28 luglio 2016

Crescere uguali tra diversi

 
Parla Alessandro Valeri
Il fotografo racconta la sua esperienza presso l’orfanotrofio di Tzippori in Galilea che ospita bambini arabo-israeliani

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Un tappeto di matite colorate ci accoglie nel corridoio d’ingresso, e siamo costretti a passarci sopra per raggiungere la grande sala della Pelanda del Macro Testaccio, che ospita “Lasciami entrare”,  la mostra di Alessandro Valeri a cura di Micol Veller Fornasa aperta fino al 28 agosto.
Evoluzione naturale dell’esposizione presentata a Venezia durante la scorsa Biennale nell’affascinante sede del Molino Stucky curata da Raffaele Gavarro, e del libro realizzato per promuovere il progetto e raccogliere fondi, “Lasciami entrare” è parte di un progetto più grande, Sepphoris, iniziato da Valeri nel 2011 e continuato a più riprese negli scorsi anni. 
Il titolo trae ispirazione dalla cittadina Tzippori, Sepphoris in greco antico, situata in Galilea vicino Nazareth, dove un gruppo di suore gesuite gestisce un orfanotrofio, con l’aiuto di operatori cristiani, ebrei e musulmani. L’istituto accoglie bambini di tutte le etnie e senza alcuna distinzione di appartenenza religiosa. 
Qui, durante le sue visite, in punta di piedi l’artista multimediale ha raccolto, attraverso un gruppo di scatti e un video, la vita dei 70 ragazzi e le loro storie quotidiane, fatte di oggetti semplici e a noi familiari: armadietti, libri, un pallone o un peluche di Topolino. Il percorso espositivo negli spazi della Pelanda raccoglie le tracce delle vite dei bambini di Tzippori, evocate non solo dalle foto e dalle matite, che tornano anche nella stanza principale, ma da un vecchio banco di scuola sospeso al soffitto, simbolo di un diritto all’istruzione troppo spesso negato. A rendere ancora più tangibile l’esperienza dei bambini è un video. Mentre fuori imperversa la guerra, dentro il suono delle ventole dell’aria condizionata, il rumore bianco di un neon, i disegni appesi ai muri, la luce fredda, scandiscono le giornate dei bambini. Se al nostro passaggio le matite si spezzano, e il lavoro fotografico di Valeri ci pone di fronte alla tristezza dell’infanzia negata, la conclusione del percorso espositivo apre verso una possibilità. L’ultima foto è l’unica immagine dei protagonisti di questo racconto ritratti in un momento di gioco e riaccende in noi la speranza perduta durante il percorso. Dopo aver visto la mostra era necessario incontrare l’artista, per scoprire di più sull’urgenza che lo ha portato a voler parlare di questo luogo.
Raccontaci cosa hai trovato una volta atterrato a Tzippori, qual è lo scenario in cui si colloca l’Istituto?
«L’orfanotrofio si trova in un territorio Palestinese, nel nord di Israele, zona in cui nei cieli volano gli aerei che vanno dalla Siria a bombardare il Libano o viceversa, una terra in pieno conflitto, un territorio occupato, ex palestinese, dove gli arabi musulmani e i cattolici non hanno mai avuto una facile convivenza, e dove in molti sono morti per la propria religione. L’orfanotrofio accoglie bambini con storie terribili, con famiglie disastrate, impossibilitate a prendersi cura dei propri figli. Questi bambini, di tutte le etnie e religioni, ma per lo più arabo-israeliani, vengono accuditi in un luogo il cui cuore è un rifugio antigas, dove non c’è altro che una serie di letti e dei giochi. Perché, se intorno a questa zona protetta accade qualcosa, non cadono bombe dal cielo, ma viene liberato un gas letale, che costringe i ragazzi a vivere e giocare per due settimane rinchiusi in queste stanze». 
Cosa distingue questo luogo dalle missioni e da altri istituti simili?
«La cosa che mi ha colpito è che le suore Gesuite, che definirei tre partigiane, guidate da Suor Clementina, hanno scelto di operare in luoghi in cui non è possibile evangelizzare la popolazione, quindi i ragazzi che abitano l’istituto continuano a professare la propria religione, non solo rispettando l’altro, ma fungendo da esempio di una società in cui la convivenza è possibile. Queste donne con la loro propensione alla maternità, in maniera molto semplice, riescono a mettere in pratica la tolleranza in un’area piena di conflitti e di contraddizioni, sfruttando quella potenza che i bambini hanno nel rappresentare una possibilità di cambiamento. Il fatto che bambini di culture diverse, che al di fuori si uccidono e si massacrano per motivi religiosi, crescono insieme, e convivono in pace, restituisce il valore dell’azione umana, dice molto rispetto a quanto sia l’individuo il motore del cambiamento». 
E proprio il cambiamento sembra essere l’obiettivo della tua opera, giusto? La cui funzione, peraltro, non è solo sensibilizzare il pubblico riguardo una data faccenda, ma è un cambiamento reale, messo in moto attraverso l’arte e l’azione dell’uomo. 
«Senza nessuna retorica della sofferenza ed attraverso un potere che ho, ma che scelgo di non esercitare conferitomi dalla posizione di artista rispetto al sistema dell’arte, ho scelto di donare le mie opere all’orfanotrofio, innescando così un nuovo sistema che porta il collezionista interessato all’acquisto a doversi confrontare direttamente con l’istituto e donare a sua volta i soldi necessari a risolvere uno dei molti problemi della struttura. Letti, armadi, un furgone, ristrutturazione delle stanze, lavori di messa in sicurezza, in cambio di un’opera d’arte. Ed è così che il cambiamento dello spazio espositivo della Pelanda, messo in atto dal lavoro compiuto attraverso l’allestimento della mostra, ha prodotto un cambiamento anche nelle condizioni dell’edificio a Tzippori». 
E in che modo si può dare una possibilità al cambiamento anche qui da noi? 
«Attraverso i bambini, che hanno una predisposizione naturale alla tolleranza. In questa mostra abbiamo dato molta importanza all’aspetto didattico, sono venuti molti ragazzi e moltissime scuole. Credo che questo sia un obiettivo importante per creare un esercito di persone che pratichi la tolleranza. Da molti questo mio progetto è stato considerato un lavoro sul dialogo interreligioso, forse proprio per questo aspetto didattico presente anche nell’allestimento della mostra. trovandosi nel centro della sala alla Pelanda ci si immerge in uno spazio ricco di elementi diversi, che hanno molteplici chiavi di lettura. Ogni foto, le matite, il banco di scuola, il video hanno un valore estetico a se stante, ma averle inserite in un percorso è stata una scelta precisa. Micol Veller, che ha curato questa mostra e con cui collaboro da tempo, ed io abbiamo voluto creare uno spazio sinestetico, che coinvolgesse lo spettatore, per attrarlo e poi fargli percepire il messaggio. Anche questo è un’ulteriore aspetto didattico della mostra». 
Roberta Pucci

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