29 febbraio 2012

Dalla cronaca all’arte. Una risposta alla violenza

 
Il “femminicidio” non è retorica, ma cronaca quasi quotidiana. Donne ammazzate spesso da chi gli sta più vicino. Per questo sette artiste internazionali intraprendono un serrato corpo a corpo con la violenza, dando la loro versione cruda e visionaria di questa realtà. Siamo andati a guardare in anteprima la Biennale Donna di Ferrara. Non veterofemminismo, né autocommiserazione, ma capacità di spostare lo sguardo da sé al mondo. Per guardare oltre [di Manuela de Leonardis]

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Violenza è una parola esplicita quanto sotterranea che ne racchiude altre come aggressività, oppressione, impotenza, ignoranza, dolore. Troppo spesso declinate al femminile.

Anche nei Paesi socialmente più evoluti i dati statistici sono inquietanti, “femminicidio” è un neologismo che ha fatto di recente la sua comparsa sui media: ovvero distruzione fisica, psicologica e istituzionale della donna consumata, in una percentuale che arriva a toccare oltre l’80 per cento dei casi, all’interno delle mura domestiche. Particolarmente significativo che, in occasione della XV Biennale Donna di Ferrara – “Violence. L’Arte interpreta la Violenza”, curata da Lola Bonora e Silvia Cirelli (in preparazione per aprile prossimo) – ad affrontare l’argomento nelle varie sfaccettature, per restituirlo in chiave artistica, siano le donne. Proprio come assunzione di «responsabilità morale e politica del proprio ‘esserci’», come scriveva Marisa Vescovo in Segno/identità – Ipotesi itinerario dentro la creatività e il segno femminile.

A confrontarsi su tematiche che appartengono da sempre al linguaggio di ognuna di loro, sono state scelte sette artiste internazionali: dalle storicizzate VALIE EXPORT, Nancy Spero, Yoko Ono e Lydia Schouten, alle più giovani Regina José Galindo, Naiza H. Khan, Loredana Longo.

Le questioni sono tante, dai diritti negati alla guerra, altro argomento di drammatica attualità e sintesi estrema del concetto di violenza. «È stato molto importante per noi non vincolarci alla sola violenza di genere che colpisce le donne» – spiega Silvia Cirelli – «ma aprire un dialogo più ampio che coinvolgesse tutte le forme di repressioni, non solo sessiste, ma politiche, sociali e culturali, dando un’immagine più completa di una società tormentata e ferita».

L’arte non è panacea. Niente risposte certe, quindi, ma l’esigenza di queste artiste di interrogarsi attraverso linguaggi diversi, per fattore anagrafico e background, creando una sorta di mappatura che sfugge ai confini di meridiani e paralleli, in cui ritroviamo geografie interiori corteggiate dall’esuberanza di un moto di ribellione sincero, un gesto rafforzato dall’urgenza del momento storico che viviamo che invita a sfidare silenzio, pregiudizi, tabù.

Una dote innata, del resto, nelle donne, come ci insegnano gli anni Settanta con il femminismo e l’autocoscienza.

In altri contesti (con formule e intenti diversi), si parla di aggregazioni femminili spontanee spesso legate, ovunque nel mondo, alla condivisione di momenti privati all’interno di dinamiche sociali: impastare il pane nel forno comune, lavare i panni nel lavatoio, ricamare e cucire insieme, andare all’hammam. Momenti apparentemente “innocui”, ma fondamentali per stabilire una relazione di confronto, arrivando a superare (nei presupposti più ottimistici) la barriera di pudore e vergogna e tirare fuori una potenziale voce di ribellione.

Un atto non solo liberatorio, come le pagine di un diario personale, ma fortificante.

Rigore intellettuale, ironia e provocazione sono, in particolare, aspetti comuni che attraversano il lavoro di indagine della sofferenza intrapreso dalle artiste per questo nuovo appuntamento ferrarese. «La violenza è un tema che spesso si è intrecciato con l’arte contemporanea, quello che si è voluto ricreare con la Biennale Donna è però un viaggio metaforico fra generazioni, mondi e linguaggi diversi, a dimostrazione di come la violenza non abbia età, religione o colore», continua Cirelli.

Intorno all’azione performativa ruota la poetica di molte di loro, a partire da Yoko Ono (Tokyo 1933, vive a New York) presente in mostra con il video della performance Cut Piece (1964 e 2003), in cui gli spettatori venivano invitati a tagliare a pezzetti gli indumenti dell’artista fino a lasciarla nuda. Quanto all’”esplosiva” Loredana Longo (Catania 1967), in quest’occasione ha realizzato Floor#5, Triangle Shirtwaist Fire, focalizzando l’attenzione sull’emancipazione femminile attraverso un drammatico fatto di cronaca del 1911, quando a New York prese fuoco una fabbrica di camicie e vi morirono 146 operaie, rappresentate nel site specific da altrettante mattonelle di cemento che incapsulano indumenti bruciati.

Con l’imponente installazione Kalashnikov (una torre di fucili), VALIE EXPORT (Waltraud Lehner è nata a Linz, Austria nel 1940, vive a Vienna) punta dritto alle tematiche di guerre e conflitti, terreno fertile di violenze il cui movente è la speculazione economica.

Esattamente come opera Regina José Galindo (Guatemala City 1974) con le sue azioni di denuncia degli atti criminali del regime militare del suo Paese, ma anche dei diritti violati dalla legge statunitense che prevede la criminalizzazione degli immigrati privi di documenti.

A Virus of Sadness è il video di Lydia Schouten (Leiden, 1948, vive a Rotterdam), che accompagna lo spettatore, insieme a fotografie e oggetti che fanno parte dell’installazione, nel percorso d’inquietudine e precarietà, vissuto dalla stessa Schouten durante un soggiorno newyorkese, dove emerge quel senso d’impotenza nei confronti dell’aggressività e della violenza metropolitana.

Tornando alle violenze sulle donne, Naiza H. Khan (Bahawalpur, Pakistan 1968, vive a Karachi) con la complessa installazione di corpetti che diventano armature, nel corto circuito di forme e materiali, denuncia soprusi che subiscono le donne nel suo Paese, mentre Nancy Spero (Cleveland, Stati Uniti 1926-New York 2009) riscrive la storia delle donne con un’opera come Vulture Goddess Gestapo victim. Nell’intervista di Alessandra Mammì (pubblicata nel catalogo Charta realizzato nel 2009 in occasione della mostra Nancy Spero – BLUE allo Studio Stefania Miscetti di Roma) l’artista aveva affermato: «Io rappresento la donna che controlla il proprio corpo e i propri gesti, riappropriandosi del linguaggio del proprio corpo e delle sue rappresentazioni, facendosi soggetto parlante attivo e non solo oggetto a/di cui si parla». Parole che suonano come un diritto, soprattutto una speranza.

 
manuela de leonardis
 
 
 
 

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