06 gennaio 2010

libri_interviste Il territorio magico (le lettere 2009)

 
Correva l’anno 1969. E in soli quattro giorni - e quattro notti - Achille Bonito Oliva scriveva il suo primo libro da critico d’arte. Poi però ci vollero due anni per vederlo stampato. E, ad attendere le prime copie alla Stazione Termini di Roma, c’erano personaggi come Vettor Pisani e Gino De Dominicis...

di

Il territorio magico è il tuo primo libro e un manifesto
del tuo modo di intendere il lavoro del critico d’arte. Prima di parlarne più
in dettaglio vorrei ripercorrere gli inizi della tua attività, i passaggi che
hanno preceduto e accompagnato la sua pubblicazione, le relazioni, il paesaggio
intellettuale in cui eri immerso mentre lo scrivevi.

È iniziato tutto a Napoli, nella Saletta Rossa della
libreria Guida, a Portalba, dove a metà anni Sessanta si organizzavano
conferenze di personalità della letteratura o della cultura, da Kerouac a
Ginsberg, Moravia, Sanguineti, Brandi, Barthes ecc. Io ero un giovane poeta
sperimentale, partecipavo ai dibattiti, parlavo, discutevo. Giulio Carlo Argan
venne a fare una conferenza sul suo libro Progetto e destino, io intervenni, si
creò un dialogo. Fu un colpo di fulmine.

A Roma arrivi in pieno ‘68, un momento cruciale anche
per la trasformazione dello scenario artistico. Qual era la situazione della
critica d’arte in quegli anni?

Nella critica il “papa” era Argan, un primus inter
pares
con Cesare
Brandi e Palma Bucarelli. Poi c’erano Calvesi, Menna e Boatto e poi la mia
generazione.

Vettor Pisani - Vergine Nera - veduta dell'installazione presso la Galleria Cardelli & Fontana, Sarzan (SP) 2007Alla distanza generazionale che tipo di differenza di
cultura, di sensibilità corrispondeva?

La generazione subito precedente la mia aveva certamente
spinto l’orizzonte in avanti, verso la pop art, il minimalismo, verso l’arte
americana ecc., ma rimaneva una generazione di accademici, di studiosi che
accettavano il proprio destino diciamo così “laterale” rispetto alla centralità
e al protagonismo degli artisti. In una situazione che diventava del tutto
internazionale la mia generazione è la prima che ha il “passaporto”, in senso
metaforico ovviamente, che viaggia da subito, che va in America e vede i
fenomeni artistici in una dimensione globale. E poi per un tratto di vitalità
mia, di senso del gioco, e forse grazie al fatto che provenivo da una scrittura
più libera come quella letteraria, ho cominciato a spingere verso un maggiore
protagonismo del critico. Vivevo sistematicamente con gli artisti, in un
dialogo costante. Era un momento di grande fervore. Stavamo insieme sempre:
mattino, pomeriggio, sera e notte. E parlavamo, era uno scambio continuo, un’intimità
culturale e umana.

Con quali artisti ti sentivi in particolare sintonia in
quel momento?

Anzitutto Gino De Dominicis e Vettor Pisani, che
rappresentano uno spostamento rispetto al poverismo tutto giocato sull’associazione
di materiali naturali e su una memoria post-futurista; le loro strategie, le
loro scelte, non rientravano nel background teorico di Celant.

Potremmo dire che De Dominicis e Pisani anticipino
quella disposizione, quell’“impulso” allegorico che segnerà l’arte dei decenni
successivi e la stagione postmodernista?

Sì, c’era un aspetto allegorico, ma anche una riflessione
metalinguistica. Mentre gli artisti dell’Arte Povera si illudevano, in qualche
modo, di abbreviare ogni distanza, deculturalizzando pittura e scultura,
uscendo in spazi alternativi, Vettor e Gino lavoravano solo nelle gallerie ma
portandovi uno spessore, una profondità, una memoria che ripercorreva la storia
dell’arte.

Il territorio magico è il frutto di tutta questa
prima tua stagione. Un libro che avrebbe dovuto chiudere il decennio anziché
aprire quello successivo, se non sbaglio.

Sì, il libro doveva uscire nel 1969 con Marcello Rumma,
nella collana diretta da Menna, lo stesso anno di Arte Povera di Germano Celant.

Gino De Dominicis - Senza titolo - primi anni ’90 - tecnica mista su tavola - cm 259x123 - coll. Liliana Maniero, RomaPerché il libro uscì solo due anni dopo?
Perché purtroppo Marcello Rumma morì. Il libro lo pubblicò
così più tardi Ferruccio Marchi del Centro Di, un editore con cui ho avuto un
lungo sodalizio, come dimostrano in quegli anni i cataloghi di molte mie
mostre, da Amore mio a Montepulciano a Vitalità del negativo e Contemporanea a Roma. Ricordo che andammo io,
Gino De Dominicis, Vettor Pisani e Fabio Sargentini ad attendere il treno da
Firenze che portava le primissime copie del libro. Lo presi in mano per la
prima volta sul marciapiede della stazione Termini…

Mentre lo scrivevi avevi già in mente la struttura
generale, un “piano” del libro? Sei partito da appunti, materiali, testi già
scritti?

L’ho scritto tutto d’un fiato! Ti posso dire in quanto
tempo? Mi credi? Quattro giorni e quattro notti. Giuro. Scrivevo a mano e non
andavo mai a capo, mettevo solo una sbarra. Capito che furor? Ero carico di molte cose viste,
di viaggi ecc.

Che genere di “magia” è quella di cui parla il titolo?
Il “territorio magico” – come sempre per me il titolo è
metà dell’opera – è un concetto che ha molti riferimenti, da Lévi-Strauss a
Melanie Klein ad esempio. L’ho scelto pensando a quel che era maturato negli
ultimi anni ‘60, al tentativo di correggere una parzialità, di ristabilire
attraverso l’arte una totalità riparatoria. Era molto evidente che la ricerca
di nuove forme passasse attraverso i valori della processualità e mi sembrava
che gli artisti tendessero così a concludere la lunga marcia di avvicinamento
dell’arte alla vita. Tutti i nuovi linguaggi artistici aggiornati prevedevano
all’epoca una forma di sconfinamento. E mi sembrava che un titolo come Il
territorio magico mi permettesse di lavorare sotto l’ombrello protettivo di un
concetto culturale che esulava da un’idea di arte come laboratorio di nuove
forme e introducesse, accanto al concetto di nuova estetica, soprattutto una
nuova etica del fare e del vivere. Anche la successione delle immagini segue
quest’idea: arte, vita, comportamento, musica, danza, teatro…

Nel libro tratti i protagonisti dell’architettura
radicale – Archigram, Archizoom, Superstudio ecc. – e sono numerosi, come
ricordavi prima, i rimandi a esperienze diverse, ad esempio la musica
sperimentale e la danza. Questo accento su una pluralità di linee di ricerca mi
sembra un’altra costante del tuo lavoro lungo tutto il corso degli anni ‘60.

Sì, e questo conferma la strategia filosofica e teorica
del libro, che è aprire il discorso dell’arte a tutti gli altri apporti e allo
stesso tempo mostrare il retroterra comune a tutte queste esperienze, costruire
la storia dell’arte con un’ottica interdisciplinare: fotografia, musica,
cinema, danza, architettura… Questo è stato il filo conduttore delle mie
mostre di quel periodo, da Amore mio a Contemporanea, ma anche in seguito, ad esempio nella mia Biennale di
Venezia, nel ‘93, in cui avevo invitato Wim Wenders, Peter Greenaway, Bob
Wilson, Derek Jarman, e fino a oggi.

Achille Bonito OlivaSi potrebbe dire che Il territorio magico rappresenti l’individuazione
di una nuova identità del critico in un contesto artistico in cui la sua “autorità”,
se mai è esistita, evapora di fronte all’istanza autocritica e autoanalitica
dell’arte concettuale?

Sì, è chiaro che nel momento in cui con il libro indago l’arte
fuori dai suoi generi canonici, fuori dal laboratorio sperimentale, reinvento
anche il ruolo del critico, lo ridefinisco a partire da una posizione non più
distaccata, ma da protagonista. Era il primo momento di un’azione che per me si
è poi sempre attuata attraverso tre livelli di scrittura: saggistica,
attraverso i libri; espositiva, attraverso le mostre; comportamentale, con la
strategia sociale dentro e fuori il sistema dell’arte.

Questo rinnovamento della figura del critico, che tende
ad azzerare la funzione giudicante a favore di quella partecipativa e creativa,
era anche un modo per realizzare finalmente la vecchia idea del “critico come
artista”?

Era un modo per mettersi in gioco direttamente, per
rinnovare gli strumenti, la scrittura, per allargare la visuale a tutto quello
che la critica accademica aveva considerato non degno di attenzione. E dunque
anche il comportamento doveva diventare un “testo” e il critico doveva entrare
a far parte fisicamente del paesaggio dell’arte.

Che pensi di quell’altra idea secondo la quale non si
può essere critici o interpreti se non della propria generazione?

Non credo sia vero. Ho scritto un libro su Duchamp e un
saggio su Arcimboldo. Un libro sul manierismo, ma non ho mai conosciuto
Pontormo, Parmigianino o Beccafumi. Ho fatto mostre storiche e teorizzato la
Transavanguardia. Quello di cui parli è qualcosa di legato all’idea di
militanza, è il destino effimero del testimone…

Del compagno di strada?
Di chi si pone solamente come compagno di strada. Io al
contrario vedo il critico come una figura totale, portatrice di un’identità più
completa e più complessa che non può essere semplicemente funzionale a un’informazione
a tambur battente. E questo è stato proprio Argan a insegnarmelo. Io credo di
essere un critico totale che pratica la militanza, ma che ha anche memoria,
cultura storica, letteraria, teorica.

Achille Bonito Oliva - photo Archivio GarghettiNel 1972 pubblichi su Domus un testo un cui parli per
la prima volta di “sistema dell’arte
”, un concetto che tiene insieme le pratiche
artistiche, la critica, il collezionismo, gli aspetti istituzionali e
curatoriali. In fondo questo “territorio”, non più magico e anzi molto profano,
è diventato ai nostri giorni la dimensione discorsiva delle opere d’arte…

Per arrivare alla situazione di oggi, a un sistema ormai
diventato globale, è stato necessario un processo per tappe, che ha visto in
ognuna il rafforzamento di un anello. Negli anni ‘50 c’è la nascita delle
gallerie, negli anni ‘60 e ‘70 al centro della scena sta la processualità degli
artisti. Negli anni ‘80 l’anello forte è invece la critica, come nel caso del
mio lavoro con la Transavanguardia; negli anni ‘90 il collezionista e infine ai
giorni nostri il museo.

La spettacolarizzazione dell’arte, tipica dei nostri anni,
non significa l’indebolimento, o l’azzeramento, del ruolo del critico? Non
pensi che un po’ ovunque, e certo non solo nell’arte, la critica abbia oggi
smarrito la sua funzione?

Non esiste una funzione della critica: esiste l’indispensabile
azione del critico che elabora teorie, sviluppa interpretazioni, dialoga con
gli artisti, rende visibili le sue idee attraverso le mostre. Anche in un
critico c’è un dimenticare a memoria, un processo creativo, seppure più
autoriflessivo, di costruzione nel tempo. Ogni mostra, ogni libro, ogni gesto
deve essere fatto con consapevolezza culturale ma anche, se mi permetti, con un
atteggiamento profetico, con il coraggio dello sconfinamento. Che oggi
significa bucare la pellicola omologante del consumo che rende tutto simile e tutto
intercambiabile.

a cura di stefano chiodi

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n.
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Achille Bonito Oliva – Il territorio magico.
Comportamenti alternativi dell’arte
Le Lettere, Firenze 2009 (II ed.)
Pagg. 280, € 25
ISBN 9788860872784
Info:
la scheda
dell’editore

[exibart]


4 Commenti

  1. …Ogni mostra, ogni libro, ogni gesto deve essere fatto con consapevolezza culturale ma anche, se mi permetti, con un atteggiamento profetico, con il coraggio dello sconfinamento. Che oggi significa bucare la pellicola omologante del consumo che rende tutto simile e tutto intercambiabile.
    Suona come un manifesto.
    Bella intervista!

  2. Achille Bonito Oliva è un personaggio affascinante, riesce a essere considerato un critico d’arte contemporanea anche se la contemporaneità di cui parla è sempre la stessa che da 48 anni è chiusa nel suo microcosmo autoreferenziale.E’ bello ascoltarlo quando parla della sua esperienza personale perchè è un pullulare di storie e incontri interessanti ma da vecchio Senatore della Storia dell’arte Italiana quale è, per me è poco credibile nelle sue interpretazioni sul linguaggio artistico contemporaneo. Un primo passo per riallacciarsi al mondo presente ,sarebbe quello di non ripetere sempre le stesse cose dette e vissute più di quarantanni fa: Il sistema dell’arte,la transavanguardia, le battute di Totò.
    C’è dell’altro !

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