12 luglio 2007

design Junkdesign

 
Quando le forme erano solide originarne di nuove era difficile. Oggi che la società è liquida la creazione di forme nuove è diventata la pratica più facile e diffusa. Non basta Milano, non basta Londra, non basta New York...

di

Zygmunt Bauman definisce la nostra epoca “modernità liquida”, in quanto, a suo avviso, nella società contemporanea qualsiasi scelta, opzione o determinazione risulta fatalmente priva di una “forma” propria, e destinata come i liquidi ad assumere la foggia sulla forma del contenitore dentro al quale di volta in volta si trova. Secondo Bauman, ciò vale tanto per il lavoro quanto per i rapporti umani, tanto per l’accesso all’informazione quanto per la fruizione delle relazioni. Ogni risvolto della vita si sta facendo, per il sociologo polacco, sempre più “flessibile”.
In tale contesto, il gioco dei segni diventa qualcosa di estremamente convulso. Non è la moda a imporre di rifarsi il guardaroba ogni stagione, è l’instabilità antropologica che costringe la moda, come il design e tutte le altre pratiche creative, a prodigarsi per fornire continue proposte che vadano a compensare, in modo sempre provvisorio, il continuo dilavamento di forme. In altri termini, dato che i segni non tengono più, è ogni giorno necessario produrne di nuovi.
I numeri della settimana del design (solo al Salone del Mobile si sono contati 165.000 visitatori, che significa +34% rispetto al 2006 e +64% rispetto al 2005) confermano il dilagare dell’interesse per le dinamiche di rinnovamento del parco oggetti. Ciò che intriga, cioè, non sono tanto gli oggetti in sé e per sé ma il loro avvicendamento in quanto tale. Dal vintage all’avveniristico, dall’eco-sostenibile all’esuberante, va bene qualunque cosa, purché segni uno spostamento rispetto allo stato di cose precedente.
E a Milano di questi tentativi di smarcamento se ne sono visti tanti. Al Salone Satellite, vera e propria fiera degli aspiranti designer, sintomatico è stato il successo di un giovane outsider, Alberto Dassasso, con le sedute Avio ricavate dal riutilizzo di barili e altre lamiere sulle quali erano riconoscibili i loghi di chi li aveva prodotte, in modo da intravedere contemporaneamente ciò che l’oggetto era e ciò che è diventato, mettendo in scena non un “prodotto” (troppo solido) ma un “procedimento” (liquido). Jean-Marie Massaud - Ad Hoc - prod[1]. Viccarbe - SuperstudioPi— - Zona Tortona - Milano - 2007
Per quel riguarda il giro dentro al Salone, Cassina, Kartell e le altre grandi sorelle continuano ad essere tallonate dal sempre godibile Campeggi, quest’anno con i nuovi lavori di Giovanni Levanti e Denis Santachiara. Innumerevoli anche gli appuntamenti fuori salone, fra cui l’immancabile Droog, la Design Academy di Eindhoven, Designersblock, Established & Sons, la Nazionale Italiana Design. A SuperstudioPiù di Zona Tortona era la volta di tipi come Tom Dixon, con un allestimento più auto-elogiativo che interessante, Moooi, con nuovi pezzi per il suo pastiche elegante e raffinato, e lo spagnolo Viccarbe, che con la poltrona Ad Hoc di Jean-Marie Massaud punta a mettere uno dei suoi fra i classici del design.
Ma il circo della non si ferma. Dopo Milano tocca a New York, e poi Mosca, Tokyo, Londra, Parigi, senza parlare di Cina e India. Gli “spazi” non bastano mai. La creatività non è più un’attitudine o un mestiere ma una condizione antropologica, in quanto tale estesa e generalizzata. Creare forme nuove è diventata la cosa più facile del mondo. Quasi impossibile fissarle per impedirne il cambiamento. Al punto che Rem Koolhaas, in una fulminante intuizione dispersa fra gli acidi propostivi diJunkspace (ed. Quodlibet), con il coraggio di chi sa che per penetrare il futuro occorre dire qualcosa di apodittico ed eccessivo afferma che al punto in cui siamo progettare bene o male non fa più nessuna differenza. Infatti, che l’oggetto sia di “qualità” o meno scomparirà comunque presto, perché è lo stesso impasto antropologico di cui è fatto ad essere molle, instabile, “creativo”.
Junkspace è lo spazio-spazzatura generato, come il cibo-spazzatura, in quantità e varietà tali che mangiarlo/fruirlo o meno è la stesa cosa. E il design –la creatività sperimentale, quotidiana, “debole e diffusa”, per usare un’espressione cara ad Andrea Branzi– partecipa appieno dello stesso tipo di dinamica. Junkdesign non è design-spazzatura nel senso che il progettato è tutto di bassa qualità (il design è anzi sempre più capace di sorprendenti raffinatezze, come dimostrano i pochi oggetti sopra menzionati), ma nel senso che è diventato una pratica estesa e inarrestabile che produce senza posa una quantità fuori misura di creatività.
Come il junkfood, prodotto/consumato (è la stessa cosa) senza un reale obiettivo, per una sorta di ossessione o stregoneria, così si continuano a produrre oggetti nuovi che si erodono a vicenda. Tutto è sempre e solo nuovo, assiduamente nuovo, irrimediabilmente nuovo. Non è un caso che Opos abbia presentato una serie di progetti sul tema “Vecchio/Old” – né è un caso che non siano sembrati tra i migliori della sua produzione. Niente è più in grado di sedimentare lo spessore di una durata.
La creazione di forme nuove ha raggiunto la massa critica oltre la quale il legame tra valore e novità si è rotto, ennesimo sintomo del più generale divorzio tra segno e realtà denunciato dal recentemente scomparso Jean Baudrillard.
Alberto Dassasso - Avio - Salone Satellite - Milano - 2007
E senza il segno da un lato e la realtà dall’altro, il design come un fiume privo di argini cresce al di fuori di ogni controllo, travolgendo le vecchie forme dell’abitare e aprendo un campo popolato da oggetti umani troppo umani nei quali le istanze di razionalità (funzionalità, efficienza, eco-sostenibilità) devono fare i conti ogni giorno con i moti dell’emotività (gli aspetti simbolici, la necessità del cambiamento, l’inquietudine della forma). È una generazione di oggetti che, come le persone, stare simpatici o antipatici, contenere piccole gioie o sottili gelosie, fornire aiuti mirati o invischiare in perverse ambiguità. Possono essere sinceri o impenetrabili, ancillari o soverchianti. Ma la partita resta ogni giorno aperta.

link correlati
www.cosmit.it
www.vibrazioniartdesign.com
www.cassina.it
www.kartell.it
www.campeggisrl.it
www.giovannilevanti.com
www.denisantachiara.it
www.droogdesign.nl
www.designacademy.nl
www.designersblock.org.uk
http://establishedandsons.com
www.nazionaleitalianadesign.it
www.tomdixon.net
www.moooi.nl
www.viccarbe.com
www.opos.it

stefano caggiano

[exibart]


2 Commenti

  1. Come ha fatto notare il n.y. times siamo di fronte ad un nuovo surrealismo applicato al design. A sua volta questo design sfocia nel campo dell’arte, visto che le opere giganti di Marcel Wanders ad esempio, tutto sono tranne che oggetti funzionali.
    Un’altra cosa mi fa pensare: ma tutta questa produzione di idee (bellissime) trova posto nelle nostre case? Perché oltre ai costi che non corrispondono agli stipendi medi, il nostro bagaglio di ricordi familiari, di oggetti ammassati da generazioni, lo permette?

  2. Anche Francesco Morace dice qualcosa del genere a proposito della diffusione di un atteggiamo “surrealista” nell’ambito degli oggetti e dei consumi quotidiani. Il design sarà sempre meno il lavoro di pochi e sempre più una prassi allargata. Ciascuno potrà fare il “design” per sé e potrà proporlo ad altri. Il denaro continuerà ad avere un ruolo fondamentale ma non sarà più l’unica variabile in gioco. Ormai abbiamo mangiato la foglia. Ci sarà il design griffato, ma ci sarà il design opensource.

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