23 novembre 2007

fiere_resoconti Artissima 14

 
Finalmente Artissima. Dopo un anno di notizie, smentite, interviste e polemiche l’evento tanto atteso si è compiuto. La XIV edizione della fiera torinese, per la prima volta nelle mani del critico-curatore Andrea Bellini, si è chiusa all’insegna di un diffuso ottimismo...

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L’Italia, si sa, è un Paese che ama flagellarsi e darsi addosso. Mettiamoci che la faziosità sembra connotare il nostro sistema dell’arte e si avrà un’idea dei presagi che aleggiavano alla vigilia di Artissima. Tutti pronti a cucinarla sulla graticola, alimentata dai rancori suscitati da un forte atteggiamento decisionista, una dichiarata vocazione al mercato internazionale anglosassone e una tensione verso il compattamento e la riduzione dei ranghi, a spese soprattutto degli operatori italiani più maturi e consolidati.
Alla conta dei fatti, Andrea Bellini ha vinto. Non che ciò gli toglierà la soddisfazione delle critiche ma può vantarsi di aver reso difficile la vita ai detrattori. Che forse dovrebbero abbandonare la strategia degli attacchi ad personam per interrogarsi sul senso più generale del primo esempio di “fiera del curatore”. È giusto che un evento di mercato, pur declinato nelle forme di un evento culturale di massa, assuma una deriva così decisamente militante? È giusto che ci sia l’Artissima di Bellini come vi sono state la Biennale di Storr, Bonami, Szeemann, A.B.O.?
Una forte connotazione curatoriale e concettuale è infatti tipica delle biennali e non delle fiere, che per definizione dovrebbero selezionare il meglio di un settore commerciale, indipendentemente dall’orientamento, affidandosi a una direzione manageriale. Magari in futuro vedremo i migliori curatori fronteggiarsi a colpi di fiere satellite a Basilea, Miami, New York e Londra. Intanto ci contentiamo di confutare i proclami di Artissima di aver puntato alla qualità perché invece s’è puntato su Bellini. Oppure, se volete, questa è stata sì una fiera di qualità, ma la qualità secondo Bellini. Tocca il solito giro.
La scultura
MADE IN U.S.A.

Ben 18 le gallerie americane, pari al 13,2%. Non ci sono i grandi nomi ma alcune buone emergenti sì.
Foxy Production traduce a Torino l’installazione principale della mostra in corso in galleria. La mangiatoia dell’egiziano Hany Armanious è una presenza enigmatica che genera oggetti golemici dal fango. Tra le new entries particolare interesse ha suscitato Fruit and Flower Deli, di recentissima apertura. Al di là dei nomi, per lo più sconosciuti, è in generale lo spirito fresco e aggressivo delle proposte che le sono valse il Premio Carbone. E forse una concezione nuova della galleria d’arte. Il pop a tutto tondo è il chiodo fisso di Canada: c’è quello geometrico di Joe Bradley (selezionato per la prossima Biennale al Whitney), quello matematico di Xilor Jane e quello primitivo e cosmico di Michael Williams. Per gli amanti del genere, sono uno meglio dell’altro.
Un buon consulente per l’allestimento sarebbe consigliabile a Perry Rubenstein che, dipingendo le pareti dello stand di nero, grossolanamente appesantisce un lavoro delicato e sognante come quello di Robin Rhode, artista eclettico che si muove tra pittura, performance e installazione. La galleria allestisce anche una mini personale per il giovane americano Brock Enright: video e una scultura in mostra per l’erede ideale di Paul McCarthy. Glam, punk, trash e horror ben dosati: farà strada. Intrigante l’offerta di Nikole Klagsburg, fra la colta ricerca sulle tematiche razziali di Rashid Johnson (decisamente interessante il suo manto stellato Grand Galactic Cloack) e il potenziale futuro personale pianificato ad albero da Campbell Beth.
Fatta fuori da Torino l’unica galleria italiana attenta alla net art (Fabio Paris di Brescia), tocca a Postmaters presentare i nostri 01.org. E meno male, perché sarà pur difficile immaginare cosa resterà dell’arte di questi anni in futuro ma certo un pizzico di Net Art ci sarà per forza. E immaginarla senza gli 01.org è assai ardito.
Jamie Shovlin - Black Room (1/9)
ITALIAN STYLE

Conferma la propria effervescenza Fonti con i minimi interventi di Giulia Piscitelli e la deriva favolistica dell’emergente Nicola Gobbetto, che rilegge l’Alice di Lewis Carroll e fa scomparire i castelli disneyani dai paesaggi della Loira. Monitor lascia la scena a due esempi tipici dell’accrocco contemporaneo, particolarmente caro al nostro tempo: a fianco del totem di ventilatori di Graham Hudson giace il monolite opalescente di Nico Vascellari dal quale affiorano oggetti di scena fossilizzati.
Per la serie a volte ritornano la romana VM21 rispolvera un Pintaldi affascinato dalle religioni orientali e lascia spazio a un ottimo progetto del collettivo Alterazioni Video. Che con spirito archeologico indaga lucidamente, senza indulgere nella retorica o nel documentarismo, il fenomeno dell’abusivismo edilizio in Sicilia, tra carte, arazzi e un totem di video che frammenta un pilastro rendendolo eternamente instabile. Sul fronte delle tematiche sociali un altro progetto azzeccato, tra video e scultura, è quello di Annibal Lopez da Prometeo, che percorre le pericolose vie del contrabbando tra Paraguay e Brasile con finte scatole di sigarette. Concettualmente agli antipodi, Perugi scommette tutto sui giovani della generazioni anni ’80, scoprendo che non è tutto ironia quello che ci circonda, vedi il bellunese Davide Zucco e il giapponese Kensuke Koike.
Bello stand giocato sul bianco/nero per la romana s.a.l.e.s.. Tra le chicche i disegni di Euan McDonald, coperte di vecchi spartiti da piano bar dimenticati, in dittico con intime riflessioni ispirati dal titolo. Tutto rigorosamente a grafite, un lavoro raffinato e romantico sulla memoria. La copertina conquistata da Igor Grubic (Artra)Da segnalare anche i candidi bassorilievi dalle iconografie classicheggianti di Charles Avery e le graffianti carte di Erik van Lieshout.
Idea semplice ed efficace. È quella di Igor Grubic che ritrae persone comuni sullo sfondo del loro contesto di adozione, dove mettono le ali come gli angeli di Wenders. La galleria milanese Artra si difende bene anche con i collage fotografici di Josif Kiraly e i disegni di Alejandro Vidal. Due segnalazioni per Umberto Di Marino: Jota Castro che scrive China con le scarpe piace per la sua essenzialità mentre Luca Francesconi alle mode folk preferisce la mistica popolare. Davvero convincente, meriterebbe una chance importante.
Sontuosa parata di stelle da Continua: si va dai disegni di Hans Op De Beeck ai lavori biennalizzati di Sophie Whettnall e Kan Xuan, dall’indiscussa star del momento Nedko Solakov, spartito con Minini, a impegnati lavori di Mona Hatoum.
Tra le novità in galleria, Peola scommette sul giovane fotografo Marco Campanini, sulla palestinese Emily Jacir (due biennali di Venezia, una del Whitney, passando per il Moma) e sul giapponese Hiraki Sawa. Le sue animazioni ricordano lo Schiaccianoci di Tchajkovskij. Vivace l’offerta di Soffiantino, che presenta un video di grande pathos di Kate Gilmore, un arco di trionfo portatile di Jimmie Durham e un nuovo lavoro di Andrea Nacciarriti, che con lo stesso materiale realizza due opere. Gli ottanta neon accesi nella sua cassa, vera minaccia alla retina, sono gli stessi utilizzati per creare la linea di luce nello stadio di calcio fotografato per Fornello, che accoglie l’ambizioso progetto, firmato Elena Re, di riscoprire la fotografia sperimentale italiana degli anni ’70. Si parte con Giorgio Ciam (1941-1996).
Ottima l’offerta di Raffaella Cortese: ficcanti carte di T.J. Wilcox, ispirati disegni e sculture di Kiki Smith ma convincente anche il video di Michael Fliri, che tenta vanamente di uscire da una stanza del pericolo senza riuscire a evitare buffi incidenti.
Ci sono anche quelli che se ne infischiano dello spirito di Artissima, votato al nuovo ad ogni costo. Cardi ad esempio punta a finire sui giornali per il dittico di farfalle di Damien Hirst (pare sia stato venduto negli States a tre milioni di dollari) e l’ottimo cesso ricostruito di Tom Sachs. Tucci Russo espone il classico Tony Cragg (interessanti i disegni) e prova a insidiare Rubenstein per Robin Rhode.
La Toderi più recente, quella della Torre di babele cosmica, la presenta Vistamare, una struggente Elena Arzuffi è quella vista da Ciocca: in un tempo dove la violenza sugli animali serve a farsi pubblicità, c’è almeno un’artista che li difende.
Dopo tanta pittura, Glance di Torino, fresca di nuova sede in zona via Mazzini, esplora anche il video e la fotografia. Ezra Johnson è la novità.
Un lavoro di Robin Rhode (Perry Rubenstein e Tucci Russo)
Piccole dimensioni talvolta rivelano piccoli capolavori. Un esempio lo danno Noero e Sonia Rosso. Il piccolo inchiostro su carta in cornice d’artista dell’inglese Paolo Bronstein del primo è la cosa più efficace dello stand. Un lavoro sulla memoria ma soprattutto sul contorno o, se volete e citando Rem Koolhaas, sulla struttura. Dalla Rosso invece, Jonathan Monk stupisce per i suoi interventi intimi, minimi ma non minori. Veri gioiellini, come quando rovescia una vecchia cartolina o trasforma in scultura di marmo i suoi libri preferiti.
Fa notizia lo stand di Zero che ricapitola la sua scuderia in uno stand mai così pieno. Il suo vicino di sede Pianissimo riporta in auge Roberto Ago, belle le sue pallottole di carta e graffette, e si segnala anche per le rivisitazioni digitali di impressionismo e simbolismo di Lucia Uni.
Ci sono ottimi lavori fotografici di Mike Kelley da Emi Fontana, Candice Breitz per Kaufmann e per il Magazzino d’Arte Moderna un ispirato Luca Vitone che fotografa i luoghi dell’utopica stanza circolare di Segantini.
Di Colombo segnaliamo i recenti mandala di Pierluigi Calignano, di Lia Rumma la ripresa dell’ultima uscita di Marzia Migliora, di Artiaco il grande complesso scultoreo di Thomas Hirschhhorn: “Four Men”, del 2006, è una riflessione sui confitti dell’era globale.

THE OTHERS
La praghese Vernon adotta il giovane siciliano Gianfranco Pulitano e le sue sorpresine artistiche da ovetto Kinder, al motto di + Arte e – Cacao.
Una di fronte all’altra, le due giapponesi si fronteggiano: Murata & Friends ripropone le già viste ed esili sculture di carta di Yuken Teruya e l’illusione liquida dei marmi di Tatsuya Higuci. Più intrigante Shinako Sato da Side 2 che rivisita la classicità orientale utilizzando collage e sticker.
Da segnalare i verbosi lavori di Annelise Coste dell’olandese De Bruijne. Una sorta di neolettrismo che sembra farsi largo nella pittura contemporanea. La Coste, transitata alla Tate per la collettiva Learn to Read, si smarca però da pericolose etichette sperimentando qui scultura e gouache, senza proferir parola.
Punta quasi tutto sui russi biennalizzati AES+F l’austriaca Ruziska, che viene a far concorrenza in casa a Noire. Mettersi d’accordo sull’esclusiva dei Riot in fiera era difficile?
L’austriaca Charim mette le mani avanti con una sorta di riepilogo del più classico dell’azionismo viennese di Nitsch, Brus e Muehl.
La londinese Wilkinson dà spazio all’ultima docente al Corso Superiore Ratti Joan Jonas, quasi tutto lo stand concede invece l’irlandese Rubicon alla retrospettiva dell’artista di casa Liam O’Callahan, niente male davvero: eclettico, poetico, surreale. La cosa migliore è la sua catasta di legna parlante. A proposito di curiosità, ce n’è una sfiziosa allo stand dell’olandese Reflex. Accanto all’evocativa e già classica serie Grief di Erwin Olaf stanno le iconografie dei santi riviste in chiave fashion e fetish dall’obiettivo di Miles Aldridge, presentati dal testo critico di… Marilyn Manson (!).
Si chiude con Delvoye che rinverdisce l’antico motto che “del maiale non si butta nulla”. Le note pelli tatuate finiscono in cornice da Perrotin, salami e prosciutti non pervenuti.
La Cina secondo Jota Castro (Umberto di Marino)
CONSTELLATION

Sezione altalenante e un po’ sacrificata. Incombente e pericolosa la torre di sacchi di cemento di Krisof Kuntera, la palma del migliore va Nedko Solakov, che nella penombra piazza un plinto con una scritta, consigliando i visitatori di rinunciare a cercare qualsiasi traccia d’arte. E non può essere taciuto il solido di luce di James Turrell, perfetto esempio minimal.

PRESENT FUTURE
Anche qui non il massimo della logistica. Difficile condividere il Premio Illy assegnato dalla triade Diserens-Manacorda-Pfeffer all’artista venezuelana Patricia Esquivas (Silverman, San Francisco) per un progetto nevrotico piuttosto noioso. Difficile capire come non possano esser stati preferiti lavori concettualmente e socialmente più incisivi, che c’erano. Quello del croato David Maljković ad esempio, che indaga con lucidità problematiche, suggestioni e contraddizioni dei Balcani ex-sovietici. E che dire della Black Room di Jamie Shovlin (1/9, Roma)? Il suo viaggio a ritroso negli ultimi decenni del secolo scorso è di una sintesi rara, ficcante e cristallina. Qualcuno dirà che i due sono nomi ormai già digeriti dal jet set internazionale. Però allora perché selezionarli?

VIDEO LOUNGE
Un modello da imitare per l’organizzazione della sezione. Tra i video recenti da segnalare l’ultimo di Guido Van der Werve (Monitor), immobile sul pack a osservare la stretta parabola del Sole. Dissacrante la soggettiva di Rainer Ganhal (Fruit and Flower Deli), che si permette di prendere a calci le opere complete di Lenin sulla Piazza Rossa. Da Lenin a Lincoln, Brent Green (Bellwether) è autore di un’animazione folk molto coinvolgente.
Da ultimo non poteva mancare l’ipnotico video di Christopher Miner (Galerie Im Regierungviertel) paradossale messa in ridicolo del sistema dell’arte. Il suo blaterare isterico e disturbante non è passato inascoltato.

Andrea Bellini nello studio di Willoughby Sharp
APPENDICE: COS’HA FUNZIONATO E COSA NO

Tra le notizie positive è che la fiera di Torino ha ritrovato la sua identità. Non è e non sarà mai sul podio delle fiere d’arte migliori al mondo ma rivendica la sua marginalità, il suo status di nicchia legato all’originalità di un modello, quello della fiera degli artisti e delle gallerie emergenti. Su questo fronte il nucleo di italiani selezionato e le effervescenti scelte internazionali hanno pagato: un gruppo compatto, ristretto, che ha reso l’evento godibile e divertente.
L’organizzazione ha risposto bene e, una volta tanto, incassa i complimenti degli stranieri. Buona l’affluenza del pubblico e delle vendite, spalmate un po’ ovunque.
Persino l’atavico problema dei video è risolto: in un’area appartata, una sala con tre megaschermi offriva il programma completo a chi voleva goderselo spaparanzato sui divani ma, in separata sede, erano anche disponibili postazioni privée dove potersi gestire on-demand la propria scaletta.
Note negative arrivano sul fronte del pubblico: dei 43mila ingressi, i collezionisti stranieri sono stati pochini e tutti europei. Qualcuno ha proposto di ribattezzare la fiera torinese Minimissima, per la tendenza diffusa a esporre opere di ridotte dimensioni. Non è stata una fiera globale: assente non giustificata una rappresentanza latino-americana: c’è Prometeo di Milano a portare la bandiera, come quella cinese è affidata ai nostri Marella e Continua. Di indiani, neanche l’ombra.
Tra gli italiani, la mannaia di Bellini ha risparmiato qualcuno che ne ha approfittato per inquinare l’estremismo del talent scouting internazionale cui Artissima mira. Le ire degli esclusi trovano così terreno fertile, anche perché, è bene ammetterlo, Bellini ha vinto sì, ma perseguendo un sogno abnorme, ancorché congruente con i tempi che corrono e con la debolezza del nostro sistema nel mercato globale. Perché non si dica che sia normale che si spendano soldi pubblici con l’obiettivo di convincere gallerie americane a farsi una gita fuori porta in Italia per vendere a collezionisti americani artisti americani.
Rimane da capire come mai, tra gli eventi a latere, la Fondazione Sandretto non abbia programmato un evento di spicco ma solo uno screening delle ultime acquisizioni video. La gente mormora…

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Il resoconto di Artissima 13

alfredo sigolo

[exibart]

8 Commenti

  1. la mannaia di bellini ha però colpito solo i non protetti italiani!
    ma qualcuno ha il coraggio di scrivere della inutilità e poca qualità di uno stand come ermanno tedeschi di torino?
    o della non qualità dello stand di inarco?
    quando gallerie di ben più stima sono state tagliate fuori.
    abbiate il coraggio di scrivere per favore.

  2. La scritta CHINA fatta con le scarpe di Castro è semplicemente patetica, ovvia, didascalica, trita, pretestuosa e banale. Se l’avesse fatta un artista italiano l’avremmo guardata con tenerezza, fatta da lui chissà perchè diventa figa. E comunque molte gallerie italiane erano nettamente superiori, per qualità degli artisti, rispetto a molte colleghe straniere. Quand’è che cominceremo a credere di più in noi stessi e nei nostri artisti?

  3. tra le cose che mi sone balzate agli occhi, oltre a fabioparis estromesso a calci sul sedere,
    la presenza della galleria “astuni” (che non è certo di ricerca). e poi una chance la potevano dare ad una galleria giovanissima come ad esempio la jarach che sta lavorando con alcuni dei migliori fotografi italiani emergenti!

  4. Giovanni collezionista di Parigi… questa non è una fanzine…

    Brava Irene hai detto bene. Le nostre Gallerie dovrebbero davvero considerare e credere nei bravi Artisti anche giovani Italiani.

  5. l’eliminazione di fabio paris penso sia solo positiva.
    poi che siano rimaste in gioco gallerie di pessimo livello su questo concordo pienamente.

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