25 ottobre 2018

“GENERE” PER TUTTI

 
Torna il festival bolognese dedicato alle identità: ecco il “Gender Bender” 2018 tra curiosità e bellezza. Intervista al direttore Daniele Del Pozzo

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Anticipazioni, curiosità, possibilità di incontri e ibridazioni di pensiero nell’intervista a Daniele Del Pozzo, Direttore del Festival Gender Bender che si tiene a Bologna dal 24 ottobre al 2 novembre 2018 ed è intitolato quest’anno CROMO-COSMI.
Daniele ormai sei alla sedicesima edizione di un festival che è cresciuto sempre e si è definitivamente affermato sia a livello locale che internazionale, ci puoi descrivere brevemente le tappe che ti hanno condotto fin qui?
«La prima tappa, direi quella fondante, è la presenza in città di un centro LGBTI come Il Cassero che dal 1982 è riconosciuto dalle amministrazioni pubbliche del Comune e della Regione come un tassello fondamentale della città di Bologna. È proprio Il Cassero – associazione no-profit – che nel 2003 decise di produrre un festival come Gender Bender, reinvestendo poi ogni anno parte delle sue risorse sulla continua crescita di questo progetto culturale, credo unico in Italia e tra i pochi nel mondo. Questa scommessa culturale si è andata consolidando grazie alla continuità di un lavoro che ha reso possibile costruire, anno dopo anno, una solida rete di relazioni con numerosi altri soggetti pubblici e privati, locali, nazionali e internazionali. Questa continuità, e una fiducia guadagnata negli anni, ha permesso via via di allargare la rete di relazioni e collaborazioni fino a realizzare – oltre al festival in sé – anche due edizioni di Performing Gender, un progetto di formazione per giovani artisti della danza contemporanea di cui Gender Bender è capofila sostenuto dalla Unione Europea, e le 5 stagioni di Teatro Arcobaleno, il progetto educativo sulle differenze di genere espressamente rivolto alle classi e alle scuole».
Cosa guida l’orizzonte delle tue scelte? Quali sono le metodologie?
«Direi che a guidarci, e uso un plurale perché le decisioni sul programma vengono prese in forma redazionale, sono sostanzialmente la curiosità e la bellezza. E poi, la sostenibilità dal punto di vista economico e le occasioni di collaborazione con altri soggetti. Mescolare bene e servire caldo».
 
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Fernando Belfiore
Le finalità?
«Sicuramente creare un dialogo aperto tra persone, quanto mai eterogenee e apparentemente lontane tra di loro, sui ruoli e le identità di genere – temi considerati almeno fino a poco tempo fa “per addetti ai lavori” – usando il linguaggio artistico come passe-partout. La bellezza è per noi la chiave con cui aprire un pensiero dialettico sulle differenze, senza entrare necessariamente in una zona di possibile conflittualità. L’idea alla base è che le differenze possano dare un contributo concreto alla costruzione di una società più ricca e accogliente sotto il profilo umano, sociale e culturale».
Penso anche che negli ultimi anni abbiate dato sempre più importanza ai laboratori, incontri con il pubblico, gli studenti. Quindi c’è anche una prospettiva didattica che si è allargata nel tempo?
«Più che di prospettiva didattica parlerei di occasioni e strategie di avvicinamento sempre più prossimo tra chi crea l’arte e chi la esperisce. Grazie ai laboratori, alle conversazioni, ai warm-up, diamo la possibilità – a chi lo desidera – di avvicinare gli artisti e il processo creativo, di rompere il muro che separa lo spettatore seduto in sala dallo spettacolo e dagli interpreti che vivono la scena. Sono processi che tolgono di mezzo l’aura sacrale dell’arte, aiutano a percepirla anche come un processo di creazione continuo piuttosto che una forma compiuta in sé, aiutano a percepire il lavoro e la passione di chi la produce e che la alimentano. Un effetto di questa prossimità è la possibilità per il pubblico di partecipare all’opera momentaneamente alleggeriti dal carico del giudizio e dal complesso di inferiorità che ne fa parte (non ho capito, non ho gli strumenti). Questa prossimità è qualcosa di utile e vitale anche per gli artisti e le artiste che possono ricevere dei feedback a caldo sui loro lavori. Molti artisti e artiste sono grati a Gender Bender anche per questa possibilità di uno scambio che incrocia il piano umano, relazionale e artistico. Su questo consiglio Warriors Foot il laboratorio per i ragazzi e le ragazze delle periferie di Bologna proposto dal coreografo brasiliano Guilherme Miotto e da Nasser El Jackson, campione del mondo di groundmoves, disciplina del calcio freestyle».
 
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Gioia Maini, Vodka&TenaLady
Mi sembra che il comparto Arte Visiva soffra un po’ rispetto agli altri. È una scelta o una necessità?
«Alla fine è sempre una scelta determinata da precisi fattori. Quest’anno in particolare ci siamo dedicati al lavoro dell’artista Gioia Maini con il progetto Vodka & Tena Lady, in mostra al Piedaterre, e Io sono Mare, la graphic novel di Cristina Portolano pubblicata da Canicola nella collana Dalla parte delle bambine, in mostra al MAMbo di Bologna. Ma è vero anche che molta della ricerca artistica che presentiamo a Gender Bender ha incroci e scambi vitali con le arti visive. Penso a Dans for Satan, la performance della coreografa norvegese Hilde Ingeborg Sandvold che verrà ospitata al MAMbo di Bologna o al biopic su Robert Mapplethorpe della regista Ondi Timoner e il clamoroso Kill the Monsters del regista americano Ryan Lonergan, un’allegoria lucida sulla democrazia e sulla storia raccontata attraverso paesaggi in bianco e nero alla Ansel Adams accompagnati dalla musica di Jean Sibelius, entrambi in prima nazionale che vedremo al cinema».
La sezione danza è forse la più ampia, anche l’anno scorso abbiamo visto degli spettacoli imperdibili e di grande livello. Quest’anno cosa ci consigli, quali sono gli highlights?
«Di cuore direi tutti! Scherzi a parte, suggerisco Ignite di Shailesh Bahoran, un lavoro sulla blackness, vero fil rouge di questa edizione dal titolo Cromocosmi, Les Rois de la Piste di Thomas Lebrun, ovvero la disco come luogo di incontro tra le differenti umanità, Filles & Soie di Séverine Coulon, spettacolo per bambini e bambine che rilegge in maniera inedita i classici delle fiabe, I love my sister, struggente tassello sulla Bellezza realizzato da Enzo Cosimi con Egon Botteghi persona trans F to M, Hope Hunt and the ascension into Lazarus, straordinario e straziante solo sulla mascolinità della working class della coreografa irlandese Oona Doherty».
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Shailesh Bahoran
Invece per il cinema? Anche il cinema l’anno scorso ci ha fatto vedere in anticipo rispetto all’uscita nelle sale italiane un film prezioso come A quite passion (2016) di Terence Davies, oltre agli altri. Ci aspettiamo ancora delle primizie!
«Ovviamente si: ci sono 24 titoli molti dei quali in prima nazionale, scelti tra oltre 200 preview. Ci siamo anche presi il lusso di operare una selezione durissima che chi ha portato a scegliere film dal Kosovo, Argentina, Kenya, Australia, USA, Corea del Sud, Cina, Belgio, Francia, Brasile, Italia, Cile, Gran Bretagna, Austria, Svizzera e Canada. Una vera e propria finestra sul mondo. Quindi credo che qualcosa di interessante sia possibile scoprire.  Tra i titoli segnalo Rafiki, Mapplethorpe, Tucked e Tinta Bruta per il fil rouge sulla blackness di questa edizione, Genése del regista canadese Philip Lessage per la struggente educazione sentimentale contemporanea dei due fratelli protagonisti, il documentario Mujer Nomade di Maryin Farina, straordinario ritratto della filosofa argentina Esther Díaz e del sui parametri della sessualità e del piacere, Riot e The last Goldfish, due film che mettono al centro le vite di uomini e donne con le grandi vicende della storia del secolo scorso».
Gli incontri con gli autori sono stati anticipati con la conversazione dell’8 di ottobre con Zadie Smith. Chi viene per le date del festival non ha potuto ascoltarla, quindi ci potresti raccontare qualcosa su questa importante scrittrice e anticipare così lo spirito degli altri tre incontri?
«L’incontro con Zadie Smith è stato una apertura simbolica di Gender Bender, la cui edizione quest’anno incrocia in maniera intersezionale le differenze di genere, orientamento sessuale, “razza” e classi sociali. Zadie è l’autrice che nelle sue opere narrative e nei suoi saggi ha continuamente riflettuto con una grande lucidità e libertà di pensiero su questi incroci. Inoltre, il suo ultimo libro, su cui abbiamo impostato la conversazione con l’autrice, si intitola Feel Free e ci sembrava la giusta frase e il giusto augurio da porre come apertura di questa nuova edizione, considerando anche i tempi che stiamo vivendo.  Juno Dawson, Garrad Conley, così come gli incontri sulla drammaturga inglese Caryl Churchill e sulla poetessa afroamericana Audre Lorde portano tutti con loro questa vocazione».
 
Carmen Lorenzetti

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