01 luglio 2013

Arte e Etica/2

 
Parola oggi abusata, l’etica. Ma qual è il rapporto che si instaura (se si instaura) tra questa e l'arte? E perché, non solo è lecito porre questo legame ma, forse, è addirittura necessario? La risposta, probabilmente, sta nel venir meno della funzione imitativa della realtà da parte dell’arte. E nel suo essere capace di "farsi reale". Ecco, di seguito, la seconda parte di questa riflessione intorno alla parola più in voga dell’anno

di

Mona Hatoum, Bunker, 2011

Prima di entrare nel vivo di alcune opere che restituiscono il senso di questi ragionamenti, occorre fare qualche precisazione.
Parlando di arte ed etica, o per inevitabile quanto impropria estensione, di arte etica, sembra ci si voglia riferire ad un’arte che si occupa del bene collettivo. È una tesi suggestiva, confortata dalla convinzione che tutti pensiamo che l’arte abbia sempre avuto una funzione sociale e che quindi abbia esercitato un’influenza positiva sulle società. Anche se, nonostante questa convinzione, nessuno ha mai potuto ritenere l’arte come quell’attività umana in grado di dare indicazioni morali alla società. 
Nella nostra attualità pare inevitabile ritenere che parlando di arte ed etica ci si riferisca solo ad un’arte impegnata nel sociale o di tipo politico. Queste ultime sono modalità incluse ma non esclusive, nel senso che l’etica appartiene all’arte in un senso più esteso di quello imposto da singole tematiche o da generi. 
Se leghiamo, come abbiamo fatto, l’arte alla realtà in un senso non descrittivo o narrativo, ma di partecipazione ad essa, con le modificazioni che ne possono conseguire, è chiaro che non è l’argomento ad essere decisivo per una qualificazione etica dell’arte. 
Nondimeno appare evidente che partecipare ed interagire con una dimensione privata della realtà è una cosa diversa dall’intervenire in quella pubblica. Ecco, forse qui è l’ambito nel quale la vocazione etica dell’arte trova possibilità di assunzione concrete. Certo, tutta l’arte che viene esposta è pubblica per definizione, ma solo una parte di essa prevede un predeterminato e consapevole utilizzo in quelle aree del nostro spazio e della nostra vita che condividiamo con gli altri. 
Il ruolo etico dell’arte in queste zone appare imprescindibile.
Aram Bartholl, Dead drops, 2010

Partiamo da un lavoro che nasce e agisce in un contesto collettivo, e che appartiene dunque all’ambito dell’Arte Pubblica, cioè di quell’arte che è fruibile nelle aree comuni dei centri urbani e non. Si tratta di Dead drops del 2010 di Aram Bartholl, artista nato a Brema nel 1972 e basato a Berlino dal 1995 (http://deaddrops.com/). 
Dead drops è un progetto che concede veramente poco a qualsiasi percezione di tipo estetico. Il lavoro consiste in una serie di penne USB cementate nei muri degli edifici di una città, che nello specifico del 2010 era New York. Le penne sono disponibili per caricare o prelevare file, in una sorta di peer to peer urbano e reale. L’opera crea la possibilità di scambio tra gli utenti dello spazio collettivo, che in questo caso è una città, o un quartiere. Tra l’altro l’opera è replicabile da chiunque voglia in qualsiasi altra città, basta dichiarare la replica sul sito, nel quale vanno indicate le posizioni precise delle USB. Dead drops utilizza una forma low tech rispetto alle attuali possibilità di scambio nel web, e lo fa imponendo una forma di esperienza reale nella trasmissione della conoscenza. Nessuno è in grado di controllare e di impedire che qualcuno si colleghi alla USB e scarichi un virus che attaccherà il computer del prossimo utente. Una possibilità tutt’altro che etica, ovviamente. Ma è una considerazione che ha poco a che fare con l’intenzione dell’artista. Sempre di un’opera che agisce direttamente nella dimensione pubblica si deve parlare a proposito di Waiting for Godot in New Orleans del 2007 di Paul Chan (http://www.creativetime.org/programs/archive/2007/chan/welcome.html).
Paul Chan, Waiting for Godot in New Orleans, 2007

Il lavoro è una messa in scena della famosa opera teatrale in due atti di Beckett, in un quartiere della città di New Orleans devastata dall’uragano Katrina nel 2005. È un’opera complessa che non intende solo far riflettere sull’angosciante e infinita attesa della ricostruzione che coinvolge gli abitanti di New Orleans, ma che vuole interagire direttamente con il luogo e con chi lo vive. Paul Chan lavora per nove mesi alla rappresentazione, coinvolgendo artisti locali, attivisti politici e associazioni e inoltre crea lo Shadow Fund che raccoglie denaro per aiutare la ricostruzione. Nato Thompson, curatore e produttore della Creative Time, organizzazione americana no-profit con base a New York, che si occupa di realizzare progetti di artisti in cui si sperimentano nuove possibilità di azione dell’arte come processo democratico, sintetizza il senso dell’opera di Chan in modo molto chiaro: «More than a play, Waiting for Godot in New Orleans is a socially engaged performance at the heart of a national crisis, and direct support to the community is an essential component of the project».
La necessità di ridefinire il ruolo dell’artista nell’attuale contesto sociale e culturale è una questione essenziale nel lavoro di Massimo Grimaldi. Ridefinizione che pone in primo piano la natura etica del proprio agire. Nel 2009 Grimaldi ha vinto il concorso MAXXIduepercento, con l’opera Emergency’s Paediatric Centre a Port Sudan Supported by MAXXI. Ha deciso di destinare la somma di 643mila e 800 euro, corrispondente al 92 per cento del compenso previsto dal bando, alla costruzione di un Centro sanitario pediatrico di Emergency a Port Sudan, in Sudan. La costruzione del Centro e la sua attività sono state documentate dalle fotografie di Grimaldi, immagini che appunto formano il corpus dell’opera d’arte (http://www.fondazionemaxxi.it/2012/09/24/emergencys-paediatric-centre-in-port-sudan-supported-by-maxxi-di-massimo-grimaldi/). 
Massimo Grimaldi, Emergency’s Paediatric Centre a Port Sudan Supported by MAXXI, 2009

Theaster Gates, nato nel 1973 a Chicago dove vive, è un artista, un curatore, un musicista e un attivista politico. Questi aspetti si fondono continuamente nella realizzazione di opere che uniscono la sua vita con quella della collettività in cui vive. My labor is my protest del 2012, ne è un esempio emblematico. Gli elementi fisici delle installazioni, i camion dei pompieri, il catrame, l’enorme libreria, incrociano e fondono elementi della propria storia personale, come il catrame che il padre di Gates stendeva sui tetti delle case di Chicago come forma di protesta nel 1968 o la rivista Ebony della Johnson Publishing sulla cultura afroamericana, di cui nella libreria si trova un’ampia selezione. Ma ancora più decisivo per comprendere l’intenzione etica del lavoro di Gates è il progetto The arts and public life, che ha preso forma nell’università di Chicago (http://arts.uchicago.edu/artsandpubliclife). Attraverso l’attivazione di spazi espositivi, laboratori, sostegni economici a progetti artistici, prevede una sempre più forte integrazione tra l’università e la comunità del South Side della città di Chicago. Realizzare spazi e opportunità per lo sviluppo della cultura è per Gates parte del suo lavoro di artista e del ruolo dell’arte oggi.
Theaster Gates, My labor is my protest, 2012

L’ultimo caso di quest’elencazione parzialissima è Mona Hatoum, artista palestinese nata a Beirut nel 1952 (http://www.youtube.com/watch?v=Xs3DzydSKu8). Partita negli anni Ottanta da un lavoro performativo e da tematiche legate al corpo è approdata negli anni Novanta a riflessioni legate alle conflittualità presenti nella cultura occidentale. Il suo lavoro è interessante nell’economia del nostro discorso per una diversa coniugazione di quella dimensione pubblica che negli altri casi è apparsa come decisiva. Mona Hatoum compie un percorso inverso, portando il pubblico nel privato con tutte le inquietudini che si rintracciano nelle due sfere. In questo passaggio l’opera ri-torna al pubblico carica di un’intimità che non è meno decisiva per quella capacità etica che stiamo osservando. Recenti lavori come Bunker e Suspended del 2011, raccontano ad esempio del sentimento dell’esilio, che è tanto privato quanto pubblico. Come non meno decisivo è il suo lavoro sulla modificazione degli oggetti, delle loro dimensioni e delle loro funzioni, dimostrazione di uno stare nella realtà cercando di capirne i paradossi e gli inganni che si celano dietro le sembianze più semplici. Una funzione d’indagine, di riflessione e di scoperta che diventa etica nel momento in cui viene resa disponibile, tornando cioè nella realtà che ne risulta fatalmente modificata.
La prima parte dell’articolo “Arte e etica” cliccando qui:

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