18 novembre 2008

arteatro_interviste Flavia Mastrella

 
Ricreare l'aggregazione forzata del traffico, riproducendone i rumori in uno spazio chiuso. È l’installazione interattiva Autopatia. In una condizione di cattività, ogni elemento scultoreo è associato a un’emozione provocata nella congestione del drive time...

di

Roma, via Giulia, Galleria L’Acquario. Siamo di fronte a Flavia Mastrella, artista eclettica. Che presenta Autopatia, un’installazione sonora che raccoglie i sentimenti degli automobilisti e dei passanti nell’ora di punta, quando il traffico è congestionato. Flavia sperimenta varie discipline espressive, considerando ogni cosa materia: si esprime con le sue creazioni nel teatro, nell’arte figurativa e nel cinema.
Dopo Autopatia, il Teatro Vascello ospita lo spettacolo di Antonio Rezza dal titolo Fotofinish (dal 2 al 31 dicembre). Con Antonio, dal 1987 è artefice di una comicità irresistibile e surreale. Hanno realizzato infiniti cortometraggi, tre lungometraggi, nove performance teatrali, diverse trasmissioni televisive e opere artistiche e letterarie. Sempre a dicembre esce l’Ottimismo Democratico, il dvd che contiene dodici corti in bianco e nero, e Il passato è il mio bastone, vincitore della 65esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Giornate degli Autori.

Autopatia, una tua mostra in galleria dopo tre anni. Perché Roma, il centro e una galleria privata?
Curiosità ed esplorazione. Via Giulia è misteriosa, poco illuminata, antica e Autopatia è un insieme proiettabile in un’era immaginaria del post-umano. I frammenti raccolti su strade asfaltate si decontestualizzano in galleria. L’Acquario è raggiungibile solo camminando sui sampietrini che pavimentano via Giulia ed è così che la visione dell’habitat di Autopatia prende forma nella penombra della via mentre, sotto i piedi, la strada irregolare è densa di passi passati. Per realizzarla ho cercato il paesaggio giusto e ho plasmato l’atmosfera all’interno della galleria anche attraverso la luce e il rumore. Federico Carra, per i miei suoni, ha esplorato rumori di traffico, rispettando il senso del frammento significativo. Maria Pastore, per le luci, ha usato mezzi fantasiosi e leggeri, adattandosi ai supporti luminosi già esistenti nello spazio.
Flavia Mastrella - Autopatia - 2008 - courtesy Galleria L'Acquario, Roma 2008
Il rapporto con le tue mani: cosa ti comunicano, come le osservi?

Sempre in attività, le mie mani ultimamente vanno da sole, vanno con tutto il resto. Plasmano con dimestichezza ferro, legno, pvc, materie plastiche varie, stoffe, ricordano tutti i segreti. Non hanno alcun rimpianto.

Vivi di fronte al mare: influenza le tue creazioni?
Sono nata e abito di fronte mare e fin da bambina la sabbia e il bagnasciuga mi trasmettono input creativi. Modellavo pentoline e piattini con la sabbia. In Implosioni (1993) descrivevo il popolo dei lattonauti, che vivono sotto l’acqua. Le opere erano estrapolate da ghirbe di detersivi, bombolette di polistirolo espanso buttate nelle acque del mare. La mia intenzione non è quella di recuperare, non è nel riciclaggio degli oggetti, ma di percepire e trasmettere il percorso di un oggetto buttato nel mare, che si carica di avventure, paesaggi marini e muta, si decontestualizza. I frammenti che rimangono dimostrano la vecchiaia precoce: sono densi di poeticità e drammaticità. Dal 1990 raccolgo oggetti sul bagnasciuga e mi accorgo che soprattutto i giocattoli rispecchiano pienamente la società. Il consumismo porta alla morte immediata delle suppellettili; i giocattoli hanno vita breve, così come la fama di un cantante dura una stagione. Il dramma sta nella morte precoce di un oggetto. Per me questo raccogliere è un rito sciamanico. Scendo da casa e vado a vedere cosa mi ha portato il mare. I rifiuti, gli scarti della società, assumono valenza artistica spontaneamente. I pezzi di vetro che rimangono intrappolati fra i sassi della strada esprimono spesso la decadenza prematura del malessere contemporaneo, sono così vicini alla bellezza naturale.

Flavia Mastrella - Autopatia - 2008 - courtesy Galleria L'Acquario, Roma 2008Dalle note sulle tue opere leggo che “cerchi di raggiungere il bello”. Cosa vuol dire per te?
Il bello è la natura, l’assoluto. La realtà urbana lo ha stravolto, come un’opera d’arte è stravolta dalle imitazioni. Il messaggio spaziale dell’arte è trasfigurato, sparito. Gli oggetti che utilizziamo tutti i giorni ci allontanano dall’essenziale. Per esempio, la comunicazione tramite il cellulare, che tutti noi utilizziamo, ne stravolge il senso reale, così i ragazzi non si toccano più, ma comunicano via chat, via sms. Nella mia arte, ricerco le modalità della natura, copio dalla sua spontaneità. La natura esprime il buon gusto, sempre vivo e attuale, dell’arcaico. L’espressione della modernità è quella istintuale e primitiva.

Dopo l’esaltazione del bello nella natura primitiva, puoi dirci come l’osservazione del mondo contemporaneo, i volti, l’abbigliamento, le automobili, s’inseriscono nelle tue creazioni?
Il quotidiano è un mostro: cerco di esorcizzarlo con i miei riti. Attingo dalle suppellettili, dai giocattoli, dalle realtà urbane, recupero reperti, movenze, posture, espressioni; incamero e scompongo frammenti di oggetti densi d’uso, organizzo un linguaggio visivo che attinge alla memoria collettiva nella sua parte più semplicemente umana. I reperti decontestualizzati fermentano, diventano mitici, retorici, poetici. La varietà di consistenza delle materie scelte, lo spazio che esiste, ironico e denso di sollecitazioni, la luce, il suono, il rumore, determinano l’intensità dell’habitat (l’habitat è una realtà momentanea). L’unione di creature e ambienti artificiali è condizionata dal criterio compositivo del mare… ritmo e movimento… danza. Agli habitat si lavora in silenzio per ascoltare i rumori del luogo e nel silenzio vivo cresce la possibilità di raggiungere la condizione di gioco. Giocare è un fare comunicativo denso di pulsioni. Il contrasto fra l’aspetto materico dei singoli elementi e la composizione che li tiene uniti lascia a chi non esplora l’opportunità di guardarsi intorno, mentre chi esplora riesce a sorridere del dramma esistenziale rappresentato e quindi partecipa al rito.

Arte, teatro, cinema: come cambia la tua ricerca?
Tante discipline mi rinnovano la sensibilità di rappresentazione. I miei habitat hanno come materia la vita e i viventi attraverso l’inanimato, per questo sono momentanei e soggetti a mutamenti dettati dall’ambiente dove avviene l’azione compositiva. I limiti spaziali li trasformo in materia. Al teatro e al cinema lavoro con Antonio Rezza. Il forte legame creativo che ci lega è percepibile solo se si vede una nostra opera video o teatrale; il rito fortemente tangibile nei lavori teatrali o video dimostra che l’inquinamento tra noi è totale. Sono interessata all’influenza dell’ambiente sull’uomo e nel fotogramma dell’inquadratura ho maturato l’aberrazione prospettica, lo spazio inteso come composizione, e la sequenza di atmosfere.
Flavia Mastrella - Autopatia - 2008 - courtesy Galleria L'Acquario, Roma 2008
Che succede fra te e Antonio mentre create?

Litigio-distrazione-insulto, poi andiamo in trance e lavoriamo, senza parlare per giorni. Io e Antonio siamo simili, da vent’anni collaboriamo e interagiamo, come due bambini, che quando giocano si calano nella loro realtà inventata. Ci siamo conosciuti perché Antonio e Massimo Cavilli mi chiesero di aiutarli per i Visigoti (1987). Io trovavo i tagli per le foto di Angelo Frontini, con un commento grafico personalizzato. Subito l’espressività del viso di Antonio mi ha rapita e sono nati i quadri di scena. Il contrario della maschera. La maschera attoriale copre il viso; io, Antonio, invece, lo scopro, e ne copro il corpo. Amo i capovolgimenti. Studio i concetti, le leggi della disciplina e li capovolgo. Con i quadri di scena ho scoperto il tessuto. Le stoffe. Facili da trasportare, in movimento come le onde del mare, si muovono perpetuamente. La stoffa è la mia passione, come la carta. Per i Visigoti ho creato cento cataloghi assemblati con la colla, a mano. Il successo ricevuto ci ha dato la possibilità di continuare a collaborare.

Flavia Mastrella - Autopatia - 2008 - courtesy Galleria L'Acquario, Roma 2008Arti visive e attualità socio-politica possono guardarsi dritte negli occhi?
Diciamo che si guardano nelle tasche. L’Italia ha sperimentato come rendere schiavo il resto del mondo, inibendo la contestazione politica attraverso l’arte, prendendone il guscio, i mezzi, e tralasciando il contenuto. Io e Antonio affrontiamo l’arte nella sua funzione sociale, già sparita nel Novecento per mano della politica di regime della cultura partitica. L’arte è comunicazione, è messaggio che arriva istantaneamente tramite i sensi. Il regime sussume l’idea dell’arte e ne imita i meccanismi per dissuadere le masse. Noi non siamo partiti dal teatro. Prima degli anni ’80 eravamo nei centri occupati, nei cabaret, nelle discoteche, luoghi alternativi, meglio adatti ad accogliere, recepire ed esprimere la creatività contemporanea, nel suo spessore e nella piena vitalità.

L’emozione dell’atto creativo come uno stimolo per il risveglio dei sensi?
L’atto creativo spontaneo e indipendente, in questo periodo, è una forma di lotta, una controinformazione… Il malessere si manifesta quando insorge la possibilità didattica e terapeutica dell’arte. Come la gravidanza, che assimilo a un fenomeno creativo, nel tempo è diventata una malattia, in altri ambiti si trasforma l’arte in terapia. In questa confusione si parla del creativo mortificandolo e privandolo della sua funzione per me fondamentale, “il coinvolgimento nell’immaginario e nel fervore critico”.

a cura di chiara crupi

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