20 dicembre 2004

architettura_progetti Il progetto di ristrutturazione della Scala

 
Inaugurazione in grande stile, con applausi a Muti, al Salieri ritrovato e parterre vip. Tutto come da copione. Eppure la ristrutturazione del Teatro alla Scala continua a dividere. Discreto, sobrio o privo di personalità? Un intervento che coniuga contemporaneo e storico o più modestamente un’addizione in stile Botta?

di

L’abbattimento della Chiesa di Santa Maria alla Scala (1381) e il taglio netto del convento annesso consentirono nel 1776 l’avviamento della costruzione del Teatro alla Scala di Giuseppe Piermarini.
Con una procedura disinvolta, nel 2001, scadute le decennali proroghe alle necessarie ristrutturazioni, si è tollerata la demolizione di tutto il palcoscenico e degli annessi all’edificio, riducendo la parte storica del teatro alla sola sala ed al suo foyer. Un vero sventramento. L’obiettivo? Consentire l’ammodernamento della struttura e dell’apparato tecnologico.
Se gli abbattimenti di allora furono l’occasione per la sperimentazione di un nuovo linguaggio architettonico -il Neoclassico- l’operato ambiguo di Mario Botta può utilizzarsi per alcune considerazioni di carattere generale.
Dato per certo che il miglior modo per rispettare il passato sia d’essere autenticamente moderni, come affermato dallo stesso architetto ticinese, resta da vedere quanto la gravità dei volumi in pietra realizzati sia segno di modernità.
Le esigenze che hanno determinato l’operazione di ristrutturazione sono di carattere tecnologico ed economico: rendere la struttura adeguata alle moderne tecnologie dell’illusione scenica, migliorare un’acustica pessima, permettere un utilizzo più intenso del teatro in virtù di questi rinnovamenti.
Ma le tecnologie avanzatissime vengono chiuse in uno scatolone di pietra, servizi di scena e uffici raccolti in un ellissoide e mostrati con fierezza. E laddove la scelta di un volume sobrio ma pesante possa accettarsi per la torre scenica, perché l’ellissoide?
mario botta, progetto ristrutturazione teatro alla scala, milano - Panoramica dell
Al di là delle mille professioni d’umiltà e rispetto per l’opera di Piermarini, l’intervento, presupposta la volontà di ripulire drasticamente l’edificio da superfetazioni, dà luogo ad un teatro ricostruito per i suoi due terzi, con una scelta che forza il dialogo tra preesistenza ed un linguaggio fortemente personale: l’ellissoide in botticino è un segno dell’operato di Botta, non certo di modernità.
A teatro in gran parte demolito, non crollato o andato in fiamme insomma, con la precisa volontà di farne una struttura adatta ad esigenze moderne, che senso ha un intervento ispirato alla cautela? Un atteggiamento più disinvolto non sarebbe stato più coerente con le esigenze che lo hanno determinato?
L’operazione di Botta cerca di dialogare col contesto e di rispettare il valore storico acquisito dal teatro con l’impiego di materiali storici e l’inserimento di forme pure, chiaramente leggibili. Ma non è forse questa da tempo la cifra distintiva del suo linguaggio architettonico?
mario botta, porgetto di ristrurazione teatro alla scala, milano- il teatro restaurato, il giorno pdella prima
In questo caso sembra piuttosto di trovarsi di fronte ad un progetto asettico cui presto si abitueranno gli appassionati melomani. Che si apprestano, dopo anni agli Arcimboldi nell’estrema periferia milanese, a far di tutto per farsi rivedere in una sala dall’acustica finalmente perfetta.

giuseppe d’angelo

prima foto mario botta, progetto ristrutturazione teatro alla scala, milano – Struttura dell’ ellissoide vista dal cortile interno sul lato di Via Filodrammatici (settembre 2004)

link correlati
www.teatroallascala.org
www.botta.ch
www.comune.milano.it/cantierescala/index.html

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3 Commenti

  1. C’era una volta il Teatro alla Scala, c’era una volta la Fenice di Venezia, il Teatro Carlo Felice a Genova, c’erano, ma da qualche tempo nelle città italiane si sta insediando una stirpe di body-snatchers che si appropriano della realtà urbanistica e la sostituiscono con cloni decerebrati privi di identità.
    Organismi ibridi, creature mostruose generate da moderni Frankenstein dai nomi apparentemente normali ed innocui (Mario Botta o Aldo Rossi, per esempio), armati di tecnigrafo e sofisticati software grafici, giganteschi AGM (Architetture Geneticamente Modificate) dei quali si ignorano gli effetti collaterali a lungo termine, gli ultracorpi sono tra noi!
    Nuova tipologia architettonico-urbanistica in attesa di definizione, non una ristrutturazione, della quale risulta ben più complessa e radicale, non un restauro, che modernamente inteso implicherebbe un atteggiamento filologico di rispetto dell’identità stilistica del bene, non una nuova costruzione, abortita sul nascere da aprioristici condizionamenti conservativi, gli ultracorpi sono un’architettura aliena forzatamente coltivata in contesti urbanistici insostenibili, che si impone per la non appartenenza alla memoria del luogo, per l’inadeguatezza a manifestare il suo tempo, per l’incapacità di produrre ulteriore memoria e identità.
    Frutto di una mentalità specificamente italiana, gli ultracorpi sono metafora di una società tendente alla mummificazione della memoria, in assenza di una illuminata capacità di discernimento che, evangelicamente, separi il grano dal loglio nella consapevolezza che “La memoria va oltre il rapporto tra estetica e documentazione e implica la scelta: l’operazione che ci permette di distinguere ciò che merita di essere conservato da ciò che invece può essere dimenticato…. ”
    Poiché, per malaugurata coincidenza, l’accanimento conservativo concerne spesso architetture di limitato valore artistico, l’ultracorpo trova facile nutrimento in modesti residui monumentali che interiorizza
    con postmodernismi aldorossiani e svizzerate bottiane, per generare strutture aliene ad alta componente tecnologica degne dell’iperspazio fantascientifico di un video-game.

    A quando l’arrivo di terminator dal cyberspazio per completare la colonizzazione?

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