31 gennaio 2011

IL MUSEO IN VOLO

 
Il 2010 anno terribile? Vedremo il 2011, e non s’annunciano affatto rose e fiori. Di questo e di molto altro abbiamo parlato con uno dei direttori del Castello di Rivoli, decano dei musei d’arte contemporanea in Italia. Ad esempio, di come fare una mostra senza guardiania...

di

Direttore Bellini, il tempo delle vacche più o meno grasse pare esser
finito in tutta Italia. Per di più in Piemonte la politica, se non proprio
disinteressata, sembra essere poco più che tiepida verso il tuo museo. Per il
2011 prevedi di dover stringere ulteriormente la cinghia?

Il problema, come dici tu, è
strutturale: non esiste in questo senso un particolare disinteresse
“piemontese” nei confronti dell’arte contemporanea. I tagli alla cultura sono
orizzontali e stanno portando a un cambiamento di scenario senza precedenti nel
nostro Paese. La cosa più grave è che nessuno, oggi, sa dire cosa accadrà nei
prossimi 2-3 anni. Il Castello di Rivoli ha organizzato in passato alcune
mostre che sono costate oltre un milione di euro ciascuna: oggi con una cifra
nettamente inferiore dobbiamo curare l’intera programmazione annuale, tra
collezione, mostre temporanee ed eventi collaterali. Questa è la situazione:
bisogna prenderne atto e ripensare in modo radicale il funzionamento stesso del
museo.

Meno mostre, orari di apertura ridotti, stop al turnover del
personale? Dove pensi di dover intervenire per dare una risposta a chi dice che
Rivoli deve spendere meno?

Meno mostre, ovviamente, e più
idee. Non si tratta semplicemente di spendere meno per i singoli eventi:
bisogna risparmiare su tutti i costi di gestione del museo. Stiamo pensando ad
esempio di ridurre gli orari di apertura durante il weekend. Diventa inoltre
fondamentale in questo momento rivolgersi ai privati, così come cercare
collaborazioni con altre istituzioni. Ad esempio, in primavera inaugureremo un
progetto site specific di Andro Wekua, in occasione del quale stiamo
realizzando un importante catalogo in collaborazione con il Fridericianum di
Kassel e la Kunsthalle di Vienna. Questo ci consente di investire una somma
molto contenuta, attorno agli 8mila euro. Per quanto riguarda il catalogo di
John McCracken, di cui inauguriamo la retrospettiva il 21 febbraio, abbiamo
stretto un accordo particolarmente vantaggioso con Skira. Riusciamo così a
pubblicare, con una piccola somma, la prima monografia dedicata a questo
leggendario esponente del Minimalismo West Coast. Allo stesso modo cerchiamo di
contenere il budget destinato ai grandi eventi. Per i prossimi anni abbiamo in
programma la co-produzione di mostre importanti, che partiranno dal Castello di
Rivoli per poi spostarsi in altre prestigiose istituzioni internazionali.

In realtà una grossa risposta culturale a questo status quo l’hai già
data con la mostra di Philippe Parreno. Che sei riuscito ad allestire non
facendo spendere un centesimo al museo. Grazie a chi?

Grazie ad Enea Righi, un
collezionista piuttosto singolare: in netta controtendenza con quanto sta
accadendo negli ultimi anni, invece di aprire una sua fondazione, ha deciso che
in questa fase è più importante sostenere le istituzioni pubbliche. Insomma,
più musei e meno mausolei, un caso più unico che raro in Italia, e altrove.
Grazie a lui il Castello di Rivoli ha inaugurato la prima mostra a “costo zero”
della sua storia: From November 5 Until
They Fall Down
, un intervento site specific di Parreno nei 900 mq del terzo
piano. E non si tratta – vorrei sottolinearlo – della classica “colonizzazione”
del museo da parte di un privato, attraverso la semplice movimentazione di
opere della sua collezione: l’intervento di Parreno è stato prodotto ex novo
secondo il progetto dell’artista.

In questo caso il collezionista che è venuto in soccorso al museo si è
mosso con spirito mecenatistico puro. Senza avere nulla in cambio, salvo un
poco di visibilità. Ritieni invece che ci possano essere – anche nel
farraginoso quadro normativo italiano – elementi di corretto “scambio” che il
museo può instaurare con entità private che vogliano sostenerlo? Negli Stati
Uniti, come sai bene, ogni sala di un museo è intitolata a una famiglia che ha
contribuito alla sua creazione. Come ci si potrebbe muovere in Italia e come
pensi di direzionare il Castello in questo senso?

Lo stiamo ripetendo tutti da
anni: bisogna lavorare a leggi che favoriscano il mecenatismo grazie a una
defiscalizzazione delle donazioni. Se non affrontiamo il problema sul piano
legislativo, tutto sarà sempre farraginoso e casuale. Noi siamo aperti a tutte
le ipotesi: il problema non è dare il nome di qualcuno a una stanza del museo,
il problema è mettere a punto un nuovo modello economico che possa garantire
fondi e sostegno alle diverse istituzioni culturali di questo Paese. Le
soluzioni possono essere diverse, bisogna avere coraggio e idee. Forse vale la
pena ricordare che la costruzione di Harvard e Yale (così come un discreto
numero di chiese americane!) fu in parte finanziata dal sistema delle
lotterie.

L’operazione-Parreno è leggibile anche come un messaggio nei confronti
della politica locale e nazionale: alle volte quello che si chiede non sono
banalmente soldi, per quelli si trova il modo di trovarli fuori dai
finanziamenti classici, ciò che si chiede è fiducia, vicinanza, sistema… E
magari sburocratizzazione e semplificazione degli iter. Non è così?

La politica dovrebbe cominciare
a vedere i musei come fattori di sviluppo economico, sociale e culturale, e non
come un fardello improduttivo. In questo senso, la cultura dovrebbe essere
appoggiata con convinzione proprio durante i periodi di crisi, come stanno
facendo oggi diversi Paesi europei che hanno rinunciato ai tagli. Le
statistiche dicono che dall’inizio della crisi i visitatori dei musei, dei
teatri e dei cinema stanno aumentando in modo sensibile: questo conferma
l’importanza sociale di una buona offerta culturale.

Come ciliegina sulla torta di questa sorta di blitz espositivo, di
quest’idea di prototipo di mostra auto-sostenibile ma allo stesso tempo
assolutamente museale e istituzionale, hai anche imbastito un’esposizione che
sta in piedi (o meglio, in aria) da sola. Comprimendo al massimo i costi di
guardiania…

Proprio così. A Rivoli il costo
della guardiania ha un ruolo importante nel budget complessivo delle mostre.
Nel caso degli speech bubble di
Parreno, essendo palloni gonfi di elio e quindi sospesi in aria, abbiamo potuto
fare a meno persino del personale di custodia, risparmiando circa 40mila euro.
Anzi, toccare i lavori in questa mostra non è vietato: mano a mano che gli
speech bubble scendono a terra (sono circa 3mila) i visitatori possono
raccoglierli e portarli a casa come ricordo. Parreno è particolarmente
soddisfatto di questo grande intervento ambientale nel nostro museo, tanto è
vero che da quest’opera – come accade spesso nel suo lavoro – ne nascerà
un’altra, in una sorta di catena semantica. Nelle sale l’artista francese ha
collocato una macchina fotografica fissa che scatta tre foto al giorno, dalle
foto nascerà una video-animazione che speriamo di poter acquisire per la nostra
collezione.

Un’ultima domanda: quale futuro, in una situazione così incerta, per
il Castello di Rivoli?

Beatrice [Merz, N.d.R.] ed io
affrontiamo questo momento delicato con senso di responsabilità, cercando di
individuare buone soluzioni per far quadrare i conti: non possiamo rischiare,
come accade purtroppo ad altri musei italiani, di chiudere addirittura i
battenti. Tuttavia sappiamo bene che un museo d’arte contemporanea non può e
non deve giocare in difesa. Garantire buone mostre è solo un aspetto
dell’attività del museo. Un museo veramente contemporaneo non può essere un
semplice contenitore di opere ma deve porsi come luogo di produzione culturale,
un congegno intellettuale che opera nella società e l’arricchisce in termini di
riflessione sul presente. Per questa ragione, pur praticando con rigore la logica
dei risparmi, continuiamo a credere con forza in quella degli investimenti:
solo investendo in cultura si può tornare a intravedere un futuro.

articoli correlati

Parreno
al Pompidou

Orchestrare
Rivoli

a cura di m. t.

*articolo pubblicato su
Exibart.onpaper n. 71. Te l’eri perso? Abbonati


Info: www.castellodirivoli.org

[exibart]

19 Commenti

  1. Bello che finalmente ci si arrangi a cercar soldi!
    mostre da un milione di euro che non incassano almeno un milione emmezzo, non devono esistere, perchè quella non è cultura è approffittarsi .
    Mi piace comunque questo direttore che comunque non è lamentoso, ma propositivo.

  2. Una bella intervista.
    Durante le vacanze di Natale le luci del Castello sono state spente la notte.
    Qualcuno dirà:finalmente una sano risparmio energetico, ma non c’era più il museo nel buio, e da Torino non ci si orientava più.
    Sembrava tutto più povero, tutto meno certo.
    Abbiamo bisogno di ciò che ci può aiutare a sollevare lo sguardo, a innalzare lo spirito.
    Abbiamo bisogno di fiducia nei valori della cultura, abbiamo bisogno di entusiasmo e di fatti positivi, e se poi sono meno patinati, meno “ricchi” meglio così.

  3. Mi chiedo con tanti studenti d’arte, storici dell’arte, laureati disoccupati compreso quelli di finte associazioni o cooperative e ricercatori e professorini frustrati che abbiamo in giro e che non sanno dove sbattere la testa, come mai si trovano nei musei un personale che non ha attinenze di studi, che non ha voglia di dare spiegazioni, intrattenere i visitatori e comportarsi da operatori culturali? Manzioni diverse? Sono da privilegiare?
    Forse perchè vogliono un contratto migliore?
    Diamoglielo pure,ammesso che i fondi pubblici lo consentano, ma non è bello farlo rispetto a tutte quelle persone che ho menzionato prima che non hanno lavoro e a tanti altri che in mezza giornata non riescono a guadagnare quanto un dipendente dei musei. Vi assicuro che costoro sono tanti, giovani e vecchi, anche se i media e i sindacati e i partiti dei lavoratori attenti a “tutto” non ne parlano.

  4. No, cara Francesca, da quando in qua il contributo di un collezionista potrebbe instaurare un conflitto di interessi qualora venisse incontro alle esigenze di un Museo?
    Tutti i Musei pubblici italiani (dagli archeologici a quelli d’arte, per non parlare di quelli – troppo pochi in Italia – di arte decorativa) sono fondati esclusivamente su collezioni private, anche quelli costruiti nel XX secolo (più nella prima metà che nella seconda).
    Nella laicissima Francia è così (e laggiù esiste una politica di forte incentivazione ai lasciti, ai depositi e ai prestiti, ma anche alla diretta collaborazione fra privato e pubblico in termini di cultura e non solo di bookshops, gadgets o ristorazione), in Germania pure e in Inghilterra anche. Non parliamo degli Stati Uniti (lì, anche troppo).
    Senza il collezionismo, l’arte da chi sarebbe scelta e acquistata – e esposta?
    Dai dirigenti dei Musei pubblici, che quando va bene (cioè sono colti) non hanno soldi per comprare e si deprimono e quando va male (cioè sono incolti) non hanno soldi comunque, ma son tranquilli perché hanno almeno l’alibi per la loro ignoranza? Dai politici e dagli assessori alla cultura (e qui non vedrebbe un conflitto d’interessi)?
    Dagli artisti (e anche qui, conflitto di interessi, neanche un pochino)? Dai passanti?
    Il collezionismo soprattutto quello “uninominale”, che fa capo alla precisa scelta di un appassionato d’arte, rappresenta sempre lo specchio della stagione artistica in cui ci muoviamo. E’ un testimone inoppugnabile (anche se ciò che ci vuole, in un Museo pubblico, è un ottimo Critico d’Arte che faccia da filtro e organizzi il materiale).
    E, poi, vorrei sapere, quali sarebbero gli intollerabili, conflittualissimi vantaggi per un collezionista nei confronti di un Museo in cui deposita o dona le proprie opere? Qualche invito alle vernici o alle rare cene che seguono? il proprio nome, quando c’è, sulle targhette in corpo nove dei cartellini delle opere? Acciderba, è davvero un potente hatù in cambio della perdita di un bene di proprietà…
    Poter decidere delle politiche culturali della direzione? E lei crede davvero che sia così facile? E se anche fosse – e non è – perché un collezionista appassionato e colto non potrebbe esprimere un’opinione su ciò che ritiene essere l’arte oggi? E’ forse meno competente o meno attaccato al proprio territorio (o all’Italia) di qualche direttore “politico” imposto magari da Roma, con gli sgambetti che contraddistinguono l’encomiabile mandato bondiano (e molti dei predecenti)?
    E’ forse meglio, allora, che diventiamo terra di conquista altrui, dato che i fondi non ci sono per qualsiasi iniziativa culturale, per pagare gli stipendi dei dipendenti, per programmare qualsiasi cosa?
    E’ meglio svendere le nostre piazze e i nostri monumenti agli slogan pacchiani e ridondanti di una marca di scarpe o di una bibita, per raccattare qualche soldo e poter affermare orgogliosamente che così ripianiamo i bilanci delle disperate istituzioni pubbliche?
    Non sarebbe meglio, finalmente, metterci a tavolino e imbastire una seria e proficua legislazione (perché abbiamo discusso sin troppo e ora si deve fare) a favore della circolazione e dei depositi di opere d’arte in collaborazione esplicita e limpida con tutti gli aventi diritto (gallerie private comprese)?
    Senza norme, l’iniziativa del collezionista rimarrà sempre e solo un gesto isolato (al suo buon cuore) e il connubio con la galleria (perché già esiste), che per l’arte contemporanea è fondamentale, un’ambigua partecipazione preda di troppi fraintendimenti.

    E’ facile facile lanciare lì una frasettina a presa rapida, con sufficienza, e poi lasciare agli altri il compito di sbrogliare la matassa.
    Le assicuro che dopo un solo mese di direzione di uno qualsiasi dei nostri musei pubblici (dal meraviglioso Palazzo Jatta a Ruvo di Puglia al MACRO di Roma), pregherebbe anche San Gennaro (o Sant’Ambrogio) perché qualcuno la aiutasse a tirare avanti…
    Torniamo, per favore, a parlare di conflitto d’interessi per i temi che davvero lo riguardano. Mi pare che non manchino qui da noi, non le pare?

  5. Cristina Curti, quello che scrivi non è proprio esatto.
    Gran parte di musei europei, in particolare quelli americani, sono gestiti da capitali privati, lasciti, oppure in minima parte c’è il contributo dello Stato. I privati sostenitori, mecenati, collezionisti, o comuni cittadini, a differenza di quello che accade in Italia, godono di forti ed enormi sgravi fiscali. Per questa ragione, hanno tutto l’interesse a donare, valorizzare le loro collezioni in musei pubblici. L’attuale situazione di stallo in cui versa il sistema museale italiano è dovuto agli enormi costi di gestione e di sperpero di risorse pubbliche. Hanno tutti difficoltà di bilancio. La stampa estera che si occupa di arte contemporanea italiana, non passa giorno che non dia conto su questa anomalia tipica del sistema culturale italiano; facendo emergere anche con forza la domanda sulla pessima gestione del patrimonio cuturale, storico e artistico. Non si salva da questa apocalisse culturale, neanche il circuito museale dell’arte contemporanea, che si presenta privo di originalià e identità territoriale e antropologica. Difatti, questi musei d’arte contemporanea italiana, si mostrano agli occhi ddel pubblico, come succursali di musei esteri. Pressoché colonizzati da artisti di altri musei internazionali. La conseguenza è che molti bravi artisti italiani, trovano spesso ostacoli alla loro visibilità e comunque le porte sempre chiuse. Chiaramente, tranne i soliti noti che vediamo pascolare come le famose “Mucche di Fanfani” da un museo pubblico all’altro su tutta la penisola italica. Molti di questi musei sono gestiti come torri d’avorio, in stile Wal Disney, non c’è che dire. Gli stranieri ci vedono così. Come ho ripetuto ormai più volte su questa rivista, il sistema museale italiano consiste oggi proprio nella crescente chiusura alle capacità creative della produzione italiana di sapere, cultura e, più in generale, della produzione d’identità, di senso, che ha assunto un ruolo marginale, non effettiva sulla realtà. Dobbiamo anche dire, non solo nell’ambito della ricerca artistica, ma in alcuni ambiti specifici- come la ricerca di una comunicazione e informazione efficace, che non sia quella che mistifica la realtà e non sia non filtrata come spesso accade dal codice del potere culturale e politico; ma, direi, socialmente utile e riconosciuta dal vasto pubblico.

  6. Gentile Marseglia, ma io sono d’accordo con Lei, e non vedo contraddizione fra quanto Lei afferma e quanto io dico a proposito del collezoinismo privato in Italia (perché di questo parlavo).
    Il sistema museale italiano è unico in Europa e al mondo, e, se procede così, votato al suicidio.
    Ci sono molte cose da fare. Leggi soprattutto.
    Ma a chi interessa se non a noi?

  7. Cristiana cara, tu che hai studiato tanto mi spieghi perche’ in passato le cosidette Avanguardie hanno dichiarato guerra ai musei (certo in modo teorico, ma la posizione era quella) ed invece oggi , quelle, che in un certo modo sono nate ….dalle avanguardie , nel Museo ci vogliono entrare a tutti i costi ?

    Grazie Cristiana.

    ciao.

  8. Caro Lorenzo, scrivo solo per dirti che non ho ignorato la tua interessante questione, ma ho bisogno di un poco di tempo che oggi non ho avuto e neppure ora ho per risponderti in modo pertinente. Non è vero che ho studiato tanto, ma è vero che continuo a studiare.Ho alcune teorie in proposito al mutamento dei comportamenti “sociali” dei (non)movimenti artistici contemporanei. Ma devo rifletterci per risponderti. Intanto ti chiedo, per cortesia, cosa intendi esattamente per “avanguardie”? Così mi inserisco meglio nell’argomento di cui vuoi ragionare. E speriamo che non ci diano dei pedanti….Grazie e scusa il ritardo, un saluto cordiale Cristiana

  9. cara Cristina Curti,
    in genere per “avanguardia” si intende “che guarda in avanti”, guarda al futuro, ricerca linguaggi nuovi.

  10. Le avanguardie storiche: futurismo, dadaismo, situazionismo, arte e anarchismo, nei loro manifesti e proclami, volevano distruggere i musei, in particolare quelli moderni. Molti artisti (sul piano teorico) come dice Lorenzo Marras, hanno sempre ritenuto che i musei fossero la mummificazione dell’arte e la morte del pensiero. Contrariamente all’opinione di molti noti “artisti” di oggi, (finti avanguardisti) – apparire in un museo è sinonimo di carriera e successo.

  11. Chiedo scusa alla Redazione, ma c’è qualcosa che non funziona in questa notizia. E’ da stamattina che provo a rispondere agli amici che chiedono un parere e il commento non esce. Mentre ne è stato pubblicato uno posteriore altrove. Cosa devo fare? Ringrazio e saluto Cristiana Curti

  12. non devi fare niente cara cristiana curti, a volte la redazione di exibart gode nel censurare qua e là senza dare spiegazioni, a me avranno già censurato 20-30 commenti (senza offese pacchiane come quelle del birraio peroni spacciasigarette sia chiaro), alla fine ognuno si diverte come può .

  13. Ed ecco il bloccone 2.
    II PARTE
    Più recentemente, gli YBA si rivelano nella storica collettiva del 1988 a cura di Damien Hirst, Freeze, ai Docks di Londra, non in un Museo. Ma l’intento è (per me senza dubbio) quello di misurarsi con la critica ufficiale e attirarla, tant’é che Saatchi (deus ex machina) convince Norman Rosenthal e Nicholas Serota a visitare la mostra. Il resto è Storia di rapidissima evoluzione.
    Quest’ultimo è, secondo il mio modo di vedere, il tratto distintivo delle cosiddette “avanguardie” (almeno in Europa e Stati Uniti) degli ultimi trent’anni.
    Non è importante la musealizzazione di per sé, perché l’artista non sente tanto la necessità di essere riconosciuto culturalmente attraverso il museo (soprattutto a partire dagli anni ’80, con gallerie private che ampiamente sopperiscono alla notorietà data dagli eventi nei siti “canonici”), quanto piuttosto capisce l’importanza della vidimazione ufficiale per definire la propria posizione sul mercato, che da trent’anni (e in America ben prima) ha definitivamente smazzato le carte, confondendo le priorità.
    Non faccio la moralista, ma a me pare evidente che il modello di riferimento per le cosiddette avanguardie sia quello che consacra Andy Warhol e il sistema dell’arte sin dagli anni ’60. E se Warhol, vero homo novus, non aveva bisogno di riferimenti, perché egli era IL riferimento (autoregolamentato) nei confronti di altri (critici compresi), coloro che vennero dopo di lui non poterono più ignorare il vero circuito promotore (cioè il mercato) per emergere, e, in seconda ma imprescindibile istanza, del museo per rassicurare il mercato della propria qualità.
    Il motivo per cui questo sistema si è andato strutturando negli Stati Uniti è che dopo la seconda guerra mondiale le Scuole artistiche di matrice europea rifiorirono laggiù e non nell’Europa che pensava alla ricostruzione e che le aveva di fatto smantellate anche a causa della persecuzione antisemita. La mentalità utilitarista del pensiero filosofico americano (ispirato all’empirismo inglese) si esprime con Peirce, Dewey e James e il loro comune pragmatismo, tale per cui il vero è sempre l’utile (benché non sia vero il contrario, ovvero l’utile non sempre è il vero). L’intellighenzia statunitense vive immersa nella necessità di rapportare ogni espressione dell’intelletto al senso comune, alla vita pratica e, soprattutto, all’azione.
    Se si osservano così le cose, non è difficile comprendere dove sia morto l’idealismo.
    Certo generalizzo, ma non trovo una spiegazione più convincente di questa per giustificare anche l’odierna incapacità degli artisti di svincolarsi da (se mai è esistita una tale libertà) un costume così fortemente radicato.
    Per l’Italia, poi, dove il mercato non ha il potere di imporre fuori dai confini i propri “prodotti” e dove la cultura critica ha fortemente abdicato al suo mestiere limitandosi a descrivere ciò che si vede, senza proporre convincenti riferimenti filosofici e linee teoriche forti (spesso avversate dagli stessi artisti), va da sé che il Museo o la Fondazione privata siano indispensabili per ottenere una minima visibilità e un minimo successo anche commerciale.
    E di movimenti veri in Italia (avanguardie vere, come Lorenzo intende) non se ne vedono dagli anni ’60 e ’70 con la Poesia Visiva (dichiaratamente postasi ai margini della scena artistica) e l’Arte Povera. Che, nel momento in cui è teorizzata, diventa già Storia.
    Questa è la mia opinione (un po’ scolastica); non so se ho centrato il problema. Devo scusarmi per la prolissità, ma la domanda di Lorenzo “tirava” a una risposta un poco articolata.

  14. Basta, non ci riprovo più. Dopo aver tentato più volte di inviare il commento intero e poi diviso in due, viene inserita la seconda parte e la prima è persa nel nulla. Non è così importante, me ne rendo conto, ma non si può passare giorni a tentare di comunicare con gli amici di exibart. Caro Lorenzo, se mai interessasse la prima parte della mia risposta alla tua interessante domanda, fammi sapere e ti invierò il pezzo mancante al tuo indirizzo mail che individuo dalle tue note in questo sito. Altrimenti, ti prego di scusarmi, non è colpa mia se non ho potuto risponderti a dovere.
    Un saluto Cristiana

  15. Cristiana cara, leggendo il tuo commento pare di capire che lo spirito libertario ed innovatore che aveva animato le avanguardie (attraverso, bisogna riconoscerlo, delle parole d’ordine) si è confuso nel Mondo che si intendeva cambiare.
    Vuol dire che il mondo ha messo in storia quello “spirito” , lo ha assorbito nelle proprie contraddizioni; Dunque, possiamo noi affermare OGGI che l’artista si è trasformato in una sorta di piccolo borghese, in miniatura, con tutti i suoi annessi capricci e piccoli vizi quotidiani?
    (ovviamente non diverso da ogni professione per bene).

    Ciao Cristiana.
    (p.s. : se Vuoi scrivi pure alla mia mail, gradiro’ moltissimo,)

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