10 dicembre 2015

Jan Fabre, Re del Belgio

 
La Cattedrale di Anversa lo mette in dialogo con Rubens e ben due gallerie gli dedicano un focus. Incontro ravvicinato con un artista tanto amato quanto criticato, nella sua città

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Quando alla At the gallery di Anversa Jan Fabre si siede, al termine di una giornata di presentazioni e conferenze, per rispondere ad altre domande, quello che ormai si doveva dire su The man who bears the cross è già stato ampiamente discusso e così attacco con la battuta: “Jan, sei il Re di Anversa”. Ride l’artista, che in realtà non è solo “festeggiato” nella Cattedrale della sua città. 
Ma partiamo dal principio: la Diocesi ha acquistato, dopo oltre cento anni, una nuova opera per la chiesa, e nella fattispecie ha accolto proprio L’uomo che porta la croce, scultura bronzea di Fabre (nato nel 1958) che è – come da sua poetica tradizione – un  autoritratto mischiato con quello del padre che regge, sul palmo della mano, una gigantesca croce che, nonostante sia realizzata con la lega metallica, mantiene i toni perfetti e apparenti del legno smaltato. 
«Sono davvero molto felice di questa nuova commissione, anche se in realtà di una commissione non si tratta, perché l’opera è stata realizzata prima di venire a conoscenza che la Diocesi l’avrebbe acquisita – ci spiega Fabre – per cui sono doppiamente contento perché è esattamente rimasta come l’ho pensata io: non un’opera religiosa, non una scultura cattolica».
Ma come? Non si parla di religione in un pezzo che ha come soggetto proprio una croce, che viene installata nella Cattedrale di Nostra Signora, e che viene messa in dialogo con la Deposizione dalla Croce di Peter Paul Rubens? «È un’opera che parla di fede, che è ben diversa dalla religione. La fede è un concetto delicato, che appunto è tenuto in bilico continuamente dall’uomo, che cerca di averne cura, che modera anche i suoi movimenti in base a quella che è la sua personale croce». 
 Jan Fabre, At the gallery

Un concetto quasi illuministico che segue le inclinazioni di una disposizione al mondo, di una disciplina, un sentimento. Anche se metaforizzato con il massimo simbolo cristiano.
Ma si sa, Fabre è anche artista controverso, e nonostante sia uno dei massimi protagonisti della vita culturale del suo Paese, continua ad essere personaggio molto discusso e non sempre amato, come ci racconta proprio il direttore di At the Gallery, dove fino al prossimo gennaio sono in scena i progetti di The man who bears the cross che però, qui, assumono tutta un’altra dimensione: nel white cube degli spazi della galleria le due sculture presenti (il “bozzetto” e la prima copia, argentea e non dorata) creano un dialogo dirompente per la potenza del soggetto, dove l’occhio è perennemente attratto dalla grandiosità di queste croci rette da una piccola mano e dove, per dirla alla Roland Barthes, il punctum dell’immagine è nella tensione del corpo, nel suo essere puro movimento impercettibile di nervi, status di tensione. Ma mentre quel che accade in Cattedrale è un rimando continuo di figurazioni, dove la luce dei fari associata a quella naturale contribuisce a mettere in atto questa percezione, forse in galleria – vuoi per la purezza dello spazio, vuoi per una illuminazione fissa – il “bilico” si perde leggermente.
Poco male, perché se non vi bastassero Cattedrale e At the Gallery potete fare un viaggio che, davvero, vale ogni chilometro. Da Anversa, verso il confine francese con Lille, arriverete alla Deweer Gallery, nel comune di Otegem.
Jan Fabre, Room I - Brainhearts, vista della mostra JAN FABRE - 30 YEARS / 7 ROOMS, Deweer gallery
In questo luogo magico, che ricorda un poco la sede di Continua a Le Moulin, e che Jan Fabre afferma di sentire come uno spazio privilegiato per lavorare fuori dal caos e in piena pace (non a caso siamo in aperta campagna) la collaborazione tra l’artista e Mark Deweer, fondatore della galleria, è iniziata esattamente trent’anni fa e ora, fino al 20 dicembre, si ripercorre in sette sale la storia di questo amore professionale di lunga data.
“30 years/ 7 rooms”, questo il titolo dell’esposizione, è un’occasione per ripercorrere il lavoro visivo di Fabre, molto meno quello performativo, visto che l’unica testimonianza è il video L’incontro, girato a New York nel 1987 insieme a Ilya Kabakov dove, travestiti da mosca e da scarabeo, i due artisti dialogano su filosofia, scienza e religione; riflettendo sul mutamento, sulla trasformazione, sulla metamorfosi, su senso e spirito. 
In galleria ci sono anche gli esempi pittorici, bellissimi, de L’ora blu, tema – quello del giorno che si fa notte e viceversa – che lo ha occupato dal 1977 al 1991, e che lo ha portato a realizzare monocromi blu, con la penna a sfera, su supporti più disparati, dai grandi “fogli” di seta a piccole tele dove non solo si incontra l’ombra di Morfeo, ma anche i coleotteri che hanno rivestito un ruolo fondamentale nella sua produzione, e dove l’idea di corazza è inscindibile da quella dell’umana fisicità.
Jan Fabre, Room II - The Hour Blue, vista della mostra JAN FABRE - 30 YEARS / 7 ROOMS, Deweer gallery
Entrare alla Deweer, in effetti, è perdersi in un caleidoscopio di percezioni (seppure allestite con rigore assoluto) e fare i conti con alcuni fantasmi dell’umanità, grazie alla “partitura” che orchestra l’artista. Splendida la quinta sala, Umbraculum che sottotitola A place in the shadow away from the world, to think and work, e che non può che ricordare proprio la Deweer. Qui ogni elemento è sospeso da terra, appeso alle pareti o al soffitto. Ci sono elementi antropomorfi, scultorei, rivestiti con una corazza decisamente particolare e – inutile negarlo – quasi orrorifica: sono ossa sezionate, tagliate come fossero fette di limone, circolari: sono tutte diverse, e tutte neutre, a formare un pattern che, senza troppe ipocrisie, è la nostra copertura simbolica, e che non dovrebbe farci storcere il naso perché, in fin dei conti, l’artista ci sta mostrando solo – in versione poetica – la nostra primaria composizione vitale. E diventano invece corazze per muoversi nella vita, in un’esistenza più complicata, strumenti come sedie a rotelle, bastoni  e strutture per la deambulazione, “presidi ospedalieri” qui rivestiti da migliaia di corazze di scarabeo che, oltre a metamorfizzare gli strumenti in oggetti cangianti, permettono l’assunzione di uno status di meraviglia, oltre che di nuova vita e “protezione” dall’urto dell’esistenza. 
Ci sarà, forse, qualcosa che turberà il vostro sonno e la tranquillità, come le Offerings to the God of Insomnia, una serie di scuture-ex voto realizzate in cera su parti del corpo e “agghindate” di dozzine e dozzine d’occhi (bellissime protesi oculari in vetro), omaggio dell’artista al “Dio” di una delle sue condizioni fisiche [Fabre è insonne cronico, n.d.r.], ma d’altronde gli incontri non possono essere tutti tranquilli, anzi.
Il Re di Anversa vi aspetta con il suo carico di inquietudini, e se avrete fede – in questo periodo disgraziato dove sembra non si possa più credere a nulla – vi accompagnerà tra qualche tenebra per mostrarvi un po’ di luce. Funzione primordiale dell’arte.  
Matteo Bergamini 


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