30 maggio 2012

Volare, oh oh!

 
A Villa Medici di Roma si apre una mostra che svela la natura dinamica di tappeti, cinema, video e sculture. "Tapis Volant", fatta in collaborazione col Centre Pompidou, è un eccentrico catalogo di superfici e immagini in movimento. A partire dalla metafora del tappeto volante, specie di grande ombrello visionario che può accogliere oggetti disparati. Ma dove a prendere quota è soprattutto la nostra immaginazione

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Il tappeto volante è un’immagine estremamente attraente. Evoca libertà, sogno, sorprendente imprevisto. Ma non è detto che a mettersi a volare sia necessariamente una superficie piatta o un semplice tappeto. Possono farlo le immagini, le opere degli artisti, la fantasia e il montaggio mentale con cui noi animiamo i film. A liberare dalla staticità verso un fluido nomadismo, a far volare, insomma, è il nostro pensiero e l’interpretazione – la lettura, verrebbe da dire, se questa non rischiasse di alludere a qualcosa di fermo – che diamo di qualcosa.

Questo è quanto pensa Philippe-Alain Michaud curatore al Centre Pompidou, prestato a Roma per la bella mostra che si apre oggi al pubblico nell’ancor più bella Villa Medici (“Tapis Volants”, 30 maggio-21 ottobre).

Perché la mostra è bella? Non solo perché è ben allestita e la cornice della villa aiuta nella riuscita del progetto, è anche un’iniziativa intelligente. Chiede alla nostra mente di fingersi tappeto, di quelli magici però. E la fa volare.

Esposti ci sono tanti tappeti veri: per lo più orientali, ottomani, sapientemente raffinati con quel paziente intreccio di fili che disegna paesaggi, mondi vegetali, arabeschi. O più “etnici”, più elementari dove la fascinazione è affidata a cromatismi accesi. Così come è negli arazzi di Alighiero Boetti che sono “mappe” recenti (non più contemporanee!) di un mondo appena passato. Ma i tappeti, pur provenendo da importanti collezioni pubbliche francesi (Museo del Tessuto di Lyon, Museo Jacquemart-André, Museo di Quai Branly) e costituendo una ricca campionatura delle funzioni di questo oggetto: tappeti di guerra, tappeti di preghiera, tappeti giardino, sono solo parte delle opere esposte. Accanto ad essi figura un Benozzo Gozzoli, prestato dall’Accademia Carrara di Bergamo, dove la Madonna è incorniciata da un arazzo che sembra in procinto di prendere quota grazie a degli angioletti che lo tengono su, mentre decisamente ancorato a terra sta un freddo tappeto minimalista di Carl Andre e subito dopo una installazione quasi aerea di Hans Haacke, dove un leggerissimo tessuto blu è tenuto in sospensione da un ventilatore. Così come un altro ventilatore fa vorticare il nastro magnetico di Zilvinas Kempinas. Mentre in una foto Urs Lüthi pare fare prove di volo su un tappeto.

Ma la parte più interessante della mostra è quando affronta l’idea e la concretezza delle immagini in movimento, il cui legame con il tappeto sta, secondo Michaud, laddove questo è visto come «dispositivo della messa in moto delle superfici che, utilizzando le proprietà dell’espansione, della rotazione e del defilarsi, produce degli effetti di fluttuazione, di disorientamento o di squilibrio». Il cinema, per esempio, rivela questa trasformazione dello spazio. Che solo apparentemente è fisico, essendo soprattutto mentale, perché la decodificazione delle immagini in movimento, l’attribuire una spazialità tridimensionale a qualcosa che si presenta bidimensionale e il ricomporre in unità temporale sequenze staccate l’una dall’altra, è un esercizio della mente con la indispensabile complicità dello sguardo. Da questo punto di vista, sostiene Michaud, c’è una profonda analogia tra il tappeto volante, che si srotola attraversando metaforicamente le coordinate spazio-temporali e il cinema che, con le sue invenzioni, dinamizza quelle coordinate.

Un esempio illuminante viene da Stan Brackhage, filmmaker statunitense considerato uno dei pionieri della scuola sperimentale. In mostra figura una sua pellicola in 16mm del 1963 alla quale Brackhage ha appiccicato ali di insetti, steli d’erba e foglie. L’effetto è un movimento molto vibrante ottenuto, in realtà, perché il regista aveva finito la pellicola e doveva inventarsi qualcosa per sfruttare al meglio quella poca che gli era rimasta.

Ma, ancora più dei film, il video gioca sulla possibilità di “volo” delle immagini. Realizzando frequenti infrazioni alla loro grammatica abituale, tornando su se stesso e quindi scardinando la linearità delle sequenze, distorcendole a volte per far emergere un contenuto concettuale, è qualcosa che può riallacciarsi alla metafora del tappeto volante. È quanto emerge in un video tanto bello quanto sconcertante di Paul J. Sharitz, girato dall’ascensore di un grattacielo dove ad un certo punto il sotto e il sopra si capovolgono e con loro tutti i nostri canonici riferimenti: macchine giù lontanissime che vanno su un fianco, strade che corrono in verticale e così via volando.

A.P.

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