07 maggio 2019

BIENNALE/ L’artista

 
IL SENSO DI LILIANA MORO PER LA LEGGEREZZA
Incontro ravvicinato con una dei protagonisti del Padiglione Italia

di

Italo Calvino? Le “Lezioni americane”? La leggerezza è la prima associazione di idee che viene spontanea, pensando a questo suo libro postumo. Prendere la vita con leggerezza. «Che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto», per dirla con le sue parole. Tutto ciò, lo sappiamo, ha avuto un enorme successo, tanto da diventare persino un modo di dire. E lo sa bene, tra gli altri, Liliana Moro (Milano, 1961) che ogni giorno, ormai da anni, proprio per “sottrazione di peso” – Calvino docet – scava il tempo passato, incide nella materia della storia per condurla oltre. Emblematica, al riguardo, è stata la sua proposta (purtroppo rimasta sulla carta) – di fronte all’invito a partecipare alla nona edizione di Documenta del 1992 – di installare una Fiat Cinquecento che, perennemente in moto, tentasse invano di trainare con un cavo la pesante struttura del Fredericianum, sede della mostra in cui erano esposte le opere dei protagonisti della stagione dell’Arte Povera. Di lei, Milovan Farronato ha detto: «Lavorando con diversi materiali e in diversa scala, Liliana Moro ha attitudine all’essenzialità. Da non confondersi con uno stile minimal, il suo fare netto e preciso porta alla creazione di gesti apparentemente semplici che, proprio in quanto tali, si aprono a una miriade di interpretazioni diverse. Poetica ma non romantica, Moro mette in gioco contenuti e oggetti d’uso comune non tanto per illustrarli quanto per rivisitare la loro funzione originale e invitarci ad andare oltre ciò che è visibile». Ma per sapere di lei direttamente da lei, l’abbiamo intervistata a pochi giorni dal varo di questa 58° Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. 
Come definiresti Liliana Moro?
«Un’estroversa solitaria».
Cosa stavi facendo quando hai saputo di essere stata invitata al Padiglione Italia della prossima Biennale di Venezia?
«Era giugno ed ero appena atterrata a Londra, quando mi è arrivato un messaggio di Milovan Farronato che mi annunciava la sua nomina a curatore del Padiglione Italia e, di conseguenza, la mia partecipazione. È stata una bella coincidenza. Ero lì perché, insieme a Milovan, dovevo presentare al Fiorucci Artrust una piccola pubblicazione uscita in occasione della mia mostra personale da Almanac».
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Liliana Moro La spada nella roccia 1998 Vetro soffiato 100 x 65 x 60 cm Courtesy Galleria de’ Foscherari, Bologna
Quando è iniziato il tuo sodalizio professionale con Milovan Farronato? 
«Ci siamo conosciuti molti anni fa. Milovan era a Milano da poco e, se non ricordo male, venne a un’inaugurazione alla galleria di Emi Fontana. Abbiamo lavorato spesso insieme, il momento più importante è stato nel 2008: una mia personale, curata da lui, in occasione dell’inaugurazione dello Spazio di Via Farini /Care of alla Fabbrica del Vapore».
Quali aspettative hai da questa Biennale?
«Non ho particolari aspettative personali. Credo molto nel progetto che presenteremo, c’è stata una grande sintonia e un ottimo lavoro di squadra».
Con quali opere sarai presente nel labirinto ideato da Farronato?
«Ho diverse opere in mostra che vanno dai miei primi anni di ricerca fino a oggi. Ci sarà anche una scultura eseguita per l’occasione e un’opera inedita, fatta di tante piccole opere non nuove. Le opere sono sparse nel labirinto e s’incontrano con quelle di Enrico David e di Chiara Fumai».
Cosa vuoi che accada con la visione al pubblico dei lavori che esporrai?
«È sempre difficile rispondere a questa domanda. Il pubblico della Biennale è talmente eterogeneo… Mi auguro che per alcuni sia una scoperta mentre per altri una conferma.  Comunque, mi aspetto un pubblico aperto, curioso e che non tifi contro!».
Quali sono gli artisti e le opere della storia dell’arte che più ti hanno influenzato?
«L’artista: Piero Manzoni. L’opera che ha veramente cambiato il mio modo di vedere è La Base del Mondo (Socle du monde) del 1961. Tuttavia, è stato l’incontro con Samuel Beckett a condurmi all’arte».
Quello con Luciano Fabro immagino sia stato l’incontro più significativo per la tua formazione. Hai qualche aneddoto legato alla sua conoscenza ancora vivido nella memoria? 
«Ho frequentato il suo corso all’Accademia di Brera a Milano. È stato indubbiamente un incontro importante che ha lasciato una traccia profonda in quello che chiamo “l’agire da artista”. Gli sono grata di avermi portato nel 1984 a lavorare con lui, insieme a altri compagni di corso, in occasione di Ouverture, la mostra di apertura del Castello di Rivoli. È stata un’esperienza bellissima».
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Liliana Moro La Passeggiata 1988 70 paia di pattini in ferro fatti a mano, rotelle, catena Dimensioni variabili Courtesy Galleria de’ Foscherari, Bologna
I tuoi primi passi da artista risalgono agli anni Novanta. Come li descriveresti? 
«Gli anni ’90 per me rappresentano l’inizio. Nel 1989, insieme ad altri artisti, per la maggior parte compagni di accademia, abbiamo aperto lo Spazio di via Lazzaro Palazzi a Milano. Un’esperienza che mi ha dato modo di crescere, di capire e, cosa fondamentale, di mettere il mio fare in relazione con gli altri. Più in generale, direi che erano anni antieroici e antistoricistici. Gli artisti emergenti non riconoscevano padri o maestri, amavano la relazione, ma detestavano i gruppi e le tendenze e sfuggivano le categorizzazioni».
Una delle chiavi di lettura del tuo percorso è la sperimentazione continua dei materiali. Ci tracceresti brevemente le tue principali tappe di ricerca a seconda dei materiali che hai via via utilizzato?
«Mi piace sperimentare. La scelta dei materiali è un momento fondamentale nella realizzazione del lavoro. Non si deve sbagliare. Io utilizzo molti materiali: vetro, bronzo, ceramica, neon, ma anche oggetti già esistenti. Nei miei primissimi anni di ricerca ho impiegato maggiormente oggetti del quotidiano, come il frigorifero di casa mia per l’opera No Frost (1990), e l’ho fatto non soltanto per ragioni di budget. Un materiale – io lo considero così – che ho usato spesso e con costanza è il suono: dal mio primo lavoro nel 1986 a oggi».
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Liliana Moro né in cielo né in terra 2016 Neon 173 x 16 cm Courtesy Francesco Pantaleone, Palermo/Milano
Lungo il tuo percorso artistico ti sei imbattuta nella gallerista Emi Fontana. Ci racconti come l’hai conosciuta? Cosa ha rappresentato per te, poi, la chiusura della sua attività? 
«Ho conosciuto Emi Fontana verso la fine degli anni ’80, non aveva ancora una sua galleria, ma era già molto attiva sulla scena milanese. Nel 1992 ha aperto il suo spazio espositivo con una mostra di sole artiste dal titolo Peccato di novità, e mi ha invitata. Da qui ha avuto inizio il nostro rapporto che è durato quasi vent’anni, uno scambio di lavoro e umano molto fertile, molto importante, basato sull’amicizia e sulla stima reciproca. Mi è dispiaciuto moltissimo quando nel 2009 ha deciso di chiudere la galleria: ho fatto io l’ultima mostra. Naturalmente mi manca e penso che a Milano manchi una figura come la sua».
Che cosa pensi del rapporto tra l’arte contemporanea e la politica?
«L’arte è politica».
Pensi che l’artista sia ancora in grado di incidere sulla realtà?
«Non credo che l’artista abbia il potere di incidere veramente sulla realtà; ha però la possibilità di allargare la visione, di far riflettere in maniera diversa su tanti aspetti della realtà».
Qual è la tua giornata tipo?
«La mia giornata tipo è questa: mi alzo, prendo diversi caffè, fumo una sigaretta e vado allo studio». 
E il tuo atteggiamento verso la spiritualità e la religione?
«La spiritualità è ricerca continua di qualcosa che è già in noi. La religione, invece è, prima di tutto, un codice. Io credo fermamente in alcuni valori come, per esempio, il rispetto verso gli altri.  Anche se, a volte, certi esseri umani mi fanno vacillare!».
Con chi vorresti fare un duetto artistico? Un progetto a quattro mani?
«Mi è sempre piaciuto collaborare con altri artisti. Fammi pensare…con Bruce Nauman!».
Programmi futuri?
«Un viaggio, spero. Vorrei andare in Giappone».
Cesare Biasini Selvaggi

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