01 marzo 2016

Il senso politico del fare arte

 
In occasione della mostra di Sandro Mele che si apre oggi alla galleria Morelli Contemporary di Bruxelles, pubblichiamo una conversazione tra artista e curatore

di

Con “Aquítodobien”, siamo al terzo ciclo di Sandro Mele dedicato a situazioni e fatti politici. Il primo “Lucha”, del 2006/2010, riguardava la ex Zanon, la fabbrica senza padroni, di Neuquén in Argentina. Il secondo “The American Brothers”, del 2013, invece era il racconto della gestione Marchionne della Fiat. Mele ha sempre affrontato, caso pressoché unico in Italia, il rapporto tra arte e politica in modo diretto, con la consapevolezza che l’arte oggi abbia un ruolo preciso nella nostra società, che è quello di partecipare direttamente alla realtà, aiutandoci a comprenderla e possibilmente a cambiarla. 
Come mi è già capitato di scrivere proprio per una sua mostra, alla domanda perché l’arte oggi trovi nella politica il suo senso decisivo, la sua necessità, rispondo che entrambe, la politica e l’arte, hanno una fondante relazione con la realtà. Entrambe hanno la capacità e la possibilità di modificarla, inducendoci a un suo ripensamento che comporta l’inevitabile cambiamento del nostro stesso stare e agire al suo interno. Il loro fatale convergere è dunque determinato dal comune destino delle conseguenze del loro fare. E per quanto la relazione ci appaia unilaterale, dell’arte verso la politica, gli effetti che quest’ultima reca in sé, in conseguenza alle elaborazioni della prima, sono per quanto invisibili nel presente profondi e decisivi per la formulazione del suo stesso futuro, che è il nostro.
aquì todo bien, 2016, instllazione 24 pezzi, cm 500x280

Cominciamo naturalmente dall’inizio. Chi è Bernardo Zuluaga? Come l’hai conosciuto? E perché valeva la pena raccontare la sua storia?
«Parlando di arte e politica, per me esistono due definizioni, due modi di vederla. La prima riguarda una qualche coniugazione tra arte e politica, ed è semplicemente una cosa che non mi riguarda; la seconda è fare politica attraverso l’arte, che è quello che faccio, o che vorrei fare. Parlare solo di arte nel mio caso è inutile, e penso che in generale sia inutile parlare di arte per l’arte. A me interessano i contenuti. Faccio politica, perché non sopporto di stare da un lato a guardare, e faccio politica attraverso non il solo raccontare, ma prima di tutto attraverso la mia diretta partecipazione a storie che oltre ad essere simboliche rappresentano una forma di lotta. La mia è sempre stata una lotta, dentro e fuori l’arte. Bernardo Zuluaga era un mio carissimo amico, che mi ha insegnato che nella vita lottare per i propri ideali è una cosa giusta e necessaria. L’ho conosciuto a Roma a casa di Betti Petit, una cara amica di entrambi, dove ho vissuto per circa dieci anni. Era fantastico parlare con lui, nel suo italiano approssimativo c’era una semplicità e una coerenza che è rara, molto rara. In casa di Betti ho sempre diviso la camera con i figli di Bernardo, prima con Camilo, il più grande, poi con le sue figlie. Per me era come essere parte di una famiglia. Bernardo era un ex guerrigliero che molto giovane si arruolò nelle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia), per poi passare alla E.P.L. (Ejército Popular de Liberación), dove ricoprì il ruolo di comandante. Ed è stato  fondamentale per la pace tra la E.P.L. e lo stato della Colombia. È stato anche senatore della Repubblica colombiana. Poi per ragioni di sicurezza si dovette trasferire in Olanda e successivamente a Roma, dove chiese asilo politico e dove rimase fino alla sua morte nel 2008. Bernardo conosceva la mia intenzione di fare un lavoro sulla sua storia e, dopo la sua morte, la moglie e i figli mi hanno consentito l’accesso all’archivio, così come era nella volontà di Bernardo stesso. Ho aspettato diversi anni prima di lavorare su questo progetto. Sapevo che sarebbe stato un lavoro difficile, che riguardava una realtà lontana dalla nostra, ma che per molti aspetti poteva essere emblematica anche per noi. Ho raccontato Bernardo basandomi sulla documentazione video e fotografica che aveva conservato, ma m’interessava anche parlare dell’uomo, della sua vita privata, per quanto una vita come la sua non ne abbia così tanti di aspetti privati. Il confronto con Camilo, il figlio primogenito, è stato fondamentale».
Reperto, 2016, scarpa nera con cemento

Perché dici che questa storia colombiana riguarda anche noi? In che cosa la politica che ha fatto Bernardo può essere messa in relazione, o in contraddizione, con la politica italiana ed europea?
«In “Aquítodobien” parlo del periodo della trattativa tra E.P.L. e lo stato colombiano, della quale Bernardo fu uno dei principali artefici. Nella parte finale della trattativa, uomini dei servizi segreti dello stato colombiano rapirono la prima moglie, Amparo Tordecilla Trujillo. Lo fecero per dissuadere Bernardo dal continuare le trattative per la pace. Amparo Tordecilla Trujillo fu uccisa ma lui nonostante tutto andò avanti: voleva la pace a tutti i costi. Questo per me è stato un gesto importante, con il quale Bernardo è riuscito a trasformare la guerriglia e la violenza, in pace e in vita. Da uomini così possiamo solo trarre esempio, rappresentano un patrimonio prezioso per tutti noi. Di casi come il suo, naturalmente, ce ne sono stati e ce ne sono tanti, lì dove esistono ingiustizie e oppressioni, in ogni parte del mondo. Bernardo aveva combattuto e aveva sacrificato tutto per l’uguaglianza. Anche se la nostra realtà italiana ed europea è molto diversa, vale la pena riflettere sul fatto che anche qui le disuguaglianze esistono e che il capitalismo ultraliberista sta provocando danni enormi, soprattutto per chi appartiene alle classi lavoratrici e meno abbienti. Non so per quanto tempo potremo ancora far finta che queste ultime non esistono e che siamo tutti consumatori felici e ugualmente soddisfatti».
venus y rojo, 2015 200x150 pittura carbone carta foto su alluminio

La mostra vede l’utilizzo e la combinazione di diversi linguaggi: dal disegno/pittura alla fotografia, dal video all’installazione sonora, ivi compresa un’installazione con un oggetto, una scarpa che ricorda quella di Amparo Tordecilla Trujillo che fu trovata nel luogo del suo rapimento. Perché questa scelta di lavorare su così tanti registri linguistici? Poi vorrei parlare più nello specifico di ciascuno di loro, anche perché ognuno dei linguaggi è da te utilizzato in modo articolato e con una sintassi combinatoria. 
«Utilizzo più linguaggi perché in passato avevo paura di non essere capito. Questa paura si è rivelata utile e con l’esperienza è diventata parte del mio metodo di lavoro. I temi sui quali lavoro necessitano di chiarezza: ho bisogno di sentirmi sicuro che il lavoro sia capito e la scelta di linguaggi diversi mi aiuta, semplicemente perché ritengo che alcuni siano più funzionali a dei contenuti piuttosto che ad altri. In ogni caso dipingo perché sono nato pittore. Nel mio studio ho sempre un foglio bianco pronto all’uso. Disegno, scrivo, coloro, come se prendessi appunti, di continuo in modo maniacale, alcune volte queste tracce si trasformano in opere, altre rimangono ragionamenti, appunti. Nella mostra c’è un’enorme parete di questi fogli che raccontano la storia di Bernardo. Una specie di affresco o meglio di cartellone dei cantastorie. Ma non potrei mai elaborare un progetto senza pensare al sonoro, alla musica. È una parte fondamentale del mio lavoro alla quale collaboro da sempre con Ennio Colaci dei Minimono, un talento e un amico straordinario. Quando ho delle idee ne parlo con lui che sa interpretarle alla perfezione. Per “Aquítodobien”, ho voluto un’istallazione sonora perché Bernardo amava la musica. L’istallazione è un suo ritratto attraverso il suo gusto musicale. Ho chiesto alla moglie e i figli di segnalarmi la musica che amava Bernardo, e così ho fatto un omaggio alla sua passione per la salsa. Bernardo era un grande ballerino. Le foto della mostra vengono direttamente dall’archivio fotografico della famiglia Zuluaga. Non so se le foto siano state scattate proprio da Bernardo, ma io le ho scelte perché appartenevano alla sua vita. Rivelano aspetti del progetto che sono importanti, come il volto o le mani di un guerrigliero o il gesto di una guerrigliera che dimostra tutta la sua fragilità. L’intervento pittorico ne sottolinea la mia interpretazione, il mio sentimento. “Reperto” è una scarpa da donna riempita di cemento, ed è un’opera che racconta del rapimento della moglie. La scarpa rappresenta infatti l’unico reperto agli atti della desaparición di Amparo Tordecilla Trujillo. È una cosa drammatica, terribile, ma necessaria per dare il giusto peso alle cose. Infine, c’è il video che documenta l’impegno di Bernardo nella “trattativa” tra l’E.P.L. e lo stato colombiano, ma anche  la vita nei campi della guerriglia. La voce di Clara (la seconda moglie), con la sua voce dolente e dolcissima, è più di un commento alle immagini. Il video finisce con un pezzo musicale, l’Internazionale, cantato e suonato dai guerriglieri. Ennio Colaci ci ha lavorato apportando degli interventi minimi e mimetici, ma che in alcuni punti ne cambiano inaspettatamente la fisionomia».
aqui todo bien, 2016, still dal video

La tua è una pittura dura, fatta di disegni, segni, scritte, colori slavati, collage, cancellature. Una volta l’ho definita una “pittura precaria”, nel senso della corrispondenza con quello che secondo me è il carattere del nostro tempo storico, appunto il precariato. Una condizione che non è solo quella dei lavoratori, ma che alberga nell’anima di tutti noi e che è il risultato di uno stare nel presente senza la capacità di immaginarsi, di progettarsi nel e per il futuro. Questo crea una vulnerabilità e un assoggettamento a qualunque forza più grande di noi come singoli che non lascia scampo, e che fa dell’hic et nunc uno stato di necessità imposto dal sistema nella sua complessità, e per questo tragicamente inevitabile. La velocità del tuo dipingere esprime una relazione consapevole con l’imposizione di questo qui ed ora, che altro non è che l’imposizione di un presente incalzante e assoluto. Ma questa consapevolezza non è un’accettazione supina. Piuttosto la tua è una reazione decisa e anche a tratti rabbiosa verso lo stato delle cose.  
«La definizione “pittura precaria” mi è piaciuta da subito. Credo sia quella più appropriata per la mia pittura. Grazie! Quando dipingo sono molto rigoroso nella fase finale, mentre in quella progettuale riesco a essere più disinvolto. Parto dagli appunti di ciò che ho studiato e faccio una serie di ipotesi procedendo, come si dice, random. Poi comincio a mettere a fuoco, scartando quello che è troppo generico e poco efficace. Anche se non sembra, tutto è calcolato, tutto deve corrispondere perfettamente ai contenuti sui quali sto lavorando. Non posso permettermi inesattezze, anche per i rischi legali ai quali potrei andare incontro. Per me la pittura è simile alla scrittura, e sapendo quanto è importante per te scrivere, so che mi capisci. Mi piace la sintesi nella scrittura e cerco di fare lo stesso nella pittura. Delle volte scrivo anche nei quadri, slogan, messaggi, dichiarazioni, cerco di costringere chi guarda a pensare leggendo e non solo seguendo le forme e i colori sulla superficie. Ma per fare una buona pittura devi essere allenato, devi dipingere tutti i giorni, perché la pittura non fa sconti, se vuoi ottenere un risultato devi cercarlo e trovarlo in mezzo a milioni di possibilità. Ma se riesci a trovare quello che cerchi, allora la pittura diventa un’arma micidiale. Si dipinge per vari motivi, io lo faccio per fare politica. È una mia scelta consapevole e della quale mi assumo tutte le responsabilità».
Non sono molti gli artisti, ma anche i critici/curatori, che possono dire altrettanto. Sulla responsabilità bisognerà proprio parlare un giorno, senza fare sconti, proprio come accade nella pittura.

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