16 ottobre 2015

L’INDUSTRIA E IL PALCOSCENICO

 
Due mostre opposte alla Collezione Maramotti, ma con un punto in comune: la teatralità dell'arte, dalla meccanica alla commedia. Ecco Corin Sworn e “Industriale Immaginario”

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È stata in residenza in Italia quattro mesi Corin Sworn (Glasgow, 1976), per realizzare il suo “Silent Stick” project, in scena fino al prossimo 28 febbraio alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia. Due mesi a Roma, uno a Venezia e un altro a Napoli, per raccogliere racconti e suggestioni sul tema della Commedia dell’arte, quella forma teatrale basata sull’improvvisazione, sviluppatasi in Italia nel XVI secolo, e che vedeva come protagonisti attori dalla gestualità esagerata, itineranti e soprattutto spiantati, ai margini della società: una rappresentazione povera ma carica di significati legati al proprio tempo e alla condizione umana.
Sworn, vincitrice della quinta edizione del Max Mara Prize for Woman, ne ha sceneggiato i tratti e con i magici sarti di Max Mara, come l’artista li ha definiti durante la presentazione dell’installazione, ha creato abiti e costumi, ispirandosi al testo Il teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala, attore e impresario di una delle principali compagnie teatrali del Rinascimento.
Il risultato è un intervento che rassomiglia ad una disposizione di oggetti di scena che, radunati, anche singolarmente riescono a porsi come vere e proprie piéce: ci sono lanterne per una festa, una finta clava associata a una corda annodata, una serie di candele legate insieme, un mazzo di carte italiane, diversi panchetti e riproduzioni di forme di formaggio, bottiglie di vino. Sono alcuni degli stessi oggetti che vengono elencati nei resoconti di Scala  che, scrive il curatore Daniel F. Herrmann nel catalogo che accompagna la mostra, “divengono attori, recitando un ruolo sul palco e indicando costantemente la loro artificialità”. 
Corin Sworn, Silent Stick project, vista della mostra
Differente temperatura per gli artifici di “Industriale Immaginario”, a cura di Marina Dacci, dove la scena si gioca con quegli elementi che hanno ispirato tanta arte dell’ultimo secolo, in quel rapporto tra uomo e macchina che diviene costruzione per altre forme, macchine celibi, teatralizzazioni di ambienti e oggetti dall’identità decisamente mutante. Sono opere della Collezione che non hanno preso posto tra gli spazi del secondo e terzo piano, sede della raccolta permanente di Maramotti, ma che ora si rivelano – anche nella loro complessità – in una archiviazione di inclinazioni politiche, oltre che poetiche, che si riservano ad opere che prendono forma dal riuso di elementi alieni all’arte. Ci sono le spazzole automatiche dei lavaggi auto usate in Gummo III, 2008, da Lara Favaretto, che al muro si trasformano in un concetto: velocità, movimento, colore-pittura in forma futurista e il consumarsi di questi immensi pennelli contro una tela metallica; c’è Paolo Grassino con la sua Analgesia (2003-2004) di gomma nera, dove un gruppo di cani resta a fare la guardia ad una montagna di carcasse di autovetture, in una scena da cimitero americano, distopica, così come ha qualcosa di Blade Runner anche Car mirror eat raspeberries (2013) della vincitrice della quinta edizione del Max Mara Prize (e del Turner Prize) Laure Prouvost
Corin Sworn, Silent Stick project, vista della mostra
Tra le sale di “Industriale Immaginario” aderenza e scollamento dalla realtà si fondono in un surrealismo delle forme meccaniche, per i rimandi non solo all’industria, ma anche alla metropoli e alla sua popolazione, come accade con lo schermo Snap di Peter Halley (1996) o, più delicatamente, con From Generation to Generation (2001) di Kaarina Kaikkonen, dove una serie di giacche si dispongono – sempre più assottigliate – a formare un grande reperto zoomorfo, o forse un oggetto non ben identificato della nostra epoca. 
Due specchi d’Italia a confronto, evocativi, come lo sono state le tre città dove Sworn ha soggiornato lasciandosi invadere dalla tradizione dello sberleffo e dalla gestualità, e come le dozzine di distretti produttivi che hanno regalato, in senso più ampio, le visioni di un’altra industria. 
In un certo senso, dunque, si tratta di due progetti antropologici innestati nella cultura di un Paese frammentato (anche se i protagonisti in entrambi i casi sono “globali”), che va al di là delle differenze linguistiche, ma entra nel vivo di una teatralità esasperata.
Krištof Kintera, Small Factory (Personal Industries L.t.d.)
Un po’ come accade nella splendida e pericolosa Small Factory (Personal Industries L.t.d.) di Krištof Kintera, realizzata nel 2009. Entrate in questa deliziosa stanza che ricorda le “buone cose di pessimo gusto” e rilassatevi. Alla parete scoprirete un piccolo quadro di paesaggio, e in men che non si dica ricollegherete la pace della montagna sulla tela al luogo dove stazionate, trovandovi all’interno di una metarappresentazione. E che succede se l’elemento “stonato” del quadro, una metallica industria posta al centro del dipinto e riproposta al centro della sala come complemento d’arredo, si mette in azione e dalla sua ciminiera inizia ad uscire una nube tossica? 
L’ultimo parallelismo tra i resoconti di questi universi differenti? Il sindacalismo. Nonostante non siano evidenti le lotte per il lavoro, nell’installazione di Sworn si parla di ruoli interscambiabili, parità di sessi, salario distribuito a tutti i componenti della compagnia e del teatro come luogo di circolazione economica, grazie a stoffe e costumi, mentre nella reimmaginazione dell’industriale è possibile scoprire i topos che da sempre accompagnano il pensiero del “lavoro aziendale”, qui evidenti ma scardinati. 
Ecco perché le due mostre alla Maramotti sono preziose: perché si tratta di piccoli scrigni dove è contenuta una riflessione profonda sul nostro presente sia con gli occhi dello straniero, sia attraverso una variazione del processo produttivo: punti di vista che permettono di cogliere uno spettacolo inedito.
Matteo Bergamini

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