14 febbraio 2008

fotografia_opinioni Il piombo e l’argento

 
Immergiamo le mani nei rapporti tra gli eventi del ‘68 (e del ‘77) e la maturazione di un’intera generazione di fotografi italiani. Tra fotogiornalismo, eversione, cronaca. In quel periodo di fuoco, anzi di piombo, tra la strage di piazza Fontana e quella della stazione di Bologna...

di

Che cosa hanno rappresentato gli anni ‘70 per la fotografia italiana? La storia, si sa, è dei vincitori. Per almeno due generazioni di autori oggi riconosciuti in ambito internazionale –Gabriele Basilico, Giovanni Chiaramente, Luigi Ghirri, Guido Guidi, Mimmo Jodice, ma anche Olivo Barbieri e Vincenzo Castella– la nebulosa del post-1968 ha costituito un periodo di maturazione e “sperimentazione” (una parola-chiave per quell’epoca) segnato da contatti sporadici con il Concettuale, il Minimalismo e la Land Art. Un lungo cammino che dalle Verifiche di Ugo Mulas (1970-72) conduce alla mostra Viaggio in Italia (1984), atto di nascita della “scuola” italiana di fotografia del paesaggio contemporaneo.
L’attuale dibattito sul conflitto politico e sociale degli anni ‘70 e un approccio critico meno autoreferenziale alle pratiche della fotografia [1] suggeriscono oggi la possibilità di riconsiderare quel decennio da prospettive diverse. Traguardati attraverso due eventi drammatici per la storia nazionale come le stragi di piazza Fontana (Milano 1969) e alla stazione di Bologna (1980), i “lunghi” anni ‘70 non sono solo un periodo di ricerca linguistica e di immaginazione creativa (nell’ottica libertaria del ’68 o in quella “gioiosa” del ’77), ma anche un nodo storico denso di contraddizioni, in un clima generale di tensione e violenza diffusa, incertezza e paura, che per la sociologia della modernità coincide con l’idea di metropoli [2].
Se può apparire riduttivo spiegare il successo della generazione di Viaggio in Italia come un retour à l’ordre tipico della stagione del “riflusso” -un’iconografia antiurbana ed escapistica che rimuove l’attualità della violenza e sublima il conflitto nel gioco della rappresentazione- è proprio lo statuto di crisi tipico degli anni ‘70 a richiedere una riflessione meno storicistica sulle pratiche fotografiche di quegli anni.
Una prima sommaria mappatura indica naturalmente che è stato il fotogiornalismo a giocare un ruolo cruciale nella costruzione dell’immaginario collettivo della città aggressiva. Mario Cresci - Valle Giulia - 1968 - fotogramma da filmUtilizzando per finalità opposte l’estetica del “momento decisivo” di Henri Cartier-Bresson e Robert Capa, i fotogiornalisti si sono divisi tra il consumo quotidiano di istantanee della “scena del delitto” tipico della stampa “borghese” e una pratica militante (come nel caso di Tano D’Amico) impegnata nella denuncia dello Stato poliziesco e nel sostegno a una cultura di opposizione.
La prevalenza dell’istantanea di cronaca nell’immaginario degli anni ‘70 rispecchia un quasi totale disinteresse da parte dei curatori che allora si occupavano della ricerca fotografica. Non è un caso che nel 1979 -l’anno di pubblicazione di Fotografia e inconscio tecnologico di Franco Vaccari e della mostra La pratica politica alla Galleria Civica di Modena [3]- la kermesse di Venezia ’79 presentasse come unico accenno a temi di attualità l’impegno sociale di inizio novecento di Lewis Hine e il noir hard-boiled anni ‘40 di Weegee [4].
Scelte come queste, dettate da un preciso programma di “acculturazione” della fotografia italiana di quegli anni, oscuravano pratiche più frammentarie e meno disciplinate. Un breve percorso potrebbe iniziare dai lavori del 1968 di Mario Cresci, che in Esercitazioni militari e Valle Giulia aveva incrociato i linguaggi del film e della fotografia per decostruire l’immaginario del conflitto politico e la sua rappresentazione pubblica. Tra il 1970 e il 1974 Ando Gilardi diresse la rivista Photo 13, un attivo laboratorio di critica e analisi del sistema dell’informazione [5].
Nel ‘77, il Laboratorio di comunicazione militante pubblicava L’arma dell’immagine, un’antologia di sperimentazioni su politica e visualità condotte insieme a docenti e studenti delle scuole di Mantova. L’anno successivo comparvero Wanted. Storia, tecnica e estetica della fotografia criminale, segnaletica e giudiziaria dello stesso Gilardi, e Mettiamo tutto a fuoco!, un “manuale eversivo di fotografia” che riuniva informazioni pratiche sulle tecniche di sviluppo, stampa e riproduzione, un excursus sulla storia del medium e interviste a operatori militanti, fra i quali Tano D’Amico, Enrico Deaglio (allora direttore di Lotta Continua) e un collettivo di fotografe [6].
Tuttavia il nodo più profondo dell’immaginario degli anni ‘70, che forse solo oggi si può iniziare ad affrontare, riguarda l’utilizzo della fotografia all’interno delle pratiche eversive e violente che attraversano la metropoli [7]. Mettiamo tutto a fuoco! - Savelli - Roma 1978Gli schedari ritrovati nei covi delle Brigate Rosse (che comprendevano fotografie tratte dai giornali ma anche “indagini” fotografiche di prima mano su possibili obbiettivi) e soprattutto l’utilizzo della fotografia come strumento di prova nei sequestri di persona (dal dirigente della Sit-Siemens Idalgo Macchiarini al giudice Sossi ad Aldo Moro) rinviano a questioni comuni a molte pratiche artistiche, anche non militanti, degli anni ‘60 e ‘70. L’appropriazione e lo stravolgimento dell’icona popolare, la dialettica fra testo e immagine, la rivista come veicolo comunicativo, la dimensione dell’archivio, sono solo alcuni degli aspetti rintracciabili nelle strategie della “comunicazione sociale” delle BR, che il dibattito degli anni ‘80 e ‘90 su modernismo e postmoderno ha elaborato da un punto di vista teorico e sostanzialmente astorico.
Riconsiderare oggi dal punto di vista della storia e della teoria dell’arte quei materiali pone questioni etiche forse insolubili: le due polaroid che ritraggono Aldo Moro ostaggio delle Brigate Rosse non sono solo l’icona mediatica di un decennio trascorso, ma anche e consustanzialmente l’ultima immagine di una vittima inerme, condannata a morire di una violenza che non è solo rappresentata, ma anche perpetrata attraverso la fotografia. E tuttavia, per un paese come l’Italia che non ha avuto, per gli anni del terrorismo, un’opera controversa e catalizzatrice come la serie 18 Oktober 1977 di Gerhard Richter (1988), sono forse questi dubbi irrisolti che occorre affrontare per iniziare a comprendere il contesto più profondamente politico della fotografia italiana degli ultimi quarant’anni.

articoli correlati
Intervista a Enrico Crispolti

antonello frongia

[1] Vedi ad esempio R. Krauss, “Reinventare il medium” (1999), ora in Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte d’oggi, a cura di E. Grazioli, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 48-69.
[2] Cfr. M. Cacciari, Metropolis. Saggi sulla grande città di Sombart, Endell, Scheffler e Simmel, Officina, Roma 1973.
[3] F. Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico, Punto e Virgola, Modena 1979 (nuova edizione Agorà, Torino 2006). Cfr. Feedback. Scritti su e di Franco Vaccari, a cura di N. Leonardi, Postmedia, Milano 2007.
[4] Venezia ’79, a cura di D. Palazzoli, V. Sgarbi e I. Zannier, Electa, Milano 1979.
[5] Cfr. A. Gilardi, Storia sociale della fotografia, Feltrinelli, Milano 1976 (nuova edizione Paravia-Bruno Mondadori, Milano 2000, pp. 402-4).
[6] Laboratorio di comunicazione militante (Tullio Brunone, Giovanni Columbu, Ettore Pasculli, Paolo Rosa), L’arma dell’immagine. Esperimenti di animazione sulla comunicazione visiva, Mazzotta, Milano 1977; F. Augugliaro, D. Giudi, A. Temolo, A. Manni, Mettiamo tutto a fuoco! Manuale eversivo di fotografia, Savelli, Roma 1978.
[7] Il recente interesse per il linguaggio politico e propagandistico delle Brigate Rosse permette forse di esplorarne anche gli aspetti iconici: vedi ad es. P. Marconi, “Il sequestro Moro, una strategia allo specchio”, Gnosis. Rivista italiana di intelligence, n. 3, 2005 (http://www.sisde.it/Gnosis/Rivista4.nsf/ServNavig/5) e A. Benedetti, Il linguaggio delle nuove Brigate Rosse, Erga, Genova 2002.

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 44. Te l’eri perso? Abbonati!

[exibart]

1 commento

  1. In quegli anni nacque il filone di fotografi impegnati nel sociale e che si fecero portavoce non di movimenti politici ma di istanze di lavoratori non garantiti.
    Esempi di questo genere si possono trovare sulle pagine del settimanale “Il Lombardo”
    che nel 1972 pubblicò le immagini dell’impiego di manodopera minorile nelle fabbriche di vetro al rione Siberia, a Napoli.
    Significativo fu anche il lavoro di documentazione sull’occupazione delle terre demaniali di Persano, a Serre, provincia di Salerno, rivendicate dai contadini della riforma agraria del dopoguerra, per creare una specie di “Fiat” dell’agricoltura. Il movimento fu
    estinto dopo una “storica” carica della polizia e l’abbandono della sinistra del movimento. Le immagini apparvero su “Panorama”.
    Nei pressi di quella località, più tardi fu
    arrestato il “camorrista” Cutolo, ospite di una masseria non certo di proprietà dei contadini che avevano dato vita al movimento.
    Antonio Tateo

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui