04 luglio 2012

ARCHITETTURA Il cortile di cemento

 
È possibile che la bellezza di cui è capace l’architettura tocchi anche edifici tabù, quali sono le carceri? In Italia no. Ma altrove sì. “Tutte le persone private della propria libertà devono essere trattate con umanità e nel rispetto della dignità inerente la persona umana”. Così sta scritto all’ingresso del penitenziario di Leoben, in Austria. Un modello possibile. Da seguire

di

Alcuni giorni fa, uscito da una libreria del centro di Firenze, sono stato avvicinato da un ragazzo che vendeva “Fuori Binario” il giornale di strada dei senza dimora.
Non lo compro spesso, ma quel giorno ho deciso di acquistarlo. Sono rimasto attonito leggendo, lì e solo lì nel piccolo giornale dei clochard fiorentini, l’appello di un gruppo di detenuti della sezione “isolamento” del carcere di Saluzzo.
Senza il tramite del filtro giornalistico, dodici uomini – in attesa di giudizio – scrivevano che, pur non dovendo sottostare al regime di isolamento, per motivi di sovraffollamento erano stati destinati, a gruppi di due o tre, entro le sei celle di isolamento di cui il carcere è dotato.
Ma, in quanto architetto, ciò che mi ha più colpito, sono state le righe dove gli appellanti descrivevano il rapporto dimensionale dei piccoli cortili, per la permanenza all’aria, di cui ogni singola cella è dotata. Buchi di 6 x 2,80 metri, cintati in tutto il perimetro da un muro in cemento armato alto 6. Dei “cortili” che, a detta dei prigionieri, in autunno, inverno e buona parte della primavera non vedono mai il passaggio di un raggio di sole.
L’appello proseguiva con ulteriori descrizioni circa la loro condizione per concludersi con la legittima affermazione sul totale calpestamento dei loro diritti e della loro dignità di uomini.
Finita la lettura, ho chiuso gli occhi per qualche istante. Immaginandomi all’interno di uno di quei cortili. Probabilmente un luogo freddo, grigio, scuro. Mi sono sentito immediatamente soffocare. Letteralmente.
Non è che non fossi a conoscenza di ciò che sta, e non da oggi, succedendo nelle carceri italiane – rapporti sulla condizione carceraria sono pubblicati praticamente ogni giorno da vari partiti politici e dalle centinaia di associazioni che si occupano di questo. Ma quel cortile di cemento senza coperchio mi aveva dato una scossa. E mi aveva fatto sentire in colpa. Per il fatto di essere un architetto e di non fare nulla. Perché noi architetti, tutti – e non solo le eccezioni, vedi Giovanni Michelucci – dovremmo sempre avere la capacità di progettare scatole spaziali dove fare stare bene tutti gli uomini. E di “lottare” per questo. Invece sembriamo non accorgerci di questi luoghi, totalmente clandestini ai nostri occhi, che sono le carceri italiane.
Luoghi che se solo fossero ben progettati potrebbero – credo – renderci ancor più orgogliosi del mestiere che facciamo. Ma ancor più, rendere la vita di alcuni uomini più che dignitosa. Ma la realtà del carcere è, nel nostro Paese, l’equivalente appunto di una città clandestina. Volutamente ignorata. Cosìcché ignorati sono coloro che la vivono. Ignorati sono i loro volti e le loro storie. Di criminali – giustamente detenuti – tanto quanto di chi è “solo” prigioniero. Anche ingiustamente. Ché la condizione è assai diversa.
Per cui: cosa potrebbe fare l’architettura, o meglio noi architetti, riguardo a tutto ciò? Potremmo riuscire a portare la bellezza lì dove sembra che non possa giungere? Potremmo disegnare progetti sfacciatamente affascinanti?
Io penso proprio di sì. E se vi state domandando cosa c’entra tutto questo appena letto con le immagini che vedete a corredo di questo scritto, forse avrete già capito che questa è una prigione. O meglio è il complesso giudiziario di Leoben, in Austria, dove oltre al carcere, è ospitata anche la sede del tribunale cittadino.
Progettato da Hohensinn Architektur, è un lampante esempio di cosa può fare l’architettura per la dignità degli uomini. Anche se esseri criminali, corrotti, ladri ed assassini. Ospita duecentocinque detenuti entro uno scrigno trasparente, una chiara allusione a come dovrebbe essere la giustizia, ricreando al suo interno un ciclo di vita casa/lavoro/svago, simile a quello che si potrebbe avere in un regime di totale libertà, così da favorire il reinserimento dei detenuti nella società una volta scontata la pena.
Le unità di detenzione sono progettate come spazi di condivisione – per un massimo di quindici persone – e ciascuna di esse è provvista di cucina, servizi igienici, palestra, sala giorno e una piccola loggia. Le strutture lavorative e per il tempo libero sono disegnate in modo da garantire l’obbligatorio controllo e la necessaria sicurezza, ma anche per permettere, ai detenuti, l’accesso indipendente e senza accompagnamento, alleviando così il personale da alcuni compiti ed impedendo la restrizione totale.
Per chi reputasse eccessivo un servizio di tale genere per un carcere, lungo la recinzione perimetrale due semplici iscrizioni recitano: “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. “Tutte le persone private della propria libertà devono essere trattate con umanità e nel rispetto della dignità inerente la persona umana”(1). 
Il complesso giudiziario di Leuben fa quindi ben comprendere quanto il Ministro della giustizia Paola Severino ha più volte ribadito circa la condizione carceraria italiana: il livello di civiltà di un Paese si misura dallo stato dei suoi penitenziari. E non basta la recente costituzione dell’ARC (Atelier per le problematiche architettoniche penitenziarie), protocollo d’intesa siglato in febbraio tra la Casa circondariale Lorusso e Cutugno e il Dipartimento di architettura e design del Politecnico di Torino, per non farmi sussurrare due semplici parole: Povera patria.
di guido incerti
1) Tratto dal Patto Internazionale sui diritti civili e politici. Cfr. Lewis J., Behind bars…sort of, in “The New York Times” 10/06/2009

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 79. Te l’eri perso? Abbonati!

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