24 gennaio 2017

La resistenza è una forma di esistenza

 
A parlare è Sislej Xhafa, artista kosovaro e apolide. Tornato in Italia per il rito millenario della Fòcara. E che in questa intervista si racconta e dice la sua sull’arte. A 360 gradi

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Artista tra i più interessanti e sensibili del panorama internazionale, Sislej Xhafa è stato, insieme a Daniel Buren e H. H. Lim, uno dei protagonisti della Fòcara 2017, spettacolare evento che il 16 gennaio di ogni anno si celebra a Novoli, piccolo e laborioso centro alle porte di Lecce, per omaggiare il santo patrono, Sant’Antonio Abate. Invitato dal curatore nonché direttore di Focara Arte Giacomo Zaza, l’artista ha omaggiato la monumentale pira – vera e propria architettura contadina realizzata con tralci di vite, alta 25 metri e larga 20 – con una performance essenziale nei mezzi e raffinata nei contenuti, com’è nel suo stile, al tempo stesso ironico, perspicace e profondo. “Albanese del Kosovo” come ama definirsi, ma di stanza a New York, Xhafa ha alle spalle anche un lungo periodo di permanenza in Italia, legame rinsaldato in tempi recenti dall’ampia retrospettiva “Benvenuto!” ordinata al MAXXI e ora da Segment on the air, lavoro performativo oppositamente pensato per il plurisecolare rito pugliese, per la prima volta alle prese con poderose – è per certi aspetti vincolanti – misure antiterroristiche, aspetto che non ha lasciato indifferente l’artista che ha riflettuto sull’eccesso-difetto di protezione e sulla difesa del fragile e dell’indifendibile, senza rinunciare alla consueta ironia che da sempre contraddistingue il suo lavoro, incline spesso al paradosso e al non-detto. Lo abbiamo incontrato per farcelo raccontare nel dettaglio. 
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Sei nato in Kosovo, hai vissuto in Italia e ora sei negli Stati Uniti. “Quella che mi descrive – hai detto – è una realtà fluttuante”. Quali circostanze ti hanno portato a trasferirti da un paese all’altro? 
«Resistenza come forma di esistenza. Si esiste perché resistiamo. Oggi si deve pensare allo stare al mondo come ad una forma di resistenza esistenziale, specialmente chi, come noi, si impegna nel mondo dell’arte. Oggi sono in Italia, domani sarò negli Stati Uniti, dopodomani, chissà, sarò altrove. È questa la mia esistenza: dinamica, fluttuante e organica. Non ho altro modo di intendere e immaginare la vita». 
Tra i tuoi lavori più significativi vi è il Padiglione Clandestino Albanese alla Biennale di Venezia del 1997. Ci spieghi come è nata e come si è svolta quell’esperienza?
«Il Padiglione Clandestino Albanese è nato dall’esigenza di indurre il pubblico ad interrogarsi sul sistema dell’arte, sulle sue differenze interne. Com’era possibile che una nazione piccola come il Lussemburgo avesse un padiglione e invece non lo avesse una nazione grande come l’India [la prima partecipazione ufficiale dell’India alla Biennale risale al 2011]? La performance puntava a suscitare delle domande sulla partecipazione alla Biennale in termini di inclusione-esclusione. Cosa determinava nel sistema dell’arte l’esclusione di molti Paesi emergenti che pure avevano molto da dire e mostrare? È nata da questa domanda l’idea di un padiglione mobile, sfuggito all’architettura e, per estensione, al sistema. Ero uno studente, non ero stato invitato e mi intrufolai nei giardini della Biennale tra i padiglioni della Russia e del Giappone, con zaino sulle spalle e abiti da calciatore. Il Padiglione Clandestino Albanese voleva essere un simbolo, una metafora di questo meccanismo di inclusione-esclusione e puntava ad instaurare al suo interno un gioco leale».
Oggi in Albania le arti contemporanee stanno progredendo. Molti sono gli artisti di origine albanese che hanno raggiunto la fama internazionale e diversi sono gli spazi dedicati all’arte che stanno nascendo nella tua terra. Qual è il tuo punto di vista a riguardo? 
«La fame intellettuale è un’arma straordinaria. Io e tanti altri artisti albanesi abbiamo riflettuto e riflettiamo sui cambiamenti del mondo di oggi. Certo non sappiamo come sarà concretamente il domani ma la voglia di scoprirlo rimane intatta e questo costituisce per la mia terra una grande speranza: curiosità intellettuale come possibilità di confrontarsi con il tempo facendo dell’arte una forma di resistenza e sopravvivenza».
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L’Albania e il Kosovo hanno in comune esperienze storiche tragiche: dittatura, guerra, emigrazione di massa. Quanto pensi queste vicende abbiano influito sulla riflessione sugli artisti? 
«Il Kosovo e l’Albania hanno in comune la lingua e la gente, ma geograficamente sono divisi per esigenze politiche del passato. La natura ci ha uniti ma la politica ci ha divisi. Abbiamo vicende storiche differenti, ma siamo un unico popolo. Può darsi che in futuro gli abitanti del Kosovo si definiranno kosovari, ma al momento io mi sento un albanese del Kosovo benché sia cosciente che l’identità non è statica ma mutevole e soggetta a cambiamenti. Il popolo del Kosovo è al momento un insieme di etnie e questa è una grande risorsa per il mio Paese. Noi albanesi, in particolare, abbiamo subito le conseguenze della storia, in particolare quelle della Conferenza di Berlino del 1878 e della Conferenza di Londra del 1912. La grande potenzialità di paesi come Albania e Kosovo è oggi la curiosità della propria gente, quella fame intellettuale di cui parlavo prima. Una vitalità che si mette in atto non con mezzi tecnologici avanzati, come quelli disponibili altrove, ma con le risorse, anche semplicissime, presenti sul territorio, il tutto in modo estremamente creativo. Al vittimismo preferiamo guardare al futuro. Sono molto ottimista rispetto all’energia e alle potenzialità delle giovani generazioni». 
Di frequente affronti, con sguardo ironico e disincantato, cogenti tematiche socio-politiche, siano esse generali o afferenti la storia di un luogo. Pensi che il ruolo dell’arte sia raccontare la storia di un popolo?
«Non puoi restare indifferente di fronte alle sofferenze del posto in cui sei nato. Il luogo della mia nascita è un posto sacro per me però non voglio abusare della storia del mio Paese. Io voglio che la mia storia e il mio essere si riflettano nel tempo e nel luogo che attraverso per creare di volta in volta qualcosa di eccezionale e di magico. Non possiamo essere insensibili alle ingiustizie, come uomini ancor prima che come artisti. Se pensi alla forza delle opere di Goya ti rendi subito conto di quanto sia tuttora viva e attuale. Le opere come gli uomini mutano nel tempo. Le opere, in particolare, re-inventano il proprio tempo. È questa la vera forza – inconsapevole – dell’artista: creare opere in grado di reinventare continuamente il tempo. Io ad esempio per farlo uso l’ironia, che non va confusa con l’umorismo che è caduta nel ridicolo. L’ironia lascia spazio alla partecipazione, aspetto per me fondamentale perché sono convinto che l’arte sia l’unica vera democrazia. L’artista quindi non può cambiare il proprio tempo, ma deve porre domande per far riflettere».
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Che cosa vuol dire per te essere un artista?
«Al termine “artista” preferisco il francese engagé che si può tradurre come “persona impegnata” sotto tutti i punti di vista (economico, sociale, culturale, ecc.). Nel 2006 mi sono recato al Comune di Roma per chiedere la carta d’identità. Quando mi hanno chiesto che lavoro facessi ho risposto “artista”. L’impiegato mi ha chiesto di essere più preciso e gli ho detto: “faccio performance”. Non sapendo di cosa stessi parlando sul documento ha scritto “disoccupato”. Questa è stata per me un’esperienza straordinaria perché mi ha portato a chiedermi cosa volesse dire concretamente “essere un artista”. Ha invece un preciso significato essere un “uomo impegnato”. Impegnandoti nei più svariati campi riesci a ricavare dalla tua libertà qualcosa di magico. Questo per me è il ruolo di distinguished, come si dice in inglese, di una persona che si distingue grazie ad una sensibilità diversa e che riesce a trasformare l’esperienza in un prodotto essenzialmente immateriale come l’arte. Negli Stati Uniti esiste una legge molto interessante che prevede la extraordinary ability, che consente ad artisti e scienziati di fama internazionale di essere ospitati senza problemi. L’America riconosce in loro delle grandi risorse e questo rappresenta una delle ragioni fondamentali della sua grandezza e della sua forza».
Hai dichiarato: “La realtà è più forte dell’arte. Come artista non mi interessa riflettere la realtà, ma voglio interrogarla e metterla in discussione”. Tra i tuoi lavori quali credi più di altri abbiano raggiunto lo scopo?
«È difficile per me rispondere a questa domanda perché quando penso ai miei lavori passati mi sembra di non averli realizzati. Non conosco forme di possesso. Le mie performance una volta realizzate non appartengono più a me, ma al mondo». 
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Giacomo Zaza ti ha invitato a riflettere su un rito plurisecolare qual è quello della Fòcara di Novoli. Ci racconti il tuo intervento e quale aspetto più di altri ti ha affascinato del rito?
«In Segment on the air ho invitato cinque addetti alla sicurezza e li ho esortati a giocare con un palloncino rosa. Era importante che tutto avvenisse con la massima naturalezza. Mentre gli uomini rimandavano ad un’idea di protezione e mascolinità, il palloncino rosa rinviava a qualcosa di fragile, diventando metafora della nostra fragilità, della nostra perenne insicurezza. Inoltre il rosa rappresentava quella necessaria nota ironica ed estetica presente in tutti i miei lavori, utile in questo caso a sdrammatizzare l’austerità della Fòcara, a romperne l’uniformità cromatica e a favorirne la partecipazione del pubblico. Tra tutti gli aspetti della Fòcara quello che più mi ha interessato è l’umanità».
Quale contributo – artistico, umano e sociale – pensi di aver dato alla comunità di Novoli e a quanti hanno assistito alla tua performance?
«Il rapporto con l’opera d’arte per me è democrazia pura. Per questo non mi aspetto nulla. Mi interessa molto il rapporto con il pubblico e cerco la partecipazione della gente ma non mi pongo obiettivi precisi. Ciò che mi interessa prioritariamente è sfidare me stesso. L’arte deve porre delle domande è non dare soluzioni. L’arte è per me resistenza e sopravvivenza».
Nel tuo lavoro indaghi di frequente il vivere comune e, per suo tramite, le problematiche afferenti il mondo contemporaneo. In una società compromessa come la nostra, secondo te quale ruolo può assumere la sopravvivenza, il perpetrarsi e il rinnovarsi di un rito antico come quello della Fòcara?
«È una grande sfida per gli artisti ma anche un considerevole impegno per un’intera comunità. Far dialogare una storia millenaria con il presente e il prossimo futuro ritengo sia qualcosa di straordinario che coinvolga non soltanto l’artista e il curatore ma tutto il pubblico». 
Carmelo Cipriani

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