08 febbraio 2015

Le tracce della memoria a Genova

 
Impegno, piuttosto che intrattenimento. Sette artisti si confrontano con la Shoa. Non per l’ennesima celebrazione, ma per dire la propria su questa ferita ancora aperta

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Un percorso articolato tra celle, angoli angusti, spazi bui, pareti senza finestre, corridoi stretti e soffitti bassi per immaginare la realtà dei prigionieri, e raccontare il segno lasciato da un dramma che non conosce un perché, che rimbomba e si dilata solo nel ricordo. Nessun accesso diretto con l’esterno, niente luce naturale, poche relazioni con il mondo oltre il muro, questi  sono le carceri della Torre Grimaldina, le antiche prigioni di Palazzo Ducale, cornice ideale per  ospitare  la settima edizione di “Segrete. Tracce di Memoria”. 
Sette artisti, in sette celle dialogano con la memoria della Shoah, la rassegna d’arte contemporanea ideata e curata da Virginia Monteverde, organizzata da ART Commission con la collaborazione di Genova Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura e il ILSREC, a Palazzo Ducale, fino all’8 febbraio: «È un luogo, o meglio un contenitore che ha una valenza narrativa, che racconta da solo il dolore – sottolinea  Virginia Monteverde – poi ogni artista segue la propria poetica, con i propri strumenti. Più che mai in questa edizione si sente l’esigenza di riflettere su temi di ampio respiro con artisti internazionali, geograficamente più lontani, emotivamente più vicini», conclude Monteverde.
Stefano Cagol, Come alberi
Il trentino Stefano Cagol è partito dagli alberi per il suo site specific intitolato appunto Come Alberi, che sono resi attraverso immagini silenziose, raccolte in un video direttamente proiettato sulla pareti della cella e immaginati nei campi di concentramento, come testimoni passivi e inermi davanti al grande dramma. Alberi che sono anche simboli di vitalità e fertilità nella cultura ebraica, che resistono anche ai forti venti delle tragedie, e ancora piccoli alberi veri solo apparentemente secchi, con piccoli germogli per lanciare un messaggio di speranza con la rinascita. Visioni  poco chiare, avvolte spesso dalla nebbia, accompagnate solo  dal rumore del vento: «Gli uomini dimenticano facilmente la sofferenza, le tragedia – spiega Cagol – si tende a cancellare, il ritorno alla memoria è importante, e dimenticare è ancora più pericoloso». 
Michel Kiwic intitola Glee (Gioia) la sua installazione che usa la luce artificiale per dialogare con le piante, e proiettare le loro ombre nello spazio della sua cella, per giocare tra gli effetti di  illusione e inganno di una falsa verità.
Arena, On my skin
Pirgiorgio De Pinto con la performance Riflessione usa uno specchio per leggere la possibile identità di un prigioniero. Lo frantuma sotto gli occhi sorpresi del pubblico, e comincia una lenta operazione di ricostruzione, per realizzare un corpo, fatto di tanti piccoli frammenti che  diventano tracce di  memoria mentre scorrono in loop sul monitor, fino a creare una nuova realtà, e sottolineare che la storia è un ciclo che si ripete .
Toni ancora forti con On My Skin, l’installazione di Francesco Arena sul tema della prigionia, che per l’artista è un processo che porta alla spersonalizzazione, accompagnato dalla perdita di dignità dell’uomo, e che racconta con una grande foto dell’attore Franco Leo, nudo, mostrato sul pavimento della cella, che il pubblico può calpestare, diventando protagonista di una nuova involontaria violenza. Un lento processo di deterioramento scandito dalla musica del compositore americano William Basinski, versione inedita rispetto all’originale intitolata Disintegration Loop per poi scomparire letteralmente insieme all’immagine.
Cristina Treppo, Urne
Il lavoro di Valter Luca Signorile, l’installazione Sono come il vetro, descrive l’immobilismo dell’uomo e la sua incapacità di reagire alla storia, denunciando la coscienza individuale di fronte all’incoscienza collettiva.  
Cristina Treppo racconta un dolore profondo con il silenzio e il vuoto di Urne, temi scanditi da una serie di urne bianche, senza contenuto, disposte in ordine, su uno scaffale all’interno di  un’altra cella, un dialogo elegante che non accetta intrusioni. 
Margherita Levo Rosenberg sceglie il tallit, lo scialle ebraico, e lo ricrea con un un intreccio di frammenti di pellicola di radiografie di persone, un richiamo e una sintesi degli elementi alla base di una civiltà, fatta da culture identitarie  e dalle diversità per l’installazione Celeste Tallit che incuriosisce e colpisce.
Rosenberg, Celeste tallit
Anche una videotestimonianza The Silent Memory è proiettata per la durata della mostra, il documentario dell’artista di origine rom Seo Cizmic, noto attivista per i diritti umani, che rielabora il genocidio rom dal racconto di Piero Terracina, dramma e poesia insieme.
Salendo le scale lo spazio più alto della torre, dedicato ai giovani artisti internazionali e al loro lavoro Peace Project, è un video che mostra le infinite sfaccettature della parola peace tratte dal web, un modo per confrontare mentalità diverse di luoghi distanti.
Tutti lavori con ritmi intensi e prospettive mai uguali che dialogano bene per formare tanti racconti  di un dramma che non avrà mai risposte, ma che può solo aprire ad altre riflessioni.

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