01 febbraio 2019

Bologna/ Le parole giocano con noi

 
Intervista ad un bolognese d’eccezione, Alessandro Bergonzoni. Tra-sali e scendi di un eloquio partecipato, pungente e avvolgente

di

Bolognese di nascita, il poliedrico Alessandro Bergonzoni è in tournée con il suo quindicesimo spettacolo Trascendi e sali che scava le insidie del reale attraverso la sua peculiare scrittura poetica. 
Giornalista, scrittore, attore, poeta, artista. Chi è Alessandro Bergonzoni oggi?
«Sicuramente uno che non fa una parte. Il problema è riuscire a “capolavorare”, non più fare solo il proprio lavoro bene, andare oltre e così fare voto di vastità (riempire il vuoto che dovrebbe essere abitato dall’arte). Andando nelle carceri, nelle scuole, negli ospedali, cerco di fare relazione, di collegare costruendo ponti che non possono essere singole azioni, ma sono prolungamento, sono arti. Sono braccia, sono movimento. Spesso parliamo delle inchieste ma mai dell’inchiesto. Io lavoro su quello che non ci si chiede, ma è chiesto. Perché l’artista è chiamato a trascendere ed entrare in un’altra dimensione».
E come arte principessa usi il linguaggio?
«Io uso la scrittura del pensiero proprio come gesto. Quando la gente parla di linguaggio si aggrappa al gioco di parole e non ha ancora capito che sono le parole che stanno giocando con noi e che ci stanno mandando dei segnali ultimi per svelarsi ed espandersi fino all’impensato».
Quando inizi a scrivere hai già il tema?
«Per la poesia è un lavoro di captazione pura. Tiro su l’antenna ed entrano, come in una sala d’attesa, i pensieri che devono essere visitati. Già essere antenna è una dominante. Io non sono scrittore ma scritturato, non sono autore ma autorizzato. Quando scrivo sui giornali mi muove un tema sociale, un’urgenza, quasi un urlo, non solo una chiamata. Il teatro è un mondo diverso. Lì lavoro per impollinazione artificiale: mentre preparo uno spettacolo arrivano i prodromi e si semina per lo spettacolo dopo. È un fiorire continuo e io vado a raccogliere per poi unire. Con il mio coregista Riccardo Rodolfi in Trascendi e sali ho voluto unire l’alto e il basso, l’ordinario con lo straordinario, il miracolo e la perversione, senza dare più lo spazio allo spettatore per riposarsi, senza dare mai pausa».
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Alessandro Bergonzoni, Trascendi e sali
E per quanto riguarda l’arte?
«Nell’arte sto usando di più il corpo pur essendo partito dal segno e dalla materia. L’ultima performance, Tutela dei beni: corpi del (c)reato ad arte, prima alla Pinacoteca di Bologna, poi a Brera, Venezia, Modena, agli Uffizi per chiudere a Roma nel 2019, è ispirata a un caso di cronaca: ho avvicinato per immagini a un’opera d’arte, da Masaccio a Botticelli, l’idea di tutela di un corpo consegnato allo Stato, alla galera in particolare. Cosa dobbiamo preservare? Quali solo i Ministeri che tutelano l’essere umano come opera? Il Ministero della Salute, quello della Giustizia o quello degli Interni? Togliendo la sillaba “ni”, Ministeri diventa misteri e si sposta tutto sul piano spirituale. Quando si parla di mafia, delitti o tortura, si deve parlare di spiritualità: in che stato è la tua anima? Stato è una nozione o un’idea? Allora il lavoro nasce per accatastamento, accumulo, una pressione come l’acqua che preme sulle porte di una nave e ci sarebbe bisogno di pressurizzazione. Quando lavoro a un tema mi incanalo, ne prendo il corpo, prendo posizione: secondo me l’arte è sacra e necessita del trascendimento dell’artista. Nel 2001 ho fatto Coma reading nel quadro della mia attività con la Casa dei Risvegli di Luca. Uno scrittore mi ha ringraziato perché gli ho fatto vedere una cosa a cui non aveva mai pensato. Bisogna essere coinvolti per sapere? Come se dicessi “Cosa mi interessa della violenza sulle donne, io sono un uomo”. Nello spettacolo parlo di un padre che ha perso un figlio, è un tema psicanalitico, si parla anche di spiritualità. Sei vedova se perdi un marito, orfano se perdi un padre, ma se perdi un figlio non hai nome. Ci sono padri che vengono in camerino che mi vorrebbero chiedere cosa ne so io. Ecco cosa fa l’artista: diventa, è la domanda anche in maniera delirante, anarchica e inopportuna».
Ma quando prendi posizione, sai già su che supporto artistico prenderà corpo?
«No, qua sta l’energia, lo sforzo. Quando ho iniziato Tutela dei beni il tema era prettamente artistico: ero partito dal silenzio, usato al posto della parola, con l’idea non più di protesta e di opposizione di piazza che io comunque amo. L’artista deve percepire un’altra opposizione, attraverso la sua pelle, con altri sensi. Gli spettatori rimangono ammutoliti, perché pensano di vedere lavori come quelli che ho fatto in teatro sulla comicità e sulla surrealtà. Quella operazione artistica invece per me non ha un movente iniziale se non quello di obbedire a una chiamata che in quel momento chiede al corpo di fare un altro suono. Tutto intride ed è pericoloso sia a livello stilistico sia a livello di pubblico che sembra domandarmi “Dove ci porti?”. Vorrei che il pubblico non fosse solo tale e che finita la performance o uno spettacolo non andasse a casa, o anche dopo aver letto un libro non lo chiudesse. Oggi non si chiude niente, è tutto infinito e questa eternità io provo a scavarla dimenticando altri mezzi, i social, la televisione».
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Alessandro Bergonzoni, Trascendi e sali
Hai evidenziato la funzione politica dell’artista, che ha la possibilità di mettere in luce, cosa che altri non hanno la possibilità di fare.
«Politica vorrebbe dire fare e pensare per un governo dell’intelligenza. Dopo il Decreto Sicurezza ho chiesto al Comune di Bologna di mettere un cartello sulla Torre dell’Orologio fermo con scritto “Non vedo l’ora. Di continuare a salvare per terra e per mare” per la certezza dell’accoglienza sempre (Alessandro è uno dei sostenitori del progetto Mediterranea, ndr). Quella scritta sarebbe stata un atto politico, artistico, letteratura o un modo di apparire? È vero che ho un privilegio, un pulpito che altri non hanno, ma con internet oggi chiunque può influenzare senza limiti. Quello che io cerco è un cambio di interiorità o dimensione. Questo per me è trascendente, il teatro può essere un “limite”, come la sola e mera denuncia politica. È il mio corpo che deve diventare altro. È chiaro che non posso avere un tumore se non ce l’ho, ma lo posso sentire con le mie arti che contagiano e immedesimano».
Sono circa 35 anni che sei in scena. Com’è cambiato il pubblico in questi anni?
Se c’è distrazione e piccolezza è perché c’è un accontentarsi cronico. Se c’è tanto intrattenimento e informazione di un certo genere è perché chi si fa intrattenere sembra volerci annegare dentro. Io non ho mai avuto il mio zoccolo duro, ho un pubblico mischiato, dai dodicenni agli ottantenni. Negli anni c’è stato un abbassamento della soglia di attenzione, questo sì, ed è proprio il tema della fatica esperienziale che fa paura perché si teme lo sconosciuto. La voglia di accogliere diversità magari c’è, ma essendoci meno offerta, bisogna essere “polipi” e avere più arti per captare. La parola è legata a un gergo televisivo, mediatico e svuotante e il pubblico si atrofizza. Bisogna crearle una nuova dimensione che richiede un salto in altro. I veri movimenti partono anche dal basso, con una rincorsa che sembra arretramento, ma serve per spiccare il volo».
Giulia Alonzo

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