23 aprile 2018

Fino al 25.IV.2018 La scuola di Palermo Palazzo Riso, Palermo

 

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Il nome “Scuola di Palermo” più che al luogo geografico si riferisce alla relazione tra quattro pittori che nella capitale siciliana lavorano dai primi anni Novanta. La mostra a Palazzo Riso, sostenuta da Elenkarte, raduna, a diciassette anni di distanza dalla prima analoga impresa intitolata Palermo Blues (2001, Cantieri Culturali della Zisa), i dipinti di Alessandro Bazan, Francesco De Grandi, Fulvio di Piazza e Andrea Di Marco, quest’ultimo morto nel 2012 a solo trentadue anni. A lui è dedicata questa mostra che occupa su due piani del museo e che permette di confrontare non solo periodi diversi ma anche gli stili di ciascun elemento del gruppo. Chiamare gruppo questo sodalizio di amici, intendiamoci, non deve evocare passate stagioni dell’arte, lontani da ogni militanza esplicita o da qualsiasi manifesto programmatico, questi artisti sono forse di quanto meno siciliano si possa trovare in pittura se non altro per l’indifferenza nei confronti di luoghi e tradizioni. Diversi l’un l’altro questi quattro pittori sono accomunati da una luce singolare. Chiara e solare nelle opere di Andrea di Marco, corrusca e crepuscolare nei quadri di De Grandi, incendiaria sino al lume di una sigaretta in Di Piazza, infine elettronica e persino catodica in Bazan. Per ciascuno di loro, tanto sono differenti per stile, si potrebbe scrivere un capitolo a parte, anche se in tutti c’è un richiamo sottile alle atmosfere della grande tradizione pittorica del XVI e del XVII Secolo. Per questo motivo il termine “scuola” assume un valore particolare di risarcimento di una paternità negata da troppo tempo dal termine “contemporaneo”. Per esser precisi, il gruppo della “Scuola di Palermo”, secondo il nome che comparve all’inizio in una serie di articoli da Alessandro Riva sulla rivista Arte allora Mondadori, incuranti del fallimento della pittura contemporanea che imponeva regole e progetti, sembrarono già da subito non ammettere la separazione tra idea e materialità dell’opera, semmai il loro accanimento su un mezzo espressivo così antico andava reclamando una specificità linguistica a discapito dell’uso transitivo e quasi timido che ne facevano molti loro coetanei. E ancora, come scuola questi pittori hanno, di fatto, degli allievi, molti dei quali studenti dell’Accademia di Belle Arti di Palermo. I migliori di questi allievi, guarda caso, non hanno nulla a che fare con lo stile dei maestri che insegnano, infatti, non a formare degli epigoni attraverso cui perpetuare il proprio stile, quanto piuttosto menti critiche con cui confrontarsi e mettersi perennemente in gioco. La mostra di Palermo, oltre a radunare dei momenti rappresentativi della vicenda di ciascuno che riassumerò cercando di non tralasciare i dati salienti o i particolari più rilevanti, si sofferma sui valori intrinseci del mezzo pittorico più che sulla varietà dei soggetti. 
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La scuola di Palermo, vista della mostra Palazzo Riso, Palermo
A cominciare dal primo piano del museo Riso è possibile perdersi nella ridda di dettagli dell’Autoritratto di Fulvio Di Piazza del 1998 (olio su tela, 200X120 cm), quadro simbolo della svolta figurativa di questo pittore. Il Grande faccione centrale è composto di una miriade di personaggi. Novello Arcimboldo, Di Piazza agglomera figurine a formare il proprio volto che galleggia in uno spazio fantastico brulicante di episodi che alludono alla piccola comunità che si stava formando. Gli anni di consolidamento della fama di questa combriccola di amici sono però tra il 2000 e il 2001, un successo che però non li ha distolti da quel continuo beffeggiarsi a vicenda con vignette, caricature e disegnini che spesso finivano per diventare i modelli dei dipinti. Questi personaggi assurdi popolano quest’opera di Fulvio Di Piazza, volano intorno alla grande testa centrale, tra questi alcuni con le sembianze di Alessandro, Andrea e Francesco.  Nella prima sezione della mostra si può ammirare anche la notevole Quinta di Andrea Di Marco (2000, olio su tela, 200X180 cm). Raffigura una grande tenda di plastica aperta su un paesaggio, meglio dire su un giardino. È un quadro che celebra sia il potere astrattivo della luce accecante del meridione, sia la grande abilità “scopica” di Andrea osservatore indefesso, avido di dettagli e capace di isolare e fissare l’anima non solo dell’oggetto, ma dell’intera scena. Poco distante c’è in Night on day di Alessandro Bazan (2017, olio su tela, 200X300 cm). Questo grande quadro, che ho visto dipingere nel suo studio, è intriso di paura mista a desiderio di volare su una città fantastica. È un’opera costellata di episodi cromatici che accendono qua e là la tinta terrosa dominate del paesaggio che sembra aprirsi all’occhio di un drone. Per Bazan è importante che ogni punto del quadro non ceda all’impianto spaziale complessivo anzi, è necessario che le figure si divincolino da esso come fiammelle sfaldandosi in veloci pennellate mentre nell’opera di Francesco De Grandi troviamo invece un convegno di tecniche pittoriche gestite nella vaghezza e nel mistero. Prendiamo, sempre da questa sezione, La banda di Giuseppe Verdi (olio su tela, 2009 – 2014, 160X200 cm). De Grandi, con estrema perizia, gestisce liquide percolazioni ed ematici sgocciolamenti per stendere una fatata velatura verdastra sulle figure che brillano come fuochi di sant’Elmo. Questo lume marcio, che immerge il soggetto in un’atmosfera di sogno, fa galleggiare i personaggi in un luogo straniero. Lo stesso è per Ninetta (olio su tela, 2009, 90X120 cm) figura nota della Vucciria, tra i frequentatori della Taverna Azzurra che la critica d’arte Giusi Diana mi ha raccontato, essere stato il luogo della “Bohéme” Palermitana, uno scenario alquanto distante dalle folle variopinte di Guttuso data la luce notturna, sulfurea in certi casi addirittura alogena. Illuminate da bagliori infernali, le opere di Francesco De Grandi rimandano agli ambiti tenebrosi dei mostri di Alfred Kubin, dove aloni luciferini mostrano mostri. Una luce che per altri versi ritroviamo anche nei paesaggi di Fulvio Di Piazza. Queste vere e proprie “bizzarie rudolfine” fanno sì che le fattezze del volto si trasformino in balze e radure, in pertugi e pianori puntinati d’incendi che rischiarano i recessi d’ombra o cadono dall’alto come piroclasti. Così, se vogliamo trovare per forza qualcosa di tipicamente siciliano in questi dipinti, è forse proprio la natura vulcanica di questi fuochi. Tuttavia, accanto al magma intrigato di natura e animali, di uomini e di piante, c’è l’altro aspetto della produzione di Fulvio di Piazza ossia gli interni popolati di piccoli mostriciattoli volanti, come  L’ultimo Natale (olio su tela, 2002, 180X300 cm) che è un alveare di minimi insetti. Questi esseri, che ronzano dentro stanze disneyane, sembrano farsi beffa del nostro sguardo che cerca di focalizzarli uno ad uno. Dall’affollamento maniacale di Fulvio di Piazza  se si passa ai quadri di Alessandro Bazan si ha l’impressione di cambiare ritmo. Queste opere hanno un andamento disteso, giocato più sulla campitura che sul dettaglio sebbene, in certi casi, lo scatto nervoso del segno produca sorprendenti effetti luminosi (Gas, 2006, olio su tela 120X150cm). I particolari sono usati da Bazan, infatti, non per mischiare pittura e figura, ma piuttosto per separare l’una dall’altra. Tratti veloci, paste esaltate da un tratteggio di tocchi sospesi, brillanti nell’anomalo cromatismo delle tinte dominati in Ognun per sé, (olio su tela, 2008, 170X120 cm).  Quest’anomalia è un dato importante della pittura della Scuola di Palermo che non è virtuosismo e del ghirigoro e nemmeno compiacimento di un’estrosità grafica. In questi dipinti si nota un’alterazione dei timbri sino all’iperbole. Sia i cieli e le piante dei recenti paesaggi di De Grandi che l’acidità cromatica in Di Piazza sono esempi di questa anomalia. Così, anche lo sfacciato bagliore delle opere di Bazan fa apparire la scena come un’allucinazione giocosa mentre  Di Marco accendeva di bianchi calcinosi sui muri le case di Condom terrone, (2001, olio su tela). In definitiva la mostra, oltre ad essere un omaggio alla memoria di un amico scomparso, è una difesa orgogliosa della buona pittura italiana portata avanti con una buona dose di auto ironia, sicché se si scorgono rimandi alla tradizione pittorica, non è nella citazione pedissequa dei grandi maestri del passato quanto piuttosto nel suo riverbero nel presente.  
Marcello Carriero
mostra visitata il 10 aprile
Dal 22 Marzo al 25 Aprile 2018
La Scuola di Palermo
Palazzo Belmonte Riso
Corso Vittorio Emanuele, 365 – Palermo
Orari: martedì, mercoledì e domenica dalle 10 alle 19.30; giovedì, venerdì e sabato dalle 10 alle 23.30.
Info: www.poloartecontemporanea.it

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