27 febbraio 2013

Fotografo, dunque sono

 
E sono io e non io. Di chi parliamo? Di Cindy Sherman, naturalmente. I cui Early Works sono esposti al museo Gucci di Firenze e a Merano Arte, dove la mostra si intitola proprio "That's me - That's not me". Perché questa artistar americana ha sempre giocato sullo slittamento dell'identità. Ma non solo. Interpretando i volti e i corpi di uno smisurato campionario femminile, sembra dirci che la storia siamo tutte noi. Cioè lei

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Corporeità, travestimento, set ambientale, autoscatto, sono i dispositivi di cui si avvale Cindy Sherman (1954) sin dalle sue prime serie fotografiche, proposte come singolo scatto o collage narrativo, realizzate nella metà degli Settanta, quando ancora frequentava il College. Approcciando la fotografia con un fare performativo o, come ha affermato il critico Verena Lueken, con “performance congelate”, l’artista mette a disposizione il proprio corpo e tratta il volto come una tela bianca sulla quale intervenire. Vestendo i panni e mettendo in scena clichè femminili dalle molteplici identità, Cindy Sherman costruisce la sua parodia incarnando e prendendo a soggetto ruoli e stereotipi culturali imposti dalla società mass-mediale, caratteri alla ricerca di sé, di un’identità non imposta dai codici della società, e lo fa nella sua duplice veste di donna e di osservatrice dell’universo femminile. Tema che l’artista indaga e che ha sempre tenuto a non inscrivere in una matrice di genere o politica.

Tra l’altro, proprio il combattivo movimento femminista americano di quegli anni, ha teso a sollevare una critica diretta nei confronti del suo lavoro, ritenuto acritico rispetto al potere del maschio: sessuale, sociale, economico e politico. Tant’è che, quando l’artista intorno agli anni Ottanta realizza Centerfolds, progetto che trae ispirazione dalle riviste porno-soft americane prendendo come riferimento iconico il Playboy centerfold, Cindy Sherman, incarnando modelli femminili dallo sguardo arreso, fotografati in preda ad angosce esistenziali e fragilità enfatizzate dalla ripresa dall’alto, sollecitò una critica feroce del movimento che riscontrava in quelle immagini l’oggettualizzazione del corpo femminile, lo stesso intento riscontrabile nei magazine per soli uomini con profusione di immagini ammiccanti morbosità voyeuristiche.

Doll Clothes, Bus Riders e Murder Mystery People costituiscono il corpo significante di Early Works, la mostra in corso al Gucci Museo di Firenze (a cura di Francesca Amfitheatrof, fino al 9 giugno) che, attingendo dalla collezione Pinault, ha l’intento di celebrare i primi passi nell’arte di un’interprete della contemporaneità che ha influito concretamente sull’ascesa della fotografia nel mondo dell’arte.

Doll Clothes è un film del 1974, realizzato in animazione su pellicola super8 bianco/nero, ed ha come protagonista una donna. L’artista che si è fotografata in biancheria intima e ritagliata come una figurina di carta, esce dall’involucro che la contiene per andare a scegliere e indossare abiti diversi, ma una grande mano compare a lato dello schermo e la ferma, la spoglia, l’afferra perché lei è impotente e la ripone di nuovo nell’involucro. La questione che solleva è tuttora in atto: la società ideologicamente impone i suoi canoni e sembianze al concetto di femminilità.

Murder Mystery People e Bus Riders sono due serie fotografiche in bianco/nero realizzate nel 1976. La prima mette in scena gli stereotipi di un immaginario “crime movie” di second’ordine e racconta di un’attrice degli anni Trenta che s’innamora del regista del film. Mentre Bus Riders testimonia la prima “photo bus exhibitions” allestita nel 1976 sul Metro Bus 535 di Buffalo in USA. Fotografie che ritraggono fototipi della società, viaggiatori che Cindy Sherman rappresenta e incarna nelle loro diverse tipologie, personaggi comuni, immediatamente riconoscibili come la casalinga o l’afro-americana, costruendo così una possibile realtà sociale.

Gli “Early Works”, con le serie dei Doll Clothes, Bus Riders e Murder Mystery People, sono proposti anche a Merano Arte con la mostra “Cindy Sherman. That’s me – That’s not me. Le opere giovanili 1975-1977” (a cura di Gabriele Schor, fino al 26 maggio). Si tratta di oltre 50 lavori dell’artista entrati nella Collezione Verbund di Vienna che, nella persona di Gabriele Schor, ha lavorato tre anni con Sherman per documentare scientificamente i suoi inizi concettuali e performativi. Questa ricerca, riportata nel superbo catalogo ragionato pubblicato dall’editore tedesco Hatje Cantz, ha permesso, ad esempio, di stabilire che, a differenza di quanto generalmente si creda, non sono gli Untitled Film Stills (1977-1980) i lavori fondativi di Sherman, quanto piuttosto una serie di opere realizzate tra il 1975 ed il 1977 a Buffalo, destinate a diventare la base del suo lavoro successivo. Che, nel tempo, si configura all’insegna di un “continuum” condizionato dal codice linguistico e peculiare del mezzo fotografico: composizione, formato, inquadratura, uso espressivo delle ombre o dei colori.

Sensibilizzata dal post-human e dall’inorganico, negli anni Novanta realizza due importanti serie di lavori: Disasters e Sex Pictures che esprimono una forte vena surrealista, ma soprattutto, in maniera disinvolta, sostituisce se stessa come protagonista delle proprie immagini con bambole, manichini, membra artificiali. Sono le ibridazioni tra materiale pornografico, protesi mediche, macchine gonfiabili che creano una grottesca realtà onirica in cui la corporeità è de-costruita e dove i sessi si compenetrano, definendosi in maniera del tutto ambigua. Una corporeità che è oggetto di perversione, che il perbenismo della società da sempre cela abilmente tra le proprie maglie. Alle soglie del 2000 Cindy Sherman torna a lavorare anche col bianco/nero, fotografando figure in plastica dalle membra fracassate e riassemblate, personaggi dallo sguardo inquietante che fronteggia quello dello spettatore, sollecitandone disagio e sconcerto.

«Sono sempre stata affascinata da una certa iper-bruttezza – afferma l’artista – sono interessata soprattutto alle cose considerate sgradevoli e indesiderabili. Io le trovo, al contrario, veramente belle».

Recentemente Cindy Sherman si pone di nuovo davanti all’obiettivo della sua fotocamera per calarsi nei panni di personaggi capaci di esprimere qualcosa di sé, di forte impatto estetico e concettuale. Il primo in ordine di tempo è un progetto sul pathos, si è soffermata sull’archetipo del clown come maschera del circo dal profilo provocatorio, che vive secondo schemi propri di libertà pur conoscendo le regole che volontariamente non segue per andare oltre le convenzioni, esprimere una logica che è poi l’assenza di una logica tradizionale. Un modello che offre una struttura comportamentale nella quale riconoscersi per sopravvivere in questa nostra “società dello spettacolo”.

L’altro progetto riguarda una serie di “ritratti”, di donne in posa e «per favore non chiamateli autoritratti!», ribadisce Cindy Sherman. Un’indagine intorno al prototipo della donna “upper-class” americana, ricca e potente. Donne che non corrispondono a persone realmente esistenti, ma la questione che l’artista intende far emergere è la rappresentazione del potere attraverso simbologie estetiche universali come la posa altera, il corpo di tre quarti, la profusione di preziosi, l’abbigliamento ricercato e la location prestigiosa, sebbene posticcia.

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