a volte per affinità o per ammirazione, e tra questi mi viene da citare Mario Giacomelli, Paolo Gioli, Guido Guidi, Ugo Mulas, e gli americani Minor White, Stephen Shore, R.E. Meatyard, ecc. Poi ci sono autori ai quali mi ispiro per diverse ragioni, progettuali, artistiche, estetiche o concettuali come Niedermayr, Axel Hutte, Joachim Shmid, Franco Vaccari. Infine guardo con particolare interesse a tutta quella serie di progettualità contemporanee come possono essere quelle portate avanti da Armin Linke o Matteo Balduzzi. Con l’altro occhio, se così posso dire, guardo con ammirazione e rispetto al lavoro dei giovani autori contemporanei, anche di quelli dei finalisti di questo premio che spesso ho osservato con interesse (non nascondo un certo imbarazzo nei loro confronti per essermi aggiudicato il premio poiché il livello dei progetti è particolarmente alto). Infine pongo particolare attenzione al contesto dell’editoria del prodotto fotolibro, ambito che mi appassiona da sempre. Dalle montagne, luogo periferico e per certi versi (auto)isolato, è sempre un po’ difficile rendersi partecipi di questo mondo della fotografia. Sono anche molto interessato allo sviluppo dei discorsi sulla fotografia: leggo molto e curo con attenzione l’area teorica e critica del linguaggio». 
Dimmi cosa non ti piace della fotografia attuale, o del modo di praticarla.
«Non sono sicuro di avere la maturità per esprimermi nel merito. Tendenzialmente vorrei permettermi di dire tutto quello che ho da dire dentro ai miei progetti».
Su cosa stai lavorando ora, e cosa pensi ti porterà questo riconoscimento?
«Sto lavorando sui concetti di identità e territorio in riferimento al concetto di Europa, in senso politico e culturale. E poi alcuni progetti in cantiere di carattere più personale. E anche ad alcune attività che hanno come obiettivo quello di ospitare e sostenere produzioni di giovani artisti sul territorio. Prestissimo potrò dire di più. Mi auguro che questo riconoscimento mi aiuti a stabilizzare la condizione lavorativa, rafforzando la percezione sulle progettualità ideate. Quello che serve in questa fase è un rafforzamento della prospettiva e dunque la conseguente apertura alla continuità nel merito delle produzioni e in generale della ricerca e del racconto della realtà alpina, che sia personale o condivisa. Uno slancio verso una nuova consapevolezza per me e per tutti gli operatori del territorio e non. Mi auguro che questo riconoscimento mi aiuti a trasmettere e a condividere in maniera più incisiva la passione per questa progettualità articolata e complessa che è stata attivata. Mi auguro di poter continuare a lavorare e a costruire».

Matteo Bergamini

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