25 luglio 2018

Le Marche dell’arte

 
Week end litoraneo e contemporaneo da Pesaro a Jesi, passando per Senigallia. E per una “no-man’s land” anconetana dove tutti i treni che passano sono applauditi

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Il week end scorso, tra Pesaro, Senigallia, Jesi e Fano, si è mossa una piccola – ma mi viene da dire buona – parte della comunità dell’arte italiana in occasione di una serie di eventi concatenati ma non collegati.
E così, anche nelle Marche, in questa mezza estate, va in scena una bella dose di contemporaneo. Nella “povera” regione che diede i natali a Leopardi, ma anche a Mario Giacomelli, scorre una campagna viva e autentica, bellissima e decisamente meno ingombrante – mediaticamente parlando – della confinante Toscana. 
Giacomelli, tra molti altri – tra cui Franco Vaccari, Enrico Baj, Concetto Pozzati, Francesco Clemente, Luigi Ghirri o Gino De Dominicis, altro marchigiano di nascita – è protagonista della piccola e poetica mostra “Dentro un cielo compare un’isola. Arti povere in Italia tra disegno e fotografia 1963-1980” a cura di Andrea Bruciati, a Palazzo Bisaccioni di Jesi, sede dell’omonima fondazione della cassa di risparmio locale.
Ad una lettura superficiale potrebbe sembrare una mostra “estiva”: sarà merito delle pareti blu-verdi, sarà il Senza Titolo di Pozzati che fa da immagine guida all’esposizione, ma quello che invece si scopre è la capacità da parte di medium diversissimi di accostarsi tra loro in due decenni quasi opposti: quello del boom economico e della Pop, e il successivo degli anni di piombo e della vittoria dell’Arte Povera. Il valore di queste opere non passa attraverso il dispendio di mezzi, ma per intuizioni geniali figlie della “pratica” continua dell’arte: la maschera tribale di Alighiero Boetti che potrebbe mutare vita divenendo una microscopica scultura; il misterico movimento della fotografia di Mario Cresci apre visioni decisamente d’avanguardia e ricorda altri colleghi d’oltreoceano; le “mani” di Mario Schifano sono un particolare perfetto di tutta la sua successiva produzione.
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Francesco Clemente Senza titolo 1975 elaborazione fotografica © Courtesy of the artist

Non in ultimo, si tratta di una mostra rara: tutte le opere arrivano da collezioni private italiane, sparse dal Friuli al Lazio, dalla Lombardia alle Marche, che nella stragrande maggioranza dei casi hanno scelto di restare anonime: intuizione di Bruciati portarle alla luce con questi piccoli pezzi, in un percorso che può dirsi tutto tranne che “di provincia”.
Perché la provincia, molto spesso, è più una condizione dell’anima che legata alla geografia, e nelle Marche c’è pure qualcun altro che non ci sta a questo appellativo: sono gli artefici di Demanio Marittimo km 278, che da otto estati porta una lunga notte dell’arte (ma diciamo pure una serata e un’alba, dalle 6 del pomeriggio a quelle del mattino) sulla spiaggia libera di Marzocca, frazione di Senigallia. 
Cristiana Colli e Pippo Ciorra, sono i deus-ex-machina che da queste parti hanno promosso talk di architettura, invitando scuole di progetto europee a realizzare gli allestimenti, filmaker, intellettuali di varia natura, critici d’arte e addetti ai lavori eventuali, a confrontarsi su un tema del contemporaneo (quest’anno la “Coesistenza”).
Quale luogo migliore, dunque, del medio Adriatico per parlare di attualità, confini, abitazioni e abitanti (tra gli altri appuntamenti svoltisi nella nottata anche le proiezioni dei film di Cinema Grattacielo di Marco Bertozzi e Homeward Bound: sulla strada di casa, di Giorgio Cingolani e Claudio Gaetani, dedicati rispettivamente alle vite del grattacielo di Rimini e dell’Hotel House di Porto Recanati) e per comprendere come la cultura possa ridisegnare luoghi in maniera marcatamente vitale, fuori schematismi capitali?
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Roberto Paci Dalò, Demanio Marittimo 2018
Sul confine tra Montemarciano e Marzocca, invece, al ristorante Da Nialtri, praticamente una raffinata baracca sulla spiaggia, per solo una settimana va in scena obbobobbobo dul peshku di Sislej Xhafa, evento collaterale di Demanio. 
In questa terra che definire di frontiera è quasi un complimento, fatta di industrie dismesse, con le acciaierie di Falconara e il capo di Ancona sullo sfondo, l’elemento predominante che “allieta” il paesaggio distopico è il passaggio del treno: i due binari della linea Adriatica corrono accanto alla litoranea e al mare. Xhafa, con il suo piglio geniale e impertinente qualche secondo dopo ogni sferragliare di vagoni – grazie a un sensore – fa scattare un appassionato applauso. 
Omaggio alla “bellezza” di un elemento di disturbo che rende ancor più struggente questa no-man’s land, ma che non è una “trovata”. Al di là di questo mare c’è il Kosovo che, durante il suo ultimo conflitto, i treni li usava ovviamente per deportare la popolazione, mentre durante il Comunismo in Albania non era permesso pescare – da qui il titolo. Xhafa applaude a questo segno di progresso, che allo stesso tempo ha liberato e segnato frontiere in ogni angolo di mondo.

Da lieve commozione anche le lunghe performance all’alba di Roberto Paci Dalò e di Alessandro Sciarroni (curate da Davide Quadrio), sul bianco stage di Demanio. Il compositore e musicista con clarinetto, vestito da rabbino ma rassomigliante a una figura beuysiana, ai primi rischiari sul mare davanti ai sopravvissuti intorpiditi; il coreografo in una “piroetta” ipnotica durata mezz’ora che ha avuto il suo culmine alle 5.44 del mattino, momento in cui dal mare si alza il sole.
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Alessandro Sciarroni, Demanio Marittimo 2018
Difficile, in certi casi, spiegare a parole o attraverso immagini o video, la sensazione di sublime che attraversa l’anima, “illuminati d’immenso”: sarà la colonna sonora ipnotica, sarà che Sciarroni non perde un colpo, e che le note di Paci Dalò attraversano l’aria come indizi rarefatti: una sensazione di spaesamento e sospensione, tipico del jet lag, che apre vertigini senza pensieri prima di tornare al caos terreno. Sarà che tutto ha l’aspetto di un rituale che più che mistico appare come un “riconoscimento” alla bellezza: una danza della luce che, al suo termine, sorprende chi è rimasto sveglio con gli occhi lucidi, e non è sonnolenza. 
L’ultima tappa, oltre alle performance settimanali in occasione di Fano Jazz on the sea (Ivana Spinelli, Giovanni Gaggia e Alessio De Girolamo, a cura di Milena Becci), è alla Pescheria di Pesaro, dove Matteo Nasini è protagonista della sua personale “Neolithic Sunshine”: una mostra (a cura di Marcello Smarrelli, e la prima dell’artista in una istituzione italiana), colorata e densa, dove ogni elemento suona e gli accordi non sono solo da udire nelle casse, suonati dagli elementi primordiali mappati da Nasini nella loro forma arcaica di strumenti musicali riportati all’oggi, ma soprattutto nelle forme, in una cattedrale di fili di lana che occupa lo Spazio della Chiesa del Suffragio, e in quei colonnati d’archeologia inesistente che è il Giardino Perduto che occupa il loggiato. Sullo sfondo, in un coloratissimo arazzo, due vulcani cambiano la morfologia terrestre. In recto e in verso. Chi ha detto povere Marche?
Matteo Bergamini

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