29 novembre 2001

Il linguaggio non muore mai Intervista a Valéry Grancher

 
Un artista concettuale che ha trovato nell’immaterialità di Internet il campo ideale per le sue sperimentazioni. I temi che indaga sono quelli complessi del tempo, dell’identità e della memoria al tempo della Rete. Valéry Grancher si racconta in una lunga intervista...

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Sei stato uno dei primi net artisti a lavorare con le web cams. Cosa rappresentano per te: la possibilità di vedere posti lontani – abbattendo le barriere spaziali- l’esperienza del tempo reale o una sorveglianza continua?
Ho usato le webcam in progetti come Webscape perché danno la possibilità di vedere contemporaneamente luoghi lontani situati in diversi punti del nostro pianeta. Questo crea un nuovo tipo di spazio, uno spazio mediatico. E’ il cyberspazio, dove il tempo è un lungo istante di 24 ore che possiamo vivere secondo per secondo. E’ uno strano paradosso: quando guardi le immagini trasmesse dalle webcams, cliccando sulle cifre che compaiono nel mio progetto Webscape, vedi scene che sono avanti di 8 ore nel futuro, ad esempio se guardi Tokyo, o 9 ore nel passato, se invece si tratta di Los Angeles.
Questa esperienza basata sulla globalizzazione e sul tempo reale incarna quello che Paul Virilio chiama glocality. Navigando siamo di fronte al nostro PC, ma guardiamo differenti luoghi contemporaneamente. Le webcam definiscono un nuovo tipo di cyberspazio che si basa sul tempo reale, un nuovo tipo di spazio che implica anche un diverso tipo di temporalità. Sappiamo infatti che le nostre esperienze soggettive si basano sull’interazione tra la nostra mente, lo spazio e il tempo. E anche la memoria e l’identità sono basate su queste dinamiche. La domanda quindi è: come si stanno evolvendo a contatto con i nuovi media? Questo è il punto.
Da una parte i media ci portano nuovi simboli e nuovi modi di fare esperienze, ma d’altra parte hanno l’indubbia funzione di sorvegliare! Questo significa che questo nuovo tipo di spazio paranoico che sta nascendo ci mette a contatto con una duplice problematica, che è quella che cerco di indagare nelle mie opere.

Quando hai iniziato ad utilizzare Internet come piattaforma per il tuo lavoro e come ha cambiato il tuo punto di vista?
Ho cominciato a lavorare con Internet nel 1993-94 con progetti basati sullo scambio di e-mail come Alone e Topoi. In entrambi i casi le e-mail venivano poi stampate e usate per creare installazioni fisiche e archivi. Questo per me significava l’elaborazione di una nuova esperienza molto concettuale: cercavo di studiare l’interazione tra esseri umani dal punto di vista estetico. Questa sembrava creare una strana mitologia della vita quotidiana che io trovavo molto poetica. Preferii usare Internet piuttosto che altri mezzi di comunicazione perché a quel tempo era molto più economico del fax o del telefono e mi permetteva di comunicare a livello planetario.
Nel 1996, in occasione della mia prima mostra personale in un museo, al Centro d’arte contemporanea CAPC di Bordeaux, creai il mio sito web : Nomemory. Il sito era un’opportunità di creare opere d’arte immateriali e i due lavori di cui parlavo più sopra, si trasformarono da installazioni in archivi virtuali. A quei tempi anche Muntadas aveva creato il suo The File Room. Siamo entrambi artisti concettuali e indagavamo sugli stessi temi. Quando fondai Nomemory, nel 1996, cambiarono molte cose per me perché curatori e critici potevano finalmente vedere le mie opere concettuali e immateriali in uno spazio anch’esso immateriale. Era una specie di memoria, ma poiché la memoria umana è basta sull’amnesia e questo tipo di memoria è invece frutto di un meccanismo di accumulazione, decisi di chiamare il sito Nomemory.
Sono stato il primo in Francia a fare questo tipo di lavoro e due anni più tardi le mie opere cominciarono ad essere esposte nel mondo in alcuni dei maggiori musei: in Australia, Giappone, Francia, Germania etc..
Internet non ha cambiato la mia visione estetica perché sono dagli inizi un artista concettuale. Il mio approccio all’arte era molto congeniale alla Rete e la Rete ha dato “corpo” alla mia produzione.

Hai una tua personale idea su come esporre la net art?
Credo di si. Quando si tratta di un opera esclusivamente web chiedo alla galleria o al museo di mostrare le mie pagine web sul loro sito. Ho realizzato anche delle proiezioni a parete dello schermo del computer collegate in Rete e interattive grazie al sistema touch screen. A volte faccio video installazioni connesse a Internet, delle internet installations.

In che modo i progetti web possono essere esibiti in uno spazio reale?
Attraverso oggetti specifici che posso progettare, con installazioni, proiezioni. Di sicuro non posizionando qualche imac su una scrivania, sarebbe stupido. Credo che volendo esporre la net art in uno spazio fisico si debba pensare a modalità mirate per farlo. Per me è un’opportunità di progettare oggetti e ambienti specifici. Mi capita di organizzare un ambiente con un bell’arredamento, diversi schermi e media, trasformando il tutto in un’installazione ipermediale.

La net art ha a che fare con software e codice, quindi con il linguaggio, in qualche modo. Quanto è importante il linguaggio nella tua arte?
Con il software e il codice, l’uomo ha inventato un linguaggio che si può consumare come un prodotto ed è la prima volta che succede nella storia prima dell’avvento dei computer. Questo avviene perché nell’informatica abbiamo a che fare con un meta-linguaggio, non con un linguaggio. Il linguaggio per l’essere umano è la base di tutto. Cosa sarebbero l’identità, la percezione, la memoria e la realtà senza il linguaggio?
Dovrei scrivere un saggio per rispondere a tutte queste domande. Comunque io studio le dinamiche dell’identità, della memoria e dello spazio. Parlo dell’interazione e delle sue dinamiche. Per la mia arte il linguaggio è l’inizio di ogni cosa. Perfino la morte del linguaggio potrebbe dar vita ad un linguaggio. Il linguaggio non muore mai!

Dimmi qualcosa del tuo libro: qual è stato il tuo ruolo nella sua concezione e realizzazione?
Quando ho fatto la mia personale al Berkeley Art museum, mi chiesero di fare una pubblicazione con un budget molto basso, ma a me i cataloghi non piacciono. Contemporaneamente un’importante casa editrice, la Editions du seuil, e il ministero della cultura francesi volevano che pubblicassi una monografia sul mio lavoro, ma a me non piacciono neanche le monografie! Così chiesi loro di fare una partnership, interessante anche perché coinvolge istituzioni francesi e americane in uno stesso progetto. Volevo creare un oggetto più che un semplice libro. Il principio è molto semplice. Ho chiesto ad alcune persone e curatori che conoscono il mio lavoro di scrivere qualcosa e di scegliere le opere di cui volevano trattare. Poi ho chiesto ai visitatori del mio sito di mandare delle e-mail commentandolo, nel bene e nel male, e una parte del libro e dedicata a questi commenti.
Ho inoltre chiamato un designer, Michel Mallard, per progettare un oggetto che rappresenti il linguaggio del computer e il suo significato. Ho pensato di dare al libro la forma di un computer perché la Applechiama i suoi portatili powerbooks, un modo per dare legittimità culturale al loro prodotto utilizzando la metafora del libro. Io non ho fatto altro che invertire il processo: usare per il libro la metafora del computer. Ho anche chiesto a Michael di scegliere le schermate del mio sito da pubblicare e di collegarle al testo liberamente, secondo le sue preferenze.
Così il libro è il contrario di una monografia, è una raccolta delle diverse impressioni che le persone ricevono dalle mie opere. Ad esempio si possono leggere due curatori che tirano conclusioni opposte riguardo alle opere che hanno esposto. Questo è molto importante: non c’è una sola interpretazione di un’opera d’arte, ma molte. Una verità diversa per ogni persona che interagisce. Questo libro è su queste verità.

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Valentina Tanni

[exibart]

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