02 febbraio 2012

Apres Bologna. Anche il mercato va cambiato?

 
Prendiamo spunto dall'ultima edizione di Artefiera per sollevare questioni e problemi correlati al mercato dell'arte italiano. Gallerie e addetti ai lavori prendono la parola su economia, costi e carenza di uno sguardo internazionale. Perché anche in questo settore un po’ di cose vanno cambiate. L’Iva, il numero delle fiere, l’aggregazione tra queste. Ma anche altro. Il confronto inizia ora [di Matteo Bergamini]

di

Artefiera si è chiusa lunedì e forse quest’edizione non sarà ricordata per la sua vivacità, sebbene in molti, tra pubblico e galleristi, abbiano apprezzato il dimagrimento dei padiglioni. Ma a parte i problemi strutturali di una fiera che probabilmente risente dei suoi anni, le questioni più importanti riguardano proprio l’assetto del mercato in Italia. In un momento in cui tutto sembra dover cambiare, sono poche per ora le idee per intervenire su di esso: consociare in qualche modo Artefiera ad Artissima, tema caro alla direttrice della kermesse bolognese Silvia Evangelisti, cercando di rendere visibile il nostro mercato all’estero. L’idea di scommettere sui due rispettivi punti di forza: la sperimentazione torinese e l’aplomb mercantile di Bologna, avrebbe il merito di stringere le due realtà in un sistema più organico. Ma probabilmente non basta ed è poco fattibile. Per capire come muoversi, partiamo dall’andamento del mercato secondo i diretti interessati. A loro anche la parola se e come possono cambiare le criticità del sistema Italia.
In tutte le opinioni registrate prevale l’idea che la fiera sia un momento indispensabile nell’attività della galleria: per raccogliere nuovi contatti e dare visibilità ai propri artisti. Ma a quale prezzo? Studio Trisorio, Napoli, ne parla apertamente: «I costi salati degli stand risultano molto spesso difficili da ricoprire» e dello stesso avviso è Sara Zanin, della galleria z2o di Roma: «Quando una giovane galleria come la mia spende 20 mila euro per la fiera, quante foto deve vendere?» Ce lo chiediamo anche noi, soprattutto alla luce di partecipazioni di gallerie che in qualche modo un parterre di collezionisti lo stanno costruendo. Penalizzandone l’economia con costi eccessivi, in qualche modo si penalizza anche la possibilità di sperimentazione, come ha ribadito Lorenzo Poggiali di Poggiali e Forconi di Firenze: «Per cercare di tutelarsi i galleristi usano eccessiva prudenza, a scapito dei veri collezionisti che spesso scelgono il coraggio». E a scapito, aggiungiamo noi, della promozione di progetti ad hoc realizzati dagli artisti per le fiere. Già rientrare nelle spese sostenute è un successo. 

La prima debolezza del mercato italiano sta quindi nei costi eccessivi per partecipare alle fiere di serie A. Se poi sommiamo anche il fatto che ormai ogni città ha la sua fiera, con conseguente dispersione di un pubblico sempre più stralunato rispetto alle tendenze del contemporaneo, la situazione si delinea come un universo a un passo dal caos. «Troppe fiere ma anche troppe gallerie improvvisate che non hanno la cultura per scegliere al di là dei trend. Oggi bisogna impegnarsi molto e lavorare più di prima per scegliere i nomi che reggono», osserva Alessandra Bonomo. Ma non è ancora finita: Umberto Di Marino, gallerista napoletano, tira fuori anche il fattore imposte: «come fa una galleria di medie dimensioni che lavora su giovani italiani a sostenere il 21 per cento – tra poco il 23 – di Iva? Se la metà dell’incasso va giustamente all’artista, come sopravvive il gallerista? Va abbassata l’Iva, come ha lucidamente osservato Giorgio Fasol, altrimenti non si elimina il nero dall’arte. E basta poi con spendere soldi per gli eventi fuori fiera. Il collezionista che arriva dall’estero, le mostre che trova nei nostri musei probabilmente le ha già viste e chiede invece un’ospitalità più curata. Le risorse vanno concentrate qui, sostenendo i collezionisti e i galleristi che vengono in fiera a vendere, perché se vendono tornano, e chi ci guadagna alla fine è la fiera». 

Le assenze a Bologna di quest’anno sono state pesanti soprattutto simbolicamente. C’è chi ha paventato una sorta di blitz targato Miart per sottrarre i galleristi a Bologna. Massimo Minimi per la prima volta sarà a Milano, Kaufmann, Giò Marconi e Francesca Minini ci stanno da anni. Ma liti a parte, è necessario allargare il mercato. A Bologna come a Milano. Ecco il secondo nervo scoperto dell’asfittico sistema italiano. Non tanto, come qualcuno ha suggerito, rendere ad esempio Artefiera una vetrina di eccellenza italiana, ma aprire il sistema casalingo prima che imploda definitivamente – se crollano le fiere, viene giù tutto il sistema dell’arte italiano, ha ammonito Evangelisti – facendo sì che non si chiuda al mondo. Enrico Astuni ha le idee chiare: «Deve esserci l’impegno a portare più collezionisti stranieri e seguirli in maniera puntuale. Con il solo mercato italiano non si va da nessuna parte. Vedere che cosa accade in altre parti del mondo fa bene alle gallerie e agli artisti».
Come allargare quindi il debole sistema-Italia all’estero? Come iniziare a ragionare per portare una ventata di freschezza anche negli incassi? Vanno certamente costruite le condizioni favorevoli per un humus che renda magnetiche le fiere italiane anche per i collezionisti e i galleristi del resto del globo. Aprendo collaborazioni e partecipazioni. E questa diventa una questione spinosa che esce dal terreno degli stessi galleristi, che spesso vedono di buon occhio una fiera piuttosto che un’altra. Maurizio Rigillo di Galleria Continua non crede alla paventata ipotesi di un consociazione tra Artissima e Artefiera, ma alla necessità di avere manifestazioni che funzionino economicamente: «I collezionisti vengono e comprano se hanno un’offerta all’altezza. Il contesto, le mostre intorno contano, ma non sono decisive».

Quello che balza all’occhio, però, è anche la necessità di far superare alle manifestazioni fieristiche italiane l’approccio un po’ da strapaese che, più o meno, appartiene a tutte, escludendo Artissima che, tra visite guidate con gli esperti, progetti collaterali di artisti e seminari con i più grandi esponenti della cultura contemporanea, diviene un laboratorio che ha più a che fare con un progetto espositivo-curatoriale che non con una fiera in sé. Ma anche qui è necessario direzionare lo sguardo, per evitare di cadere nella trappola dei troppi orticelli che si curano come fossero gli unici e i più interessanti quando, in realtà, le primizie che sono a pochi chilometri da casa sono spesso ignorate.
Il prodotto italiano, seppur di eccellenza, deve trovare un canale di esportazione e di visibilità anche oltre i confini nazionali: perché Bologna anziché consociarsi idealmente con Artissima non propone un gemellaggio con qualche manifestazione extraeuropea? L’Italia, per le sue ridotte dimensioni geografiche ed economiche, non può aspirare a vivere solamente della propria ricchezza. Attenzione però: non stiamo parlando in termini di esterofilia spicciola, ma della capacità di uscire dall’autoreferenzialità che nel Belpaese abbonda. Non solo nelle fiere d’arte.

4 Commenti

  1. visite guidate??? “artissima che, tra visite guidate con gli esperti…”.
    visite guidate? VISITE GUIDATE??? ma ci rendiamo conto che le Visite Guidate portano i collezionisti solo dove il cicerone di turno vuole (perche’ magari ha il suo interesse a farlo) e gli altri vengono indirettamente targati come SERIE B? e i soldi li pagano lo stesso!!! ma andate in fiera voi e le visite guidate dei soliti noti

  2. “Il prodotto italiano, seppur di eccellenza, deve trovare un canale di esportazione e di visibilità anche oltre i confini nazionali: perché Bologna anziché consociarsi idealmente con Artissima non propone un gemellaggio con qualche manifestazione extraeuropea?”

    …ma se è proprio BolognaFiere ad organizzare SHanghai Contemporary e le gallerie italiane che partecipano sono al massimo tre… e spesso gli artisti proposti non sono neanche italiani!!!!

  3. Bene, ora la realtà:

    Qualità delle opere in fiera pessima; si salvano buone manifestazioni di ikea evoluta, un po’ di pittura per il “salotto di qualità” e alcuni valori consolidati (molta arte povera in giro). Perchè si dovrebbero comprare complementi d’arredo costosissimi il cui valore non corrisponde al valore del prezzo????? Prendere in giro i collezionisti come tra 1995 e 2009 non funziona più, è finita l’era P-ART-MALAT.

    Il 90% delle opere sono “fenomeni da baraccone” che devono colpire e sorprendere a tutti i costi…questo in un mondo, in un presente, molto più avanti e molto più difficile da sconfiggere sul campo della provocazione e della stranezza. Quando la CREATIVITA’ è così pilotata malamente e volgarmente diventa la peggiore BUROCRAZIA che in questo caso è pretenziosa e inutilmente costosissima (e quindi perde ogni gradiente artistico-creativo AUTENTICO).

    In questo calderone non si salva nessuna opera (neanche quel 10% di cui dicevo prima) e non perchè il MERCATO sia cattivo ma perchè non esiste argomentazione del Valore….quindi si tratta semplicemente di IKEA EVOLUTA (anche “di qualità” quando consapevole).

    Il mercato dell’arte, affrontato diversamente dai galleristi e dal sistema, potrebbe tirare come non mai come tirano molti mercati di lusso anche in tempo di crisi…

    I galleristi hanno venduto pochissimo mentre i costi di partecipazione sono esorbitanti (aumentati del 10% rispetto l’anno scorso con la scusa della maggiore selezione delle gallerie—mentre invece i soli due stand del contemporaneo erano motivati semplicemente dalla crisi..).

    lr
    http://www.whlr.blogspot.com

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui