15 giugno 2006

fotografia Geografie immaginarie

 
Nell’ultimo articolo del ciclo di approfondimenti sulle geografie legate alla fotografia contemporanea ci occupiamo ancora di immagini al femminile. Artiste che hanno saputo creare mondi immaginari. Con la fotografia, ma non solo...

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La storia della fotografia nel corso del tempo ha visto affermarsi tendenze a volte contraddittorie, addirittura opposte tra loro, ma nondimeno vere. Capaci di mettere in luce le varie possibilità offerte dal mezzo fotografico, che risiedono in differenti interpretazioni del mezzo e in molteplici declinazioni di utilizzo. Ad esempio, negli anni Venti del Novecento la linea dominante è stata la straight photography, che si poneva come obiettivo la rappresentazione diretta della realtà, mentre negli anni Ottanta dello stesso secolo è la volta della staged photography che, al contrario, costruisce e mette in scena la realtà che intende rappresentare. In base a questo secondo approccio, la fotografia viene usata per presentare un mondo immaginario, dando ad esso una parvenza di realtà, anche quando questa è palesemente smentita dal contenuto “irreale” dell’immagine stessa.
Sandy Skoglund (Quincy, Massachusetts, 1946. Vive a New York) è una delle più note rappresentanti di quest’ultima tendenza, grazie ad una tecnica particolare messa a punto a partire dal 1978. L’artista usa fotografare set teatrali da lei stessa costruiti nel gigantesco studio a Soho, con un minuzioso realismo che richiede anche mezzo anno di lavoro per la creazione di una singola scena. Ogni installazione consiste nel ricreare una stanza nella quale sculture monocrome (come lo spazio intorno, ma di un colore diverso) in cartapesta, gesso o poliestere (dalle sembianze di pesci, scoiattoli, gatti, cani, bambini e persino germi) “nuotano” tranquillamente, nell’indifferenza generale delle poche persone che la Skoglund inserisce sul set. Sin dalle prime opere, come i Gatti radioattivi del 1980 o La vendetta dei pesci rossi del 1981, le immagini si contraddistinguono per un vivace cromatismo, per il tono ironico dei titoli e per la creazione di situazioni che si collocano tra sogno e incubo, tra film horror e Disneyland, tra dadaismo e surrealismo. La Skoglund tramite le sue fotografie (e le relative installazioni che vengono vendute al pari di esse) esprime l’ansia della classe media americana, della quale critica l’atteggiamento di mediocrità che la rende assuefatta alle assurdità quotidiane.
Mariko Mori, Tea Ceremony III
Come scrive Hans-Michael Koetzle, se Hitchcock aveva mandato stormi di gabbiani ad incrinare la calma di piccole città, la Skoglund manda gatti, volpi, germi e bambini a tormentare i sogni della borghesia statunitense.
Un’evoluzione tecnologica della staged photography potrebbe essere ravvisata in artiste come Mariko Mori (Tokyo, 1967. Vive tra Tokyo e New York). Figlia di uno scienziato e formatasi tra Oriente e Occidente, la Mori crea opere che, pur nella diversità delle tecniche, presentano come tema ricorrente la creazione di mondi immaginari nei quali una tecnologia avanguardistica si fonde con la tradizione spirituale e visiva giapponese. I suoi primi lavori, risalenti alla prima metà degli anni Novanta, sono connotati da un atteggiamento critico (il cui potere dissacrante ricorda artisti come Andy Warhol e Cindy Sherman) nei confronti della condizione di subalternità nella quale la donna giapponese è relegata. La Mori infatti è la protagonista delle fotografie, realizzate tramite tecniche computerizzate, nelle vesti di electric geisha, una giovane donna che reinterpreta vecchi ruoli stereotipati femminili in chiave futuristica. Si pensi alla famosissima Tea Ceremony III, in cui l’artista appare vestita da sorridente segretaria (con irreali orecchie a punta), mentre porge il tè davanti ad un modernissimo grattacielo di Tokyo da cui escono, senza notarla, seriosi uomini d’affari. Col tempo la Mori ha però preferito concentrarsi sulla dimostrazione dell’esistenza di dimensioni migliori (e utopistiche) rispetto a quelle che esperiamo quotidianamente. Dall’iniziale creazione di video tridimensionali (realizzati grazie all’uso di computer graphic e a sofisticati sistemi di virtual reality), come quello creato per la Biennale di Venezia del 1997 in cui la Mori assume le sembianze della dea buddista Kichijoten, dalla fine degli anni Novanta è approdata alla progettazione e costruzione di complesse e monumentali installazioni. Il Dream Temple, costruito per la Fondazione Prada, è uno spazio che, in modo analogo a una stanza da tè giapponese, vuole favorire la trascendenza dalla dimensione fisica, temporale e spaziale.
Mariko Mori, Dream temple, 1999, Courtesy Fondazione Prada, Foto A. Maranzano
La realizzazione di una simile installazione ha richiesto il coinvolgimento di una quarantina di persone (architetti giapponesi e italiani che hanno tradotto gli schizzi della Mori da progetto informatico a costruzione concreta, un compositore, un team per l’armonizzazione dei vari elementi) e la messa a punto di una tecnologia avanzatissima (sviluppata in parte negli Stati Uniti e in parte in Giappone) per avanguardistiche proiezioni. Per Mariko Mori la tecnologia è una sorta di pratica zen che serve a “concretizzare uno spazio in cui sia possibile, mediante un’esperienza visuale e uditiva, guardare in se stessi, creando uno spazio meditativo. […] Sono spazi che forse esistono soltanto all’interno della nostra coscienza. Spazi immaginari, estranei al contesto della realtà”.
Con Sandy Skoglund e Mariko Mori si chiude il ciclo Geografie che, attraverso la descrizione di differenti mondi creati da fotografe più o meno contemporanee, ha esplorato alcune possibilità espressive offerte dal mezzo, sondadone anche la “sfumatura” femminile. Sempre che questa esista davvero…

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elisa paltrinieri

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