19 maggio 2017

Ventiquattro ore a Villa Croce

 
Contatto con una personale imprevedibile, interrogativa e sempre aperta. Iniziazione per Riccardo Previdi all'interno di un museo italiano. Ecco com'è e cosa ne pensiamo

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Parti con delle certezze e torni pieno di dubbi. Eppure non hai fatto nulla di particolare, sei semplicemente andato al Museo di Villa Croce, che in questi giorni ha lanciato il bando per la nuova direzione,  per visitare una tranquilla personale di Riccardo Previdi (Milano, 1974). Si, ma dal misterioso titolo “What next?”
“E poi?”, espresso però con più afflato internazionale rispetto agli impellenti “che fare?” di Mario Merz (termine di paragone assoluto e per Previdi dichiarato oggetto di devozione), visto che il riccioluto artista milanese necessita di un potere coercitivo in linea con tempi, più duttile per una richiesta (im)precisa, posta in previsione di risposte quantomai vaghe e variabili. Una mostra work in progress, che resta tale anche se non si piomba – come Exibart – nel mezzo di un allestimento piuttosto impegnativo, tra lavori ancora imballati nel pluriball, direttive da impartire ed elementi da affinare. Con la curatrice Frida Carazzato che ci racconta d’aver caricato Villa Croce di «elementi distintivi del lavoro di Previdi», pensati e dislocati per costituire «un percorso circolare, dove le sale non sono nuclei distinti, ma tutto è collegato». 
Circolarità, la dimensione geometrica per cui tutto diviene un ricercato susseguirsi di rimandi e ricorsi artistici all’interno di un corpo unitario, a dirla tutta quasi impenetrabile a prima botta. Premesso che il background teorico-formale di Previdi probabilmente non si presta al facile recepimento, con pezzi dall’estetica a volte piuttosto enigmatica (non è vera pittura, non è vera scultura, anzi è tutto e il contrario di tutto), questa prima assoluta dell’artista in un museo italico è una delle scommesse più audaci della Villa Croce bonacossiana. Nessun direttore aveva osato tanto, l’intrepida Ilaria Bonacossa – coerente con le sue scelte sopra le righe, e ora ad Artissima – si. Riusciranno i nostri eroi a conquistare soprattutto i genovesi, all’avanguardia fino a qualche decennio fa (proprio ai tempi d’oro di Merz e affini) e oggigiorno stranamente guardinghi verso forme d’arte contemporanea così poco rassicuranti? 
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Tra tante incognite di sicuro c’è un rapporto di mutua relazione tra curatela e lavoro dell’artista, entrambi fondati su elementi eterogenei, interconnessi ed interdipendenti. Previdi lavora principalmente su pattern offerti dalla realtà di tutti i giorni, modellandone a piacimento possibilità di lettura e significato logico; agisce sull’iconografia, anche quella assunta dalle parole, non tralasciando le intemperanze più decorative insite negli elementi d’interazione quotidiana. Su tutti le insegne, contenitori fisici per messaggi verbali d’ogni sorta, qui portatrici di un concetto apripista per l’intervento di Previdi: l’apertura. “Aperto”, “Open”, è l’inconfondibile richiamo della grande luminosa che sovrasta una Villa Croce aperta 24 ore su 24 (pura fantascienza, figuriamoci); site specific riuscito nel mutuare l’iconicità delle insegne pubblicitarie svettanti in cima a svariati palazzi, presenze poco eleganti che però assicurano un certo profitto a tutto il condominio. Ma presumibilmente non a Villa Croce, in una Genova dove è chiaro che l’arte – e qui s’intende esclusivamente quella chiamata a far strappare biglietti ad un museo – non sarà mai l’anima del commercio. Perché? Provate ad aggirarvi nei dintorni di Villa Croce, e valutate personalmente quanto quella luminosa – rivolta in direzione corso Aurelio Saffi e Sopraelevata, due arterie genovesi di grande flusso, ma troppo a strapiombo rispetto al museo per essere prospetticamente valide – risulti pienamente visibile. Poi ovviamente fateci sapere. 
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Che si noti o meno, l’insegna Open è comunque il primo gettone di presenza speso da Previdi, e il mezzo più immediato nella diffusione della propria vulgata. L’artista ce ne parla in termini di «accessibilità intesa come dato di fatto», specificando bene un particolare che potrebbe sfuggire ai più: «open significa aperto, non welcome, ossia non implica un “benvenuto”». Previdi apre intenzionalmente Villa Croce, ma – capzioso come pochi – lì non accoglie nessuno di diritto o per partito preso. Apre e non aggiunge altro, col cinismo poco caritatevole di chi finisce per addentrasi nel campo minato dell’attualità, dei migranti e di un Italia territorialmente accessibile, legalmente o meno. Un Italia “open”, ma dove – previdianamente, passateci la citazione – il welcome non è assolutamente incluso nel prezzo. 
Previdi si rivolge alla società che gli sta attorno con franchezza, mutuandone i termini e i metodi comunicativi. E per un Open all’esterno ne inserisce altri sedici all’interno, a determinare l’inizio del percorso espositivo («ma anche la fine» ci dice la Carazzato in virtù della circolarità di cui sopra). Dall’enorme creazione site specific allo Chandelier di piccole insegne prodotte in massa, quelle diffusissime in vari esercizi commerciali, che tutti conoscete e magari avete acquistato per sfizio dal negozio “cinese” vicino casa. Perché – aperta e chiusa parentesi – in Italia la presenza di un “cinese” a qualche isolato dal proprio portone è più indiscutibile di un diritto costituzionale. Poi la Cina è ancora più vicina se si usa internet come Previdi, che mentre siamo col naso in su (e nemmeno poi troppo poiché, confessioni di un artista, anche l’altezza da terra è stata accuratamente studiata) puntualizza di aver comprato su un grande sito di distribuzione internazionale quelle sedici piccole insegne. L’oggetto comune, acquistabile da chicchessia e moltiplicato per sedici; che assurgendo a forma artistica perde funzionalità e costituisce un ready made – definizione appoggiata dallo stesso Previdi – contemporaneo, figlio di internet e delle sue infinite possibilità. Di un World Wide Web perennemente “open”. Un ready made “corazzato” dal peso dei tempi, ma ancora come Duchamp comanda.
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Più si avanza e più ci si convince che quella coesione “circolare” non sia caduta come la manna dal cielo, ma sia stata coltivata con ingegno, abituando la poetica dell’artista a soluzioni espositive non prive di senso. Impossibile non pensarlo quando la Carazzato dice «Abbiamo deciso di lavorare col blue back» riferendosi ad un elemento apparentemente banale come i pannelli esplicativi disposti in ogni sala; perché forse non lo sapete – o non ci pensate – ma vivete immersi nel blue back, tecnica economica e molto in voga nella produzione di manifesti pubblicitari, di tutte quelle immagini che mentre distraggono segnano un loro tempo storico. Lo spaccato realistico-sociale offerto da questa personale passa anche per la non convenzionalità di certi dettagli. 
Previdi senza freni. Dalle azioni plastiche “popolari” al grafismo di Spaccare il capello in quattro, cadenzato uso della nanoscopia ottica applicata all’arte e frutto della collaborazione – patrocinata dalla Bonacossa – con l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova; o al pittoricismo estratto dall’iper-decorativa immagine – liberamente offerta da internet – di cellule tumorali, producendo pieghe quasi estroflesse su fondi neri dalle sfumature variabili. Accartocciamenti che cestinano il presente rivolgendosi al futuro, «creati manualmente sul foglio di carta, che poi ho fotografato» racconta l’artista, insistendo sulla propria azione fisica, sul dire «questi li stampo io», e sull’imperfezione incontrollata, ma ben accetta, di fondi i cui viraggi tonali – dal nero al grigio-verde – dipendono dall’esaurimento materiale della cartuccia nel plotter. 
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Finché Previdi non cita direttamente Merz chiedendo aiuto alla figlia Franca, quattro anni e una mano giustamente incerta nello scrivere quel What next? che papà ha tradotto in tubolare neon; e finché non è Previdi stesso a diventare oggetto, ipotetica merce di scambio in un azione performativa provocatoria. Da guardare installato nei 32:9 – due differenti video in simultanea – del video Ampelman, epopea di un artista rinchiuso tra sacchi di plastica scelti apposta mettendo in bella mostra i loro marchi noti, e ben stretto nel nastro adesivo da pacchi. Perché l’artista è un pacco, nel senso proprio del termine, è il contenuto. Non inscatola più un proprio prodotto, come la merda per Manzoni, ma direttamente tutto sé; si spinge «al confine del proprio corpo» secondo la Carazzato, rendendo poi la spettacolarizzazione globale dell’impacchettamento – pensate a quelli di Christo – un avvenimento tristemente personalistico, effetto della disgraziatamente quotidiana equivocità tra prodotto e persona. Che si risolve nell’attimo in cui Previdi – appena liberato – comincia a sgranchirsi le braccia, e si fa immortalare ancora parzialmente ricoperto dagli imballi. Più che mai dubbioso nei confronti della società e di un prossimo futuro, ma ancora vivo.
Andrea Rossetti 

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