22 febbraio 2013

Antonio Biasiucci, quando il nero abbaglia

 
Il fotografo campano sta avendo un forte riconoscimento del suo lavoro. Dopo essere stata alla Calcografia di Roma, la sua mostra "Tre terzi" si sposta a Napoli e poi a Parigi. Perché? Semplice: è una mostra bellissima, dove immagini rituali, che siano di vita o di morte, sono trattate con forza lirica e rigore allestitivo. E dove a illuminarle è l'uso sapiente del nero. Che conferisce loro drammaticità e qualcosa che sfida tempo e convenzioni

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Forme archetipe che vengono da lontano, attraversano galassie, mondi sommersi, esplorano l’inconscio ed eccole lì – una affianco all’altra – a raccontare attraverso il linguaggio fortemente contrastato del bianco e nero, in un divenire accidentalmente drammatico, il percorso individuale e professionale di Antonio Biasiucci (Dragoni, Caserta 1961, vive a Napoli).

Una mostra straordinariamente lirica ma rigorosa, “Antonio Biasiucci – Tre Terzi. Sacrificio. Tumulto. Costellazione” che, dalle sale al primo piano di Palazzo Poli, sede dell’Istituto Nazionale per la Grafica, prima tappa appena conclusa dell’iter espositivo, si sposta in primavera a Napoli (Villa Pignatelli – Casa della Fotografia, 28 marzo-25 maggio) e poi a Parigi (Maison Européenne de la Photographie, 11 giugno-10 ottobre, accompagnate da delle sculture di Mimmo Paladino), accompagnata da un bel catalogo, altrettanto esauriente, che l’editore Peliti Associati ha appena mandato in libreria.

Tutto si mescola in questa visione sospesa, quasi metafisica, in cui l’istante – sia quello presente che quello remoto – è cristallizzato in un frammento muto, ma fremente in un brulichio sotterraneo. C’è la nascita, la vita quindi, descritta attraverso la chimica della lievitazione (un pane come un grembo materno), c’è la morte, il magma psicologico e fisico e l’ulteriore trasformazione che aspira ad una rinascita.

Alchimia, sì c’è molta alchimia nelle fotografie di Biasiucci. Ma c’è anche molto teatro: l’insegnamento del regista teatrale Antonio Neiwiller, che il fotografo considera il suo unico grande maestro. «Ancora oggi applico tutti i suoi metodi teatrali nella fotografia», per cui «le mie installazioni non sono altro che scenografie di immagini», afferma Biasucci.

Un teatro sperimentale, quello di Neiwiller basato su meccanismi di lunghi silenzi, concentrato sull’essenziale, sulle azioni libere e, soprattutto sulla loro continua reiterazione che nel ripetersi si aprono a nuove interpretazioni. «Per me è la stessa cosa, io ripetutamente torno a fotografare la stessa vacca, che mentre prima era semplicemente una vacca con il tempo diventa altro ancora. Entra in ballo la mia interiorità. Il dialogo diventa alla pari. Così accade per ogni altro mio lavoro. Se riesco a passare con facilità dal ritratto al paesaggio, dal paesaggio al nudo… e tutto ciò convive in una sorta di fotografia totale è perché lo stesso metodo viene applicato ad ogni soggetto. Un metodo che, puntando all’essenza delle cose, fa sì che queste realtà, pur essendo molto diverse tra loro, stiano bene insieme. Il soggetto, comunque, non è mai un pretesto».

I tre terzi a cui fa riferimento il titolo della mostra sono le scansioni che segnano il ritmo narrativo, così come è concepito nell’allestimento che, partendo dalla prima sala dedicata al tema del ‘Sacrificio’ – espresso attraverso la nascita, quindi il dono materno (Madri, 1995-2002), e in termini di dualità dalla morte con l’uccisione del maiale che diventa paesaggio (Vapori, 1982-87) – accompagna lo spettatore nel ‘Tumulto’ della seconda sala (Magma, 1998 e Res, 2004) in cui la natura primigenia si rivela all’uomo nella sua potenza schiacciante e disastrosa, carica di imprevedibilità. A concludere il percorso, un terzo ambiente incentrato sulle ‘Costellazioni’, in cui le serie Pani (2006-2010), Molti/Volti (2009) e Vacche (1987-1991) tornano a parlare dell’uomo, della fatica del vivere, ma anche della grazia ricevuta.

Un riferimento esplicito alla storia personale dell’artista è nell’installazione inedita Costellazione (2012), in cui 22 piccole lastre lasciano affiorare volti. Si tratta di negativi degli anni ’50-’60 per foto tessera scattate da Alfredo Biasiucci, padre di Antonio, che a Dragoni aveva il suo studio fotografico. In questi oggetti ritrovati c’è una sorta di tributo, ma anche di riscatto del figlio che da subito aveva preso le distanze dal lavoro del padre: «Detestavo quel lavoro perché per me rappresentava un aspetto borghese che rifiutavo e, nello stesso tempo, un qualcosa che, essendo papà molto bravo, quindi molto richiesto, lo rubava alla famiglia. A distanza di anni riconosco che nel periodo difficile in cui mi trasferii a Napoli, la fotografia fu la pratica alla quale ancorarmi per cercare di capire. È stata una sorta di terapia. Naturalmente le mie fotografie dovevano essere necessariamente diverse da quelle di mio padre. Mi comprai una macchina fotografica piccola 24×36 che, per lui che usava solo la Rolleiflex 6×6, era una macchinetta da quattro soldi, ma per me era sinonimo di libertà. Anche il mio libro Vapori, pubblicato da l’Alfabeto Urbano quando avevo vent’anni, è tutto realizzato in controluce, esattamente come papà mi aveva sempre detto di non fare. Un gesto di rottura che si manifestava attraverso la fotografia».

A chiudere il cerchio, infine, un’altra installazione Camera Oscura (2012), che appare come una sorta di percorso iniziatico in cui il buio denso invita lo sguardo a riconoscere le forme. In realtà volti che, come tristi epifanie, evocano nelle intenzioni di Biasucci, i tanti emigranti dispersi nel nostro mare per raggiungere l’Occidente promesso. Il tutto, accompagnato dall’intervento sonoro di Luca Iavarone che traduce il liquido amniotico, il magma dei vulcani, l’inquietudine dell’imprevedibile, la rassegnazione: sentimenti che si plasmano come una ricetta alchemica.

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