04 febbraio 2009

SE I MUSEI VANNO ALL’ASTA

 
Una vicenda aggrovigliata. Un immobile, quello che ospita la Galleria d’Arte Moderna di Verona, vincolato da un lascito testamentario che lo destina alla fruizione pubblica. L’attuale amministrazione scaligera vuole cederlo al miglior acquirente. Cerchiamo di capirci qualcosa. Anche grazie alle parole di Giorgio Cortenova, storico direttore del museo per oltre venticinque anni...

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Le pagine di cultura dei giornali locali da sei mesi non parlano d’altro. Poi, un’insistita campagna di raccolta firme ha portato il caso all’interesse nazionale, tra polemiche e battaglie legali. Parliamo di Palazzo Forti, sede storica della Galleria d’Arte Moderna di Verona, che la giunta presieduta da Flavio Tosi vuole alienare o scambiare, nel tentativo di incamerare l’ingente valore dell’immobile. Ma andiamo con ordine.
È l’agosto del 1935 quando Achille Forti lascia alla propria città il palazzo che porta il suo nome affinché diventi sede di una costituenda galleria che ospiti le “belle arti”. Il colto botanico è senza eredi e le Leggi razziali – Forti è ebreo – saranno promulgate dal Re solo qualche anno più tardi. Passeranno quasi cinquant’anni prima che la città abbia la propria galleria, sebbene a partire dal secondo dopoguerra non siano mancati spunti e riflessioni. “Ancora negli anni ‘70”, racconta Massimo De Carlo della Galleria dello Scudo e presidente dell’Associazione Nazionale delle Gallerie d’Arte, “la città era ancora prevalentemente agricola e non aveva ancora compiuto quel salto, culturale ed economico, che la porterà nel decennio successivo a essere uno dei centri più sviluppati del nord Italia”.
È nel 1982 che la Galleria d’Arte Moderna apre al pubblico, e a dirigere l’istituzione viene nominato Giorgio Cortenova, a quel tempo insegnante presso l’Accademia di Bologna. “La città è molto reattiva e comincia presto l’attività espositiva, con formule assolutamente innovative come la collaborazione tra pubblico e privato per la produzione e l’organizzazione di mostre, a quel tempo ancora osteggiata dalla quasi totalità del mondo culturale”, prosegue De Carlo.
A partire dalla metà degli anni ‘80 la Galleria si espande e comincia a essere dotata di un fondo per l’acquisto e nel 1988 comincia il restauro della struttura (che proseguirà fino al 2001), Il cortile di Palazzo Forticon un costo di circa quindici miliardi di vecchie lire. Gli anni ‘90 sono centrali nello sviluppo poiché si susseguono una serie di mostre su alcuni dei protagonisti storicizzati dell’arte moderna che vengono prese d’assalto dal pubblico e nel contempo trovano il consenso della critica (è il caso di Picasso in Italia, delle retrospettive su Klee, Kandiskij, Toulouse-Lautrec…) e così palazzo Forti si accredita sul panorama nazionale come un luogo in cui è possibile vedere mostre di qualità con nomi importanti.
Accanto a questa attività in prospettiva storica prosegue invece la proposizione di artisti emergenti, ma molto spesso – va segnalato – le scelte paiono discutibili, e spesso anche non al livello della sede. Negli anni successivi prosegue la rassegna di grandi mostre, con successi che trascinano in città folle di visitatori (per Malevich e le sacre icone russe, ma anche per La nascita delle avanguardie e La creazione ansiosa).
È in questo contesto e con i tagli ai Comuni dovuti al patto di stabilità che già l’amministrazione precedente a quella in carica pensa a un collocamento alternativo per la galleria. “Non dicono il vero coloro che affermano che l’idea di mettere in vendita il palazzo sia solo della giunta attuale”, racconta De Carlo, “poiché già nel 2007 si ventilava questa proposta”. Il progetto diventa concreto dopo le elezioni del 2008, quando la Lega Nord vince le elezioni e si insedia la giunta guidata da Tosi: si mette all’asta il palazzo e si trova una sede, tra quelle in possesso del Comune, adeguata per l’attività espositiva, mentre i 65 milioni di euro che vale il luogo possono essere utilizzati dall’amministrazione per altri fini.
Il luogo più adeguato (tra le smentite e i ripensamenti) pare Palazzo della Ragione. È in questo frangente che si forma il comitato Per l’amata Verona, presieduto da Augusto Forti, erede diretto del donatore e consigliere culturale dell’Unesco, e sostenuto, tra gli altri, dall’architetto Giorgio Forti (il cognome è una coincidenza). Il comitato decide di opporsi al cambio di destinazione d’uso del palazzo necessario al Comune per la messa all’asta e ricorre al giudice per impugnare l’atto; parallelamente viene portata avanti una campagna di raccolta firme in cui non mancano le adesioni importanti nel mondo della cultura. Qualche nome? Salvatore Settis, Lionello Puppi, Rita Levi Montalcini, Vincenzo Cerami, Danilo Mainardi, ma anche Carol LeWitt, vedova dell’artista americano di cui il palazzo conserva uno splendido murale che rischia di andar perduto.
In polemica nel frattempo con l’amministrazione che gli chiede una riduzione di budget a favore del progetto di portare con Linea d’Ombra di Marco Goldin il Louvre a Verona (il progetto fallirà per inadempienza comunale nell’esecuzione di alcuni lavori di messa in sicurezza della sede espositiva del Palazzo della Gran Guardia; nel dicembre 2008, accantonata l’ipotesi Goldin, sarà invece siglato il nuovo accordo con l’istituzione francese, benedetto dal Ministro Bondi), il direttore Cortenova si dimette. In un attimo la città si trova senza un progetto certo e senza una testa al posto di comando, mentre non sembrano farsi avanti possibili partner per un’eventuale vendita.
Giorgio Cortenova
È amareggiato e laconico sulla situazione Giorgio Fasol, uno dei maggiori collezionisti di arte contemporanea italiani e membro del comitato di ArtVerona, che ha recentemente ritirato le opere in deposito alla Gam (tra cui importanti lavori di Cattelan e De Dominicis): “Il problema è che questa amministrazione pensa che l’arte e la cultura siano qualcosa in più e mancano idee e progetti in merito. Servirebbe una classe politica di livello, che abbia fatto almeno un viaggio al di fuori della città a vedere come lavorano altre istituzioni in giro per l’Europa”. Anche Hélene de Franchis, titolare della Galleria Studio La Città, non è d’accordo con le scelte dell’amministrazione, mentre il meglio lo dà Vittorio Sgarbi, che in un articolo chiede al sindaco se vuole farne una discoteca piena di “drogati e puttane”.
Ciononostante, gli ultimi giorni hanno parso delineare una soluzione, sebbene non siano chiare le modalità con cui alienare l’immobile. Nella migliore delle ipotesi la Gam sarà ospitata, in forma ridotta, a Palazzo della Ragione (che, per fare di necessità virtù, secondo Fasol si potrebbe trasformare in una kunsthalle, “se vi fosse la sensibilità necessaria”). Voci insistenti dicono che potrebbe farsi avanti la Fondazione CariVerona, la quale potrebbe permutare con il Comune Palazzo Forti in cambio di un’area vicina alla Fiera: in questo modo la Fondazione potrebbe garantire l’utilizzo a scopi culturali. No comment da parte di Gino Castiglione, vicepresidente di Fondazione Domus (costola di CariVerona che si occupa specificatamente di arte moderna), il quale però conferma come la Fondazione madre stia procedendo ad acquisti nel campo dell’arte contemporanea.
Che sia l’ennesimo passo verso l’esposizione della propria collezione? Lo dirà la città, se saprà trovare una soluzione adeguata con i tempi e con il prestigio economico; lo diranno i giudici visto che il parere espresso prima di Natale è solo un pronunciamento d’urgenza e una vera sentenza si aspetta quest’anno. Il migliore augurio è che queste difficoltà si trasformino, per l’arte e per il capoluogo scaligero, in opportunità. Utopia?
Il cortile di Palazzo Forti
Giorgio Cortenova, ci racconti com’è cominciata la sua avventura alla guida di Palazzo Forti.

Tutto è iniziato nel 1982, grazie a un concorso nazionale che mi strappa dall’insegnamento e dalla critica militante. Senza rimpianti. Verona mi ha accolto con calore e stima, e dopo sei mesi di preparazione abbiamo aperto la galleria, con una serie di mostre dedicate a maestri italiani come Capogrossi, Leoncillo, ma anche al design con Alessandro Mendini, oltre che alla collezione dell’Ottocento.

E con che risultati?
È stato sin da subito un successo, tanto più se si considera che eravamo negli anni ’80. La mostra di tutte le sculture di Degas, le antologiche di Klee e di Kandiskij hanno procurato le prime code italiane, con un numero di visitatori paganti che ha superato 190mila nel caso del maestro russo. La media dei visitatori durante la mia gestione è stata di quasi 100mila all’anno. Cifra incredibile se si pensa ai budget.

Numeri da fare felici gli assessori!
Sì, ma non sono questi i probabili meriti della mia gestione. Piuttosto sono felice che le mostre, come attestato dai cataloghi, siano state frutto di studi, ricerche, di tesi sostenute e dibattute. Si pensi solo a rassegne come La Nascita della Modernità, Malevich e le icone russe, La Creazione Ansiosa o la recente Il Settimo Splendore, che per certi aspetti hanno fatto scuola. E poi ho creato una collezione permanente d’arte contemporanea esposta nelle sale del piano terra (con opere tra gli altri di Cindy Sherman, Louis Bourgeois, Sol LeWitt) che oggi costituisce il fiore all’occhiello della galleria.

Dicono che sia stato un uomo solo al comando. Fa autocritica?
Non la faccio, mi sa troppo d’ipocrisia, di comitato centrale del soviet!
Giorgio Cortenova alla vernice dell’ultima mostra curata a Palazzo Forti
Come ha lavorato con le amministrazioni?

Ho ben lavorato con esponenti di tutte le forze politiche. Devo dire che il ritorno d’immagine e di pubblico mi hanno spianato la strada. E molto più spesso di quanto si creda posso testimoniare che a Verona ho vissuto in un clima di rispetto per l’autonomia della cultura. Almeno fino a ieri…

Da cosa sono nate le difficoltà con questa nuova amministrazione?
Questa giunta non apprezza la cultura, che prende in considerazione solo in maniera strumentale per dare visibilità ai politici, sindaco in testa. È incredibile l’incapacità di dialogo dell’assessore alla cultura, per la quale l’arte è di sinistra, comunista e demenziale. Che le pare?

E Goldin?
Lui fa il suo mestiere, che non è il mio e poco ha a che vedere con la cultura. Quando mi sono dimesso non l’ho fatto per l’annunciata mostra del Louvre, ma piuttosto perché l’iniziativa azzerava pressoché tutti i fondi dei musei cittadini e tutti i successivi progetti.

E cosa pensa dell’idea di mettere all’asta Palazzo Forti?

Qualsiasi scelta deve presupporre una condivisione e deve essere il risultato di un’elaborazione d’idee. In questo caso si disattende una donazione testamentaria senza né rispetto né progettualità: quanto di peggio si possa immaginare! Ma d’altronde cosa aspettarsi da un’amministrazione che pensa di spostare l’Arco dei Gavi di epoca romana che si affaccia sull’Adige a fianco di Castelvecchio, per farne un parcheggio?
Medhat Shafik - Mesopotamia - veduta dell'installazione presso Palazzo Forti, Verona 2007
Perché la decisione di dimettersi?

Mi sono dimesso per poter lottare, nel momento in cui avrei dovuto firmare la delega di altri 350mila euro a favore della mostra Louvre/Goldin rispetto al mio budget, dopo averne già “concessi” altrettanti. Non ho firmato e mi sono dimesso, conquistando la libertà di esprimermi!

La poltrona di direttore della Galleria è ancora vacante. Chi vedrebbe giusto in quel ruolo? Con che progetti?
Un’amministrazione oculata baserebbe la sua forza sul patrimonio di competenze esistente a Palazzo Forti, sulle collaboratrici e sui collaboratori che hanno lavorato per anni al mio fianco.

I suoi progetti nel nuovo incarico?
Non ho ancora nessun incarico ufficiale, ma al momento i progetti non mancano. Ora sto lavorando ai sei volumi della mia storia dell’arte, in uscita nell’autunno di quest’anno. Non ho mai lavorato tanto.

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daniele capra


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 55. Te l’eri perso? Abbonati!

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