09 dicembre 2005

fino al 19.III.2006 T1 – La sindrome di Pantagruel Torino, sedi varie

 
Ancora Pantagruel? Inevitabile, data la vastità del progetto. Le estremità del gigante, partendo dalla Fondazione Sandretto, attraversano la GAM e arrivano al Palafuksas. Giro delle sette chiese dell'arte...

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Immersi nella mostra ancora prima di avere varcato l’ingresso della sede espositiva. Jeppe Hein (Copenaghen, 1974) ridefinisce lo spazio esterno, commentandolo a livello formale. Le panchine nel giardinetto della Fondazione Sandretto s’illuminano ad intermittenze, stabilite da chi le sceglie come seduta. La luce si attiva seguendo i ritmi delle interazioni che essa stessa crea. Ma il parco antistante l’edificio non è preda del solo Hein. Anche il duo Andreoni-Fortugno lo sceglie come location per un intervento che svela intercapedini della realtà, per accendere i riflettori dove d’abitudine non sono puntati. Facce sconosciute ai più sono protagoniste di cartelloni elettorali. Queste interruzioni alle canonica visita delle mostre non si formalizzano come ostacoli, ma di certo impediscono al visitatore di mantenere uno sguardo distratto sul reale.
Nell’atrio Avdei Ter-Oganyan (Rostov–na-Donu, Russia, 1961) pone la sua lente d’ingrandimento. Immortala l’addetta all’accoglienza (The receptionist, 2005) con due gigantografie e le appende proprio alle sue spalle. Completa l’opera il reportage con immagini scattate dalla telecamera di servizio.
Persino i passaggi, gli attraversamenti tra una sala e l’altra, possono mettere in difficoltà. La pantagruelica mostra, immensa giostra destabilizzante, ne contiene altre più piccole al suo interno. Ripetizione differente, a contenuto costante e forma variabile. La “O”, tunnel rotante, nella costruzione di Saậdane Afif (Vendồme, 1975) ne è un chiaro esempio. E poi ancora assenza, trasparenza, leggerezza. Unite ad un meccanismo costruttivo progettuale nella mucca di Ulrike Palmbach (Sindelfingen, 1963).
Jeppe Hein, Simplified Mirror Labyrinth, 2005 - 10 x 10 x 2,3 m
Dal particolare al generale, andata e ritorno, zoom in–zoom out continui. Nelle perfette rappresentazioni di Choi Hocul (Tokyo, 1965) immense vedute panoramiche, in cui l’osservatore privilegiato è solitamente compare incluso. La tradizione fumettistica si mischia qui alla realtà virtuale dei videogame (Simcity) chiedendo in prestito densità e precisione agli illustratori di Where is Wally?. Tutto per descrivere una città composta di piccoli nuclei comunicanti, un mondo fatto di metropoli brulicanti di colori, diversità, vita, in barba alla standardizzazione individualistica imperante.
Standard e stereotipi sono ben rappresentati nelle immagini di David Ratcliff, contrapposti all’agonia del movimento domestico, triste elogio di una frammentarietà temporale, sviscerata invece nel video di Marcus Schinvald. Materializzazione di tutte le idee (geniali o meno) che popolano la mente in ogni istante, diretta reazione agli stimoli forniti dall’ambiente circostante. Ana Prvacki (Pascevo, Serbia e Montenegro, 1976) fornisce uno spaccato di tutto questo in un fascicolo a distribuzione gratuita, resoconto dello sforzo creativo della Anananatural Production.
A mettere un po’ di colore ci pensa Abraham Cruzvilleas (Città del Messico, 1968). È forte l’impatto (e non solo dal punto di vista cromatico) che crea il lungo e tortuoso percorso “decorato” tra i corridoi della GAM. Uno dopo l’altro, oggetti di vario genere e misura, privati della loro quotidiana valenza tramite uno standard bitonale, si aggregano, si assemblano per essere osservati, o ahimé per sbaglio, calpestati. Da un lato, quindi, schemi e composizioni che mutano secondo gli spazi che li accolgono; dall’altro la lefebrviana modificazione dei corpi in funzione degli ambienti che abitano. Quest’ultima fa da sfondo all’ottica vouyeristica che pervade Between Prayers (2001) di Chala Radimi (Istanbul, 1968). Andare oltre il “velo” per sostare in un luogo sacro (una moschea) e scoprire cosa si cela tra le preghiere.
Agnieszka Brzezanska, from slideshow "freedom to people and animals" - digital photos - 2004
Gli artisti solitamente dichiarano, anche involontariamente, il proprio background di partenza, ma spesso si confrontano con la città che li ospita, in particolar modo se chiamati a lavorare in un museo. In effetti la rosa drogata (Rosa Tekata, 2005) di Jesùs “Bubu” Negròn (Arecibo, Portorico, 1975) è chiaro riferimento, se non addirittura citazione, di quella bruciata di pistolettiana memoria. Ma la citazione non è fine a se stessa. L’opera del giovane portoricano ha infatti un forte legame con la sua terra d’origine, sia perché creata dai drogati di San Juan, sia perché il gesto di comporre rose con foglie di palma riempie le attese di pusher e acquirenti. Così come Negròn, anche Sterling Ruby (Bitburgh, Germania, 1972) non può esimersi dal fare riferimento alla realtà dalla quale proviene. Nelle sue installazioni la varietà di mezzi espressivi combacia con la quantità di materiali rappresentati. Da questo l’efficacia della sensazione trasmessa, quadro di una vita ai margini fatta di rifiuti, violenze e morbosità carnali.
Un micromondo adatto allo sviluppo di muffe, funghi e colonie batteriche è stato ricreato in uno degli antri del Palafuksas da Jorge Peris (Alzira, Spagna, 1969), che riesce nel tentativo di togliere il prefisso ‘micro’. Dando vita ad un cosmo auto generante che colonizza un ambiente di grandi proporzioni. Ciò che in miniatura si trova normalmente in un vetrino –da laboratorio- viene sviluppato secondo una logica modulare crescente sulle pareti. Il modulo è fondante anche per il King Kong Park di Alessandro Ceresoli (Romano di Lombardia-Bergamo, 1975): articolando elementi di poliuretano espanso, la composizione si adagia allo spazio esistente, ogni volta diversa.
Se di progetti itineranti si parla, una menzione va al Tupac project di Paolo Chiasera (Bologna 1978). La statua dell’idolo giovanile contemporaneo, assassinato nel 1996, ha già trovato casa, senza sentirsi a disagio, di fronte ad un museo (il MARTa Hedford in Germania), come in una comune strada “affrescata” di graffiti. Riferimenti a particolari stili di vita a parte, l’operazione porta alla luce un grossa fetta di quella che, qualche tempo fa, si sarebbe chiamata subcultura o cultura underground.
Non è da meno Mikhael Subotzky(Città del Capo, 1981), che sfruttando tutta l’ampiezza del grandangolo (e oltre) ritrae la popolazione della prigione di Pollsmoor in Sud Africa.
Ironico e ipnotico lo slide-show di Agnieska Brezanska (Gdansk, Polonia, 1972). Impossibile is nothing -slogan di un fortunato spot Nike– è il titolo dell’opera, che raccoglie in tre parole le stranezze e i giochi visivi proposti.
Strano ma vero? Risponde Hans Schabus (Watschig, Austria, 1970). Tutto comincia con la costruzione di un tunnel che ha come capo lo studio dell’artista stesso. Ma è la coda che ci interessa, o meglio, fuori di metafora, dove finisce il lungo scavo. Se circa un anno fa si era concluso nella Galleria Comunale di Monfalcone, questa volta la via di fuga è un itinerario frammentato per i sotterranei di Vienna.
Il tour delle “sette chiese” (come sono state soprannominate le sedi espositive) è ampissimo, variopinto, in costante mutamento di tecniche, visuali, tutto da scoprire. Unico denominatore comune l’enorme grandezza –il cui pregio è di essere raramente sprecata- a qualsiasi livello la si guardi.

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claudio musso
mostra visitata il 9 novembre 2005


T1 – La sindrome di Pantagruel
75 giovani artisti internazionali e le personali di Takashi Murakami e Doris Salcedo
Organizzatori: Fondazione Torino Musei, Castello di Rivoli (Museo d’Arte Contemporanea), Fondazione Sandretto Re Rebaudengo
Enti Promotori: Regione Piemonte, Provincia di Torino, Comune di Torino, Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT
Triennale Torino Tremusei
dal 10.XI.2005 al 19.III.2006
T1 – La sindrome di Pantagruel
a cura di Francesco Bonami, Carolyn Christov-Bakargiev
Rivoli: Castello, Chiesa di Santa Croce, Casa del Conte Verde
Torino: Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Fondazione Merz, Gam
www.torinotriennale.it


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