09 marzo 2014

Il diavolo veste donna

 
“She devil” è il provocatorio titolo della rassegna internazionale di video, arrivata quest’anno alla sesta edizione, dedicata alla produzione femminile e che impegna anche la curatela dell’altra metà del cielo. Senza toni nostalgici o quella fragilità che a volte si imputa alle artiste, ma dove i vissuti personali acquistano risonanza pubblica e viceversa. Perché il privato è politico. Per sempre

di

Jeanne Susplugas, For your eyes (2005)

Il fondo azzurro del logo rimanda ad una dimensione acquatica o, forse, di celestiale astrazione. Un momento di sospensione che prelude ad un futuro imminente. Non esattamente rassicurante, è fondamentalmente uno sguardo oltre. Quanto ai simboli tecnologici che circondano la scritta “SHE DEVIL 6” trovano riscontro nelle motivazioni che hanno dato vita a questa nuova edizione della rassegna di opere video tutta al femminile (artiste e curatrici). Stefania Miscetti, che sin dal 2006 ne è l’ideatrice, parla di «manutenzione del presente».
Anche questa sesta edizione della rassegna (allo Studio Stefania Miscetti di Roma fino al 15 marzo 2014) affronta tematiche che includono questioni politiche, sociali, ambientali affrontate con estrema creatività dalle sei artiste internazionali affiancate da altrettante curatrici: Malak Helmy (Alessandria d’Egitto 1982, vive al Cairo) / Antonia Alampi; Mana Salehi (Teheran 1980, vive a Barcellona) / Dobrila Denegri; Payal Kapadia (Mumbai 1986) / Pia Lauro; Barbara Visser (Haarlem, Olanda 1966) / Orsola Mileti; Jeanne Susplugas (Montpellier, Francia 1974, vive a Parigi) / Manuela Pacella; Larissa Sansour (Gerusalemme 1973, vive a Londra) / Cristiana Perrella e Kathryn Cornelius (Binghamton, New York 1978) / Elena Giulia Rossi. 
Quarantacinque minuti in tutto che introducono ad un quotidiano al femminile (“Lei, il diavolo” questa è la traduzione italiana di She devil che prende il nome da un’eroina della Marvel, nonché dal film di Susan Seidelman) che lascia spazio all’immaginazione tra ossessioni e ostinazioni, introspezioni e fantascienza, giocosità e ironia. 
Larissa Sansour, The Nation Estate

Si comincia con il cortometraggio dell’artista palestinese Larissa Sansour, The Nation Estate (è sempre lei che in versione donna-astronauta nel video A Space Exodus issava la bandiera palestinese sulla luna: un gesto di affermazione di potere, ma anche di emancipazione femminile) che propone una visione fantascientifica in cui il suo Paese è concentrato – piano dopo piano – in un edificio ultramoderno. Anche i dettagli sono straordinariamente curati (dal pattern islamico del pavimento a quello della giacca che indossa l’autrice-protagonista, fino alle ciotole che riprendono il motivo bianco e nero della kefiah): la giovane donna entra nell’ascensore che sale. Trolley in una mano, scende a Betlemme (ogni località occupa un piano) e con la card/chiave che riproduce la bandiera palestinese entra nell’appartamento con affaccio sul panorama mozzafiato della Spianata del Tempio, dominata dalla dorata Cupola della Roccia venerata dalla tre religioni monoteiste. Al nutrimento allude il gesto dell’innaffiare un reale, quanto metaforico, ulivo piantato nel pavimento dell’appartamento, quanto quello di tirare fuori vaschette preconfezionate di cibi che appartengono anche alla tradizione gastronomica della Palestina come falafel e taboulé. Chiude la scena la figura della donna incinta che accarezza il pancione davanti alla grande vetrata, quindi la macchina da presa passa ad inquadrare l’edificio a specchi che riflette il panorama che lo circonda. È la riappropriazione del passato nella proiezione di un futuro auspicato.
Payal Kapadia, Weapons Of Mass Destruction (2012)

Cibo e spiritualità sono i due temi che si intrecciano, invece, nel lavoro dell’artista indiana Payal Kapadia, di religione induista. Weapons Of Mass Destruction (2012), è un film d’animazione di poco più di tre minuti, ma è anche una serie fotografica. Tra pesci e angurie che diventano quadrate – con un linguaggio colorato e gustoso – Kapadia invita a riflettere sulle conseguenze della manipolazione genetica. Se il cibo è l’espressione della spiritualità dell’individuo, cosa accadrà con i cibi manipolati? Una via senza ritorno di natura spirituale oltre che materiale.
Barbara Visser, Herbarium (2013)

Un accenno di speranza, o meglio di possibilità, attraversa Herbarium (2013) dell’olandese Barbara Visser in cui l’azzeramento di una natura tropicale, ormai completamente inaridita, si risveglia attraverso la mano di moderni burattinai che, in una notte di luna piena, intraprendono l’azione del suo recupero. Toccare il fondo, talvolta, attraverso un’analisi del profondo può rivelarsi il giusto movente per riprendere a vivere.
Mana Salehi, Mother cell (2010)

Un po’ come Jeanne Susplugas in For your eyes (2005) che, attingendo a tecniche diverse di animazione (disegno infantile, manga, bambole che aprono e chiudono gli occhi), affronta psicologicamente il labile confine tra innocenza e crudeltà. La voce maschile di Ramuntcho Matta accompagna il percorso ripetendo come un mantra lo stesso concetto d’indifferenza, sintetizzabile in poche parole: qualsiasi cosa io faccia non importa a nessuno.   
Forse la speranza arriva dalla scienza, come sembra indicare Mana Salehi con il video Mother cell (2010), in cui entrano in gioco la fisica, la biologia e anche la nanotecnologia. Come in una gestazione primordiale si ricompone un volto femminile (quello dell’artista). Anche il controllo della materia può essere un nuovo punto di partenza.
Malak Helmy, Records from the Excited State – Chapter 3: Lost Referents of Some Attraction (2012)

Torniamo al paesaggio, o meglio ai paesaggi, con Malak Helmy e il suo Records from the Excited State – Chapter 3: Lost Referents of Some Attraction (2012), parte di un work in progress. Durante i quasi sette minuti di svolgimento si alternano tre scene di paesaggio: una piana di sale, una spiaggia e una futura centrale elettrica nucleare. Come scrive la curatrice Antonia Alampi, «ai margini di una narrazione vagano alcuni personaggi anticipando l’identificazione con una funzione e un significato. Come il paesaggio, questi personaggi sono degli extras alla periferia di un evento, carichi di desiderio per un tempo atteso e una risoluzione».
Kathryn Cornelius, ReSolve (2005)

Un paesaggio marino è lo scenario in cui si colloca, infine, ReSolve (2005), della statunitense Kathryn Cornelius. A piedi nudi, l’artista stessa, impugna l’aspirapolvere nel tentativo impossibile e abbastanza faticoso di aspirare la sabbia della battigia. «Natura, tecnologia, dimensione intima e pubblica si ritrovano insieme nell’impegno di superare la conflittualità che la loro coesistenza comporta» – spiega Elena Giulia Rossi – «Costanza, determinazione, resistenza alla fatica crescente si manifestano nel ritmo del movimento che veicola energia e, per vie empatiche, lascia prefigurare una possibile rinascita».

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