18 ottobre 2010

THREE SON MEGLIO CHE ONE

 
Intervista doppia? Macchè, tripla. Eh sì, perché da quest’anno il FotoGrafia Festival si è dotato, oltre allo storico direttore Marco Delogu, di ben tre curatori “esterni”. I quali hanno partecipato a un bando in piena regola e hanno presentato un progetto triennale. Ognuno con le proprie specificità: la “nostra” Valentina Tanni per Fotografia e Nuovi Media, Marc Prust per Fotografia ed Editoria, Paul Wombell per Fotografia e Arte contemporanea...

di

Com’è nata la tua nomina a co-curatore del festival?
Come hai deciso di partecipare al bando?

Valentina Tanni: Il bando mi è stato segnalato da
un collega e appena l’ho letto ho pensato che fosse una grande opportunità. Il
rapporto tra la fotografia e i nuovi media è un argomento molto stimolante, che
fa parte delle mie linee di ricerca già da qualche anno. Perciò, la possibilità
di portare avanti questo studio anche in modo “pratico” attraverso mostre e
incontri, e per di più all’interno di un festival di fotografia, mi è parsa
preziosa.

Marc Prust: Ho trovato il bando per il posto di co-curatore in un sito
per fotografi documentaristi e giornalisti (lightstalkers) e ho deciso di partecipare. Dopo
aver inviato la mia proposta, ho avuto una breve conversazione telefonica con
il comitato selezionatore e sono stato scelto come uno dei curatori del
festival.

Paul Wombell: Esiste un accordo commerciale tra
Italia e Regno Unito: quando un italiano guida la nazionale inglese di calcio,
l’Italia deve rispondere assumendo un curatore inglese per lavorare a Roma
(specifico che sono meglio io come curatore internazionale di quanto lo sia
Capello come allenatore di una squadra internazionale). Inoltre, da giovane
volevo far parte di un gruppo pop e immaginavo che il mio nome d’arte sarebbe
stato Paul Rome, così era destino che un giorno lavorassi in questa città. Ma
adesso è troppo tardi per formare una band, così curo mostre di fotografia e a
volte faccio il dj.

Un giudizio sulla formula che è stata scelta
quest’anno. La modalità “a tre punte” ti è piaciuta? Come l’hai letta?

V.T.: In generale, sono sempre
favorevole alle soluzioni collaborative, soprattutto per quanto riguarda le
rassegne a cadenza periodica. Nella mia visione, la vocazione di questo tipo di
manifestazioni dovrebbe essere la ricerca, l’aggiornamento, una ricognizione di
quello che di più interessante accade nel settore di riferimento. Trovo che la
fotografia stia vivendo un momento particolarmente complesso ed eccitante; il
suo linguaggio continua a evolversi e ho trovato molto azzeccata e coraggiosa
la scelta di indagarlo da diversi punti di vista.

M.P.: È interessante lavorare con altri
curatori su un festival, apre un intero spettro di soggetti e stili da esporre,
e questo è positivo. È anche utile per riconsiderare la visione generale del
festival, e porterà auspicabilmente a un festival molto più creativo e a una
maggiore integrazione con la comunità fotografica locale e nazionale, romana e
italiana. La decisione, a mio parere, è stata presa proprio per queste ragioni:
c’era la necessità di cambiare e di dar vita a un festival più inclusivo, senza
perdere la forza e i risultati delle edizioni precedenti.

P.W.: Non è inusuale al giorno d’oggi
per un gruppo di curatori lavorare insieme nel contesto di un festival
artistico. Ciò porta in dote i benefici di differenti esperienze e saperi al
momento di costruire il programma; inoltre, può essere una sfida stimolante per
il team del festival e anche per il pubblico. Nel caso di FotoGrafia Festival,
crea una visione più ampia delle possibilità all’interno del medium
fotografico.

C’è stata una reale interazione fra voi tre curatori? O
si è lavorato del tutto in remoto?

V.T.: Sono successe un po’ tutte e due le cose. Ci siamo
scambiati idee e punti di vista e abbiamo cercato di strutturare tre progetti
che fossero in qualche modo complementari. Per quanto riguarda le singole
mostre, tuttavia, abbiamo lavorato in autonomia.

M.P.: Abbiamo lavorato per la maggior
parte del tempo per conto nostro, e durante gli incontri abbiamo discusso
soprattutto i temi comuni come il catalogo e la comunicazione complessiva del
festival.

P.W.: Entrambe le modalità: abbiamo
scambiato idee durante il nostro primo incontro formale a Roma, e proposto
liberamente suggerimenti nei confronti di ognuno dei nostri progetti
individuali. Da allora, ci siamo scambiati email, ma principalmente ci siamo
concentrati sulle rispettive mostre.

Raccontaci il rapporto che hai avuto e che stai avendo
con gli spazi espositivi che quest’anno sono a disposizione del festival. Come
sarà allestita la tua sezione? Che scelte hai compiuto?

V.T.: L’ex Mattatoio è un luogo che ha
dimostrato di avere grandi potenzialità per le attività culturali in questi
ultimi anni. È una sede che non solo si presta in modo flessibile a ospitare
eventi di tipo diverso, ma che funziona molto bene anche come luogo di
aggregazione, come catalizzatore sociale, sia per la sua configurazione di
“città dentro la città”, sia per il suo posizionamento in un’area vivace come
il quartiere di Testaccio. La mia sezione contiene progetti che si
concretizzano fisicamente con modalità differenti l’una dall’altra (stampe,
video, oggetti, proiezioni), per cui ho cercato di costruire un percorso che
metta lo spettatore in grado di fruire queste diversità nel modo migliore.

M.P.: Lo spazio è stupefacente: ruvido, duro, difficile da
gestire, ma con molta personalità. L’intera area dà allo spettatore l’impressione
di non trovarsi a Roma ma in un’altra città, e speriamo di rafforzare questa
sensazione attraverso l’allestimento che abbiamo creato insieme. La mia mostra
è dunque il luogo in cui si ritorna a casa. Ho cercato di ricreare un ambiente
domestico, che si inserisse a sua volta nello spazio grezzo del macello. Lo
potremmo definire un loft in stile newyorchese. La pubblicazione ha a che fare
essenzialmente con la capacità di comprare un libro o una rivista, portarseli a
casa e leggerli al sicuro, circondati dalle proprie cose. Dal momento che la
mostra di quest’anno riguarda le opere inedite, ho ricreato l’emozione di
“andare a casa a leggere” realizzando un soggiorno, una tv room, uno spazio per
leggere le riviste… In ogni caso, invece di essere disponibili, tutti i
materiali sono incatenati al muro o al soffitto. Niente può essere portato via,
e può risultare perfino difficoltoso leggere i libri e le riviste. Infatti
questo è il punto: non li puoi portare via, perché i progetti che vedi qui non
sono pubblicati.

P.W: La città di Roma è davvero
fortunata ad avere questo spazio unico. Sia Macro Testaccio che Pelanda sono
eccezionali. Forse sono stati oscurati dalla stampa internazionale durante
l’inaugurazione del Maxxi; ma se considerate tutti questi spazi, rappresentano
una grande opportunità per Roma di promuovere una nuova identità che includa
l’arte contemporanea. Personalmente, mi piacerebbe utilizzare sia Macro
Testaccio che Pelanda per creare una città nella città, in cui il visitatore
possa passare dalle 5 alle 8 ore visitando mostre, guardando film, partecipando
a una discussione, pranzando o cenando, comprando libri o riviste, perdendosi e
magari ballando fino a tarda notte. Esattamente come facciamo tutti quando
usciamo in qualsiasi città per un intero giorno. Forse, nei prossimi due anni
potremo raggiungere questo traguardo. Perciò la programmazione va considerata
non solo in termini di mostre, ma anche in una cornice più ampia di eventi
spalmati nel tempo ma concentrati in un unico luogo. Riguardo alla location,
ogni mostra è a Testaccio per ragioni meramente pratiche: un singolo edificio,
infatti, presenta un migliore controllo ambientale.

Il budget a disposizione di questa rassegna lo hai
trovato adeguato o avete dovuto fare una edizione… al risparmio?

V.T.: Economicamente, il settore
culturale (e non solo quello) vive un momento difficile, è inutile negarlo.
Qualche ridimensionamento rispetto ai progetti iniziali c’è stato, soprattutto
in termini di allestimento, ma abbiamo cercato di ottimizzare le risorse a
disposizione non rinunciando mai alla qualità dei contenuti.

M.P.: In una situazione economica generale ristretta all’osso,
non ci possiamo attendere di avere a disposizione un budget enorme per una
mostra. Abbiamo perciò dovuto prendere alcune decisioni in favore del risparmio
e contro il design creativo e la qualità.

P.W.: Il budget era significativo per realizzare il 90% della
mostra che avevo proposto. Ma se il nostro scopo è quello di rendere il
FotoGrafia Festival equivalente ai maggiori festival europei e di ottenere
tutti i benefici che un processo del genere porta alla città (come il
riconoscimento internazionale, l’aumento dei visitatori, eventi migliori per i
romani), allora dobbiamo riflettere su come può essere raggiunto. Con risorse
extra, questo festival potrebbe facilmente essere uguale, se non migliore, dei
più importanti festival fotografici europei. Ciò dovrebbe essere qualcosa a cui
aspirare.

Chiudiamo parlando nello specifico della tua sezione.
Come si articola la tua proposta? Come la svilupperai nei tre anni in cui sarai
curatore del festival?

V.T.: La mia mostra si intitola Maps
and Legends. When Photography Met the Web
ed è un’indagine sul rapporto tra il linguaggio
fotografico e la cultura del web. Trattandosi di due realtà in movimento, la
mappatura è necessariamente transitoria; la mostra stessa è pensata come una fotografia di un momento storico preciso.
Non mi sono concentrata, tuttavia, sulla Rete come tecnologia, ma come luogo
generatore di cultura, di storie, di linguaggi, perfino di leggende. La parola
legends’ del
titolo è infatti volutamente ambigua: fa riferimento alle legende, intese come strumenti per
decodificare una mappa, ma anche come miti, narrazioni. Ho selezionato il
lavoro di dieci artisti, italiani e stranieri, che attraverso la loro ricerca
mostrano come sia cambiata la percezione culturale della fotografia, anche e
soprattutto in conseguenza dell’avvento di internet. Dalle gif animate alle
fotografie nei mondi virtuali; dalle immagini di Google Street View agli scatti
che cambiano in tempo reale con il flusso dei dati. C’è anche una macchina
fotografica che cattura il tempo, invece dello spazio, rendendo la fotografia
un’attività condivisa. Per quanto riguarda le prossime edizioni, ho intenzione di costruire
due progetti tematici, due capitoli specifici che faranno da approfondimento,
da focus, dopo una prima edizione introduttiva. In particolare, per la seconda
edizione mi piacerebbe costruire un percorso attraverso i tentativi – sempre
più numerosi – di fotografare l’invisibile.

M.P.: La mia sezione si concentra su Fotografia ed Editoria: ho deciso perciò di seguire, nel
corso dei tre anni, le fasi differenti della pubblicazione fotografica. La
prima mostra espone lavori inediti; la seconda mostrerà piccole pubblicazioni
che ricevono una scarsa attenzione; nel terzo e ultimo anno analizzerò quelle
pubblicazioni che hanno oltrepassato il confine del pubblico locale e/o
fotografico per raggiungere un’audience più ampia, globale. L’intero programma
è un’indagine dei motivi che – al di là della qualità – fanno raggiungere a una
determinata pubblicazione fama mondiale, e che destinano invece all’oblio
un’altra, di pari qualità e interesse. La prima mostra espone dunque bookdummies, reportage e progetti artistici
mai pubblicati, ma anche siti di fotografi che non riescono ad attrarre un
ampio numero di visitatori. Voglio dimostrare così che i fotografi stanno
creando pezzi incredibili che potremmo non vedere mai. Oltre a questa ragione
ovvia, la mostra ha lo scopo di mostrare le vere intenzioni di questi autori,
non modificate da editori che hanno la loro visione particolare di ciò che il
pubblico vuole, o del modo in cui un certo progetto dovrebbe essere visto.

P.W.: La fotografia viene generalmente
discussa al passato. Una volta che una foto è scattata, guarda indietro nel
tempo, non avanti. Roland Barthes, in Camera Lucida, lo definisce “ciò che era”. Ma alcuni fotografi stanno
mettendo in discussione questa affermazione, realizzando immagini che guardano
avanti nel tempo: stanno lavorando cioè come gli scrittori di fantascienza e
stanno usando il processo fotografico per immaginare l’aspetto del futuro. Bumpy
Ride
mette
insieme i lavori di otto fotografi contemporanei che usano tecniche analogiche
e digitali, e che stanno sfidando le nostre aspettative su ciò che vediamo in
un’immagine fotografica. Ho preso il titolo della mostra da una pubblicazione
dell’Intelligence Council statunitense, Global Trends 2025: A Transformed
World
, che
predice come il mondo stia entrando in un periodo di grande instabilità:
abbiamo di fronte una “corsa turbolenta”. Ho già alcune idee per il prossimo
anno, ma vediamo intanto come va l’edizione del 2010, e ciò che possiamo
imparare dall’uso dello spazio e dalla risposta del pubblico. Il team del
festival si incontrerà e riconsidererà le attività di quest’anno, valutando i
miglioramenti in vista del prossimo.

articoli correlati

Il
Premio IILA 2010

Il
futuro della fotografia

a cura di massimiliano tonelli


dal 23 settembre al 24 ottobre 2010

FotoGrafia Festival 2010 – Futurspectives

direzione artistica di Marco Delogu

a cura di Marc Prust, Valentina Tanni e Paul Wombell

Macro Testaccio

Piazza Orazio Giustiniani 4 – 00153 Roma

Orario: da martedì a domenica ore 16-24

Ingresso libero

Info: tel. +39 06671070400; www.macro.roma.museum

[exibart]

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui