23 novembre 2018

Tre volte “Man”

 
Nuovo corso per il museo di Nuoro, con una ricerca di “minoranza”. Il medium antico dell’arte, la pittura, incontra la storia non narrata del mondo palestinese di Dor Guez

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Pare proprio di essere stati catapultati dentro un viaggio alla scoperta di sé al museo MAN di Nuoro, in un percorso espositivo alle origini delle proprie sfaccettature emotive e dell’identità di ciascuno, sondato attraverso tre mostre che affrontano temi di nicchia: la pittura, la visione trasversale del Mediterraneo, le minoranze. Come se si fossero cercati in maniera accurata gli argomenti lasciati all’angolo delle discussioni, per non destare troppo chiasso. Nelle intenzioni del nuovo direttore Luigi Fassi, invece, si tratta di un dibattito tutt’altro che silente.
Giunto come terzo erede di un museo dalla solida identità e da una linea di predecessori di indubbio talento (Cristiana Collu, ora direttrice della GNAM a Roma, e Lorenzo Giusti, alla GAMeC di Bergamo), il neo direttore punta l’attenzione proprio a tematiche di discussione marginale ma brucianti, in un ideale meeting artistico lontano dal mainstream. La tradizione pittorica e il difficile dialogo col Mediterraneo diventano temi di dibattito in un’isola come quella sarda, terreno fertile per inaspettati successi e oblique discussioni.
Delle atmosfere nostalgiche e della capacità di catturare frammenti emotivi della short story di John Cheever, la mostra “O Youth and Beauty!” al MAN di Nuoro non possiede solo il richiamo ed il titolo. 
È l’intera collettiva formata da Anna Bjerger, Louis Fratino e Waldemar Zimbelmann a contribuire all’atmosfera malinconica e di indagine interiore che viene elaborata attraverso un unico medium: quello della pittura. Retrò? Forse. Ma la sfida che l’arte contemporanea affronta con il suo mezzo espressivo più classico, non teme la sfida nel trio scelto dal direttore artistico Luigi Fassi. Carta, legno e persino alluminio per dar spazio alla pittura e alle narrative personali di ciascuno. 
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In senso orario: Louis Fratino- Tristan in the bath, 2018, olio e pastello ad olio su lino, Smelling a rose, 2018, pastello morbido e sanguigno su carta, Tristan and a cat, 2018, inchiostro su carta, Museo Man, Nuoro, credits photo: Pierluigi Dessì/ Confini Visivi

Anna Bjerger, in particolare, utilizza proprio l’alluminio come materia di base dei propri lavori. Un elemento che ben si sposa con il tratto pieno e carico dell’artista svedese, ma al contempo liscio e senza ruvidezze, come le scene minimali e pulite dei suoi soggetti. Nessun richiamo personale però che interferisca con le proprie rappresentazioni, ma un materiale visivo disparato che va dalle immagini dei magazine, alle cartoline, manuali, libri. Una selezione accurata che privilegia spesso un solo soggetto, al massimo due: un clown, una figura di donna, un paesaggio. Soggetti che paiono essere lì per essere osservati nel momento giusto, come in un frame cinematografico. Un impatto visivo e di inquadrature che sembrano appartenere a scene quotidiane, catturate con elegante sapienza. 
È al più giovane della collettiva, Louis Fratino, che ricade il ruolo di contribuire nella maniera più intensa e soggettiva alla narrazione della mostra. Ed anche il più classico nella scelta pittorica nei suoi oli su tela e nei tratti di matita su carta. Ad aggiungere un tocco di tradizione, Fratino esplicita i suoi riferimenti al maestro dell’arte contemporanea, Pablo Picasso. Un connubio di elementi d’accademia che il giovane artista newyorkese maneggia con nonchalance e audace abilità, e che conferma la fama dell’artista quale talento emergente. Nei ritratti maschili scelti nella mostra, le narrazioni di vita messe in scena paiono specchiate e ripetute riproduzioni di un costante sé che si indaga, si scruta, si lascia osservare, anche nei momenti più intimi e talvolta, anche in quelli di debolezza più tenera. Piccoli formati, perlopiù, quelli esposti nel corso della mostra: un espediente che costringe il pubblico a farsi vicino, a non temere il confronto con sguardi spesso diretti, e con soggetti in incosciente posa. 
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In senso orario: Waldemar Zimbelmann – Untitled, 2010, materiali vari su carta, Anna Bjerger – Sprint, 2017, olio su alluminio, Waldemar Zimbelmann – Untitled, 2013, materiali vari su carta, Untitled, 2013, acrilico e pastelli su carta, Museo Man, Nuoro, credits photo: Pierluigi Dessì/ Confini Visivi

Ad allontanarci dal ritmo quotidiano è invece l’artista tedesco Waldemar Zimbelmann. Nel legno, suo materiale di predilezione, egli cerca i volti che vi possono emergere, come un bambino scruta nelle nuvole i pensieri visivi. I visi, ripetuti, nascosti e spesso volteggianti, vivono all’interno di dimensioni fuori dallo spazio, consegnati al fiabesco. Esili e leggeri, lo sguardo di costoro diventa fisso, le atmosfere, avulse dalla realtà. Un imprinting delicato ma deciso, quello che sembra emergere nella narrativa dell’artista la cui terra natale è il Kazakistan, nella somiglianza con le icone russe o con un immaginario nordico di fiabe. Ma è soprattutto l’elemento materico, la Natura e l’incessante ricerca sul volto a fare da perni significativi, più che la possibilità di eventuali narrative di cui, difatti, l’artista non si cura, lasciando gran parte dei suoi lavori senza titolo, in una consegna naturale e libera al proprio pubblico. 
Una mostra collettiva che è un lavoro di team attraverso punti diversi del mondo, una serena sfida e possibilità di giocare col medium più classico dell’arte, in una scelta, quella del MAN, che riapre una nicchia di studio in termini attenti e alternativi. Come quelli di Dor Guez, nella cui mostra “Sabir”, curata ancora una volta dal direttore Fassi, apre uno spiraglio sull’identità di un artista che non teme di definirsi “una minoranza nella minoranza” ma che soprattutto, sa sempre trovarsi nel posto giusto, al momento giusto.
Chi infatti, non ha mai sognato di trovare incredibili segreti e tesori in angoli nascosti? Capita, se ti chiami Dor Guez e sotto il letto di tua nonna scovi una valigia piena di ricordi e storie non narrate. Palestinese nella comunità israeliana, cristiano in quella musulmana, la vita di Guez si delinea sul crinale dell’inferiorità rispetto alla massa. Una realtà in continua definizione che l’artista sceglie di raccontare non attraverso la propria esperienza, ma utilizzando voci e storie della propria famiglia. 
Nell’allestimento del terzo piano del MAN che ospita così la sua prima mostra personale in un museo italiano, si fa esperienza di astrazione dal mondo esterno, in un ambiente total black che isola e racchiude. Non potrebbe essere altrimenti per vivere gli estratti di una vita familiare che pare quella di ciascuno di noi: fotografie di matrimoni, con la propria classe di scuola o col gruppo di lavoro, ritratti di zii e cugini. La vita della nonna e della sua famiglia si stanziano davanti in una serie di quindici fotografie dette “Scanogram” (2010), la cui tecnica di rielaborazione è un’invenzione originale di Guez, detta “Scanography”. Le foto di famiglia, ma anche i numerosi materiali d’archivio, sono tesoro di ispirazione e lavoro: l’artista scansiona letteralmente il materiale sino a far emergere ogni strato del documento, in una versione finale che svela ogni taglio, strappo e piega, senza omettere i segni del tempo. Ma Dor Guez è anche il fautore di un progetto più politico: il Christian Palestinian Archive (CPA), dal 2008 una raccolta di materiale d’archivio della comunità cristiano palestinese sparsa in giro per il mondo. Una storia agli angoli della società che viene messa in luce con delicatezza e senza censure, parte integrante del suo (e altrui) materiale di ricerca e scoperta. 
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Installation view Dor Guez, Sabir, Museo MAN, Nuoro, credits photo: Pierluigi Dessì/ Confini Visivi

Il lavoro di Guez si fa multimediale poi, con una serie di due video: Sabir (2011), il più recente, mette in scena ancora una volta, l’adorata nonna Samira che racconta, attraverso la sua voce, stralci della propria esistenza. Davanti alle onde del mare di Jaffa, quella che pare la vita di un’anziana signora in vena di memorie, svela una storia crudele, fatta di ricordi smembrati, di diaspore e di un popolo allontanato con la forza dalla propria terra d’origine. Un lavoro quanto mai attuale che ridiscute il Mediterraneo e le vite “straniere” facendoci avvicinare per empatia e assoluta immedesimazione. 
Ed accade ancora con il video Sa(Mira) (2009) che la nostra capacità di metterci “nei panni degli altri” venga scossa, nella storia della giovane cugina costretta a modificare il proprio nome in uno “meno arabo” per essere più facilmente accettata nel posto di lavoro, dalla comunità israeliana.
Infine, la piccola novità della mostra sta nell’utilizzo del medium sonoro. All’interno di una stanza ancora una volta immersa nel nero e nel buio totale, veniamo assorbiti da una registrazione sonora che pare quella di un film thriller: dall’esordio pacato e con cinguettii di uccellini, è il potente boato di una demolizione ad assorbire le nostre sensazioni. Un filo che dal video Sabir giunge sino all’installazione sonora: il crollo infatti, è quello della casa della nonna Samira. Dor Guez si trovò nella città natale della sua famiglia il giorno in cui la municipalità israeliana decise di radere al suolo gli ultimi resti delle case palestinesi, costruite prima della diaspora del 1948. Il suono registrato diventa scheggia di memoria, ed il triste frammento di un epilogo si fa ricordo condiviso nel pubblico in ascolto.
Elena Calaresu

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