18 luglio 2007

fotografia La fotografia come altro reale artificiale – Parte III

 
La terza e ultima parte dell’indagine sulla capacità di presa sul reale del mezzo fotografico. Stavolta il tema è la fotografia psichiatrica e criminale, iniziata nella prima metà dell’Ottocento. E la sua presunta oggettività…

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Per contestualizzare e comprendere il ruolo e le caratteristiche proprie della fotografia psichiatrica risulta opportuno premettere che essa nacque -nella prima metà dell’Ottocento- per un duplice scopo. Da una parte per servire all’identificazione del singolo folle –procedendo all’archiviazione della sua immagine- e dall’altra per documentare la varietà della follia registrandone i casi particolari. Con la fotografia, infatti, identificare, segnalare e descrivere l’individuo divennero operazioni che guadagnarono, sia pure in apparenza, in oggettività rispetto a quelle analoghe realizzate con la scrittura.
Un’oggettività apparente s’è detto, perché in realtà nei manicomi la descrizione fotografica dei pazienti venne da subito diretta a stabilire e a diffondere un’idea precisa della follia, da utilizzare ai fini di un controllo e di una gestione sociale maggiore di individui che si consideravano potenzialmente pericolosi e comunque sia diversi, e perciò da emarginare e sorvegliare. Questa volontà politica di costruire un’immagine unilaterale e stabilita preventivamente della follia, venne tradotta in realtà manipolando con presunzione scientifica le restituzioni fotografiche.
Esemplari in questo senso risultarono essere le forzature interpretative, inequivocabilmente strumentali, adottate in sede di lettura e di utilizzo della fotografia del ricoverato manicomiale nei casi in cui questi presentava alcune deformità fisiche come lo strabismo -per gli specialisti di allora fatto passare quale l’essenza dello guardare obliquo e quindi del tradire-, l’asimmetria subdola -colta come espressione di una duplicità mostruosa- ovvero semplicemente un’appartenenza particolare (una donna sarda che solo per il fatto di essere tale diveniva l’emblema del banditismo).
In tutti questi casi ne risultava il clichè. In seguito ad un tale irrigidimento tassonomico dell’interpretazione, l’individuo con la sua storia venne cancellato per essere preso a modello, attraverso un’opportuna giustificazione e preparazione del fotoritratto, di una condizione che si voleva espulsa dal sociale e relegata nelle aree deputate.

A sostegno di tutto ciò contribuì la diffusione della fotografia in ambito medico, che favorì l’idea che il fotoritratto clinico fosse uno strumento diagnostico. “L’uso folle che se ne fece nelle università, nei manicomi e nelle galere, spiega l’assurdità dell’idea generale di fotografia” che si ebbe nel XIX secolo e, in questi ambiti, anche in parte del XX. “L’immagine chimica automatica presa dal vero fece perdere il senso pratico a ricchi e poveri, proletari e borghesi, ignoranti e sapienti, trasformando ciarlatani in medici famosi che oggi è difficile cancellare dalla storia della medicina (Ando Gilardi). Difatti la presunta scientificità di ricerca e di analisi desumibile -per gli psichiatri di allora- dall’immagine fotografica, venne progressivamente trasferita nell’analisi del malato in carne ed ossa con le conseguenti aberrazioni nelle proposte di cura. Importante -perché fu l’unica riflessione pubblica formulata su questo tema- fu l’esposizione titolata Nascita della Fotografia Psichiatrica organizzata durante la Biennale di Venezia del 1981, in occasione della quale venivano documentate le ragioni, identificate nell’interesse politico servito da un’ideologia filosofico scientifica a dir poco illogica, e le conseguenze della formazione di una visione comune della pazzia. Questa visione fu creata, secondo ciò che in quella sede affermarono specialisti come Franco Basaglia e Hrayr Terzian, principalmente per ragioni di potere dallo stato borghese al quale occorreva un’immagine di tipo nuovo, capace -legalmente e moralmente, al pari di un’icona- di rappresentare ciò che raffigurava. Una visione della follia creata dunque grazie ad una mitizzazione della fotografia, di cui si è parlato anche nei precedenti interventi in questa rubrica, che veniva fatta passare come un vero e proprio strumento scientifico, capace di dare espressione matematica alle cose e di catturarne la verità. Attraverso un congegno ottico con tali capacità attribuite si capì che era possibile, con facilità, drammatizzare le cose, i fatti, le persone, i volti, amplificandone e distorcendone i significati. Questo modo di utilizzare il linguaggio fotografico finì per far imputare ad un caso limite una tipicità, un modello che è –perché lo divenne- un identikit -per utilizzare opportunamente un linguaggio poliziesco- del fatto o dell’oggetto ritratto.
Un modo di relazionarsi e di utilizzare l’immagine fotografica quindi fortemente ideologico e strumentale che fu proprio della fotografia giudiziaria e psichiatrica e che trovò alcuni sviluppi analoghi nella fotografia impiegata a fini (dis)informativi nei tabloid, nelle riviste e nella televisione. In questo senso furono -e sono- tantissimi gli esempi che potremmo trarre dai media riguardo l’amplificazione e la drammatizzazione adottate per comunicare certi fatti piuttosto che altri. Significativo e centrale per questo discorso fu senz’altro il lavoro di Andy Warhol, che su di una riflessione attorno al mondo del fotografico, sulla presa condizionante che questo ebbe e ha sugli individui -sul loro modo di vedere, di conoscere e di riflettere oltre che sulle modificazioni e le distorsioni del gusto e dell’espressività del sociale subite in seguito ad un utilizzo strategico di questo linguaggio- basò la propria, fondamentale, cifra stilistica.

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[Redazione Exibart]

1 commento

  1. ma questa ricerca da dove è nata?Mi incuriosisce, c’è una mostra o cosa?
    La psichiatria mi interessa, assieme alla fotografia, ki sapesse qlks al riguardo può mandarmi una mail.

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