03 febbraio 2012

Goodbye Mike

 
All'indomani della sua scomparsa, abbiamo cercato di tracciare una riflessione sulla poetica e le vicissitudini del grande artista americano. «Un avatar del potere», essenziale per fare di Los Angeles un capitale dell’arte contemporanea, come è stato detto. Ecco le parole di Letizia Ragaglia, che ne ha curato la mostra al Museion di Bolzano nel 2009, di altri critici, amici e artisti che lo ricordano tra “rumori musicali” e bambole di pezza

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Chi ha visto alcune opere di Mike Kelley, non l’assemblaggio visionario dei pupazzi al limite del trash, ma per esempio Educational Complex Onwards 1995-2008, esposto al Whitney, poi a Bruxelles e al Museion di Bolzano e soprattutto una foto dal titolo molto significativo, Blackout, scattata da un traghetto che percorreva il fiume Detroit, quasi del tutto nera a causa del cattivo funzionamento della macchina fotografica, forse non è si è stupito della tragica fine di Mike Kelley, morto quasi sicuramente suicida mercoledì scorso nella sua casa di South Pasadena, in California. Quella foto è un autentico buco nero, casuale ma poi accettato dall’artista, che lo interpretava come «simbolo del tempo mancante dei traumi repressi».
«Mike lavorava molto sui suoi ricordi, scavando nel disagio, nei traumi repressi causati dal sistema educativo americano. Il grande plastico in cui si presentava Educationl Compex Onwards 1995-2008, dove Kelley aveva ricostruito i luoghi delle sue esperienze scolastiche, esprimeva la sindrome della memoria repressa», afferma Letizia Ragaglia, co-curatrice della mostra esposta al Museion nel 2009.

«Era uno straordinario lavoro sulla psiche, qualcosa che in inglese si definisce come uncanny, in tedesco Das Unheimliche, idea freudiana che indica qualcosa apparentemente molto familiare, che ti appartiene e di cui sei attratto, ma che allo stesso tempo è vissuto come fortemente estraneo e che provoca una profonda repulsione». Kelley aveva integrato i ricordi mancanti, rimossi perché particolarmente traumatici, con Extracurricular Activity Projective Reconstruction,  gruppo di 365 videoinstallazioni  con le quali aveva aggiunto – spiegava lui – «le zone vuote come luoghi di abuso personale. I dettagli sono forniti dal materiale tratto dalla mia biografia personale, mescolato a citazioni di film popolari, cartoni animati e letteratura». 
È facile oggi cedere a prevedibili psicologismi e vedere in questo nodo irrisolto la causa della tragica fine di un artista di culto divenuto, non suo malgrado ma appositamente, un’icona dell’America trash e rimossa che galleggia nell’ambiguità di rifiuti materiali e psicologici, in una visionarietà molto vicina a quella di Paul McCarthy, artista con cui non a caso ha collaborato. Ma quelle opere sono brutalmente esplicite. Poi c’è la vita tormentata, allucinata di Mike Kelley, che all’inizio guarda all’Azionismo viennese, si interessa poi alle White Panthers e alla musica di Sun Râ e Iggy Pop e che dalla fine degli anni Settanta si dedica alla performance, rimanendo però «una persona molto dolce, gentilissima. La prima volta che l’ho incontrato è stato durante Documenta del ’97. Era lo stesso giorno della morte di Diana, a fine agosto, e si festeggiavano i cento giorni della manifestazione di Kassel curata da Catherine David. Lui era stato chiamato per fare un discorso. Ricordo la sua incredibile grinta, mi sembrava un artista che spaccava il mondo. Poi, conoscendolo da vicino, ho scoperto il lato profondamente umano del suo carattere», racconta ancora Letizia Ragaglia. 
     

Altri sono i ricordi che si aggiungono. Paul Schimmel, curatore capo del Museo d’Arte Contemporanea di Los Angeles, dove Kelley è presente con alcune opere nella collezione permanente afferma che: «Los Angeles non sarebbe diventata una grande capitale internazionale dell’arte contemporanea, senza Kelley. Di tutti gli artisti degli anni Ottanta, era quello che davvero ha stabilito una nuova identità per la sua generazione». Ma a Kelley non piaceva l’appellativo di bad boy, nonostante già nel 1994 Christopher Knight, critico del “New York Times”, lo avesse definito «un avatar del potere con un’umanità insita che ci fa riconoscere l’impurità radicale dell’esperienza umana. Le sue ricerche artistiche avvengono in luoghi bui e sporchi in cui i difetti, le linee di frattura e le carenze sono evidenti e di routine, ma in questo caso il guasto assume la commovente, fragile, bellezza talvolta anche straziante, che accompagna ogni perdita». 
Helene Winer, partner della galleria Metro Pictures di New York, ha confermato la teoria della depressione nonostante i suoi amici non lo lasciassero solo: «è una vergogna. Era un artista straordinario giovane, brillante, e molto influente». Avrebbe partecipato tra poco, per l’ottava volta, alla Biennale del Witney. Il “Los Angeles Times” sottolinea di nuovo l’aspetto psicopatologico: «i disordini fisici e psicologici hanno gettato le basi per le sue installazioni».

Al di là dei ricordi e celebrazioni che non paiono essere di circostanza, rimane una carriera artistica sui generis e particolarmente versatile. Mike Kelley, grande amore della gallerista Emi Fontana che da Milano si è trasferita a Los Angeles anche per stargli vicino, decolla veramente a metà degli anni Ottanta, prima in Europa e poi negli Stati Uniti, dove era nato nel 1954, in un sobborgo di Detroit. L’America non aveva ancora capito questo artista che disegnava spazzatura, che aveva fatto parodia dell’arte religiosa e della politica ispirando una schiera di giovani artisti tra cui la band Sonic Youth, che aveva utilizzato un suo lavoro come copertina dell’album Dirty del 1992.  

Inizialmente voleva diventare scrittore, ma dubita lui stesso del suo talento letterario così rivolse l’energie all’arte, alla pittura e alla musica, iniziando fin da ragazzo ad esibirsi in band proto-punk e, con gli artisti Jim Shaw, Niagara e Carey Loren, combinando una serie di operazioni che avevano a che fare con il rifiuto dell’establishment politico e utilizzavano una teatralità dadaista in stretto legame con la performance. Insieme a Tony Oursler fonda un altro gruppo artistico chiamato “La poetica”. L’artista ricorda: «Mike suonava la batteria e io cantavo. Entrambi venivamo da un’educazione cattolica, per questo avevamo legato in questa specie di gioco dove facevamo più che altro del rumore», una serie di oggetti scultorei realizzati con il suono. Ma Kelley ha il terrore del palcoscenico e ripiega sulle videoinstallazioni (oltre che su una serie numerosissima di altri media).
            

Nel 1980 diviene noto per aver lavorato con coperte all’uncinetto, bambole in tessuto e altri giocattoli di pezza recuperati  nei negozi dell’usato. Forse l’opera più famosa di questo filone è More Love Hours Than Can Ever Be Repaid del 1987, confusione di bambole di pezza, animali e coperte sparse su una tela: un modo per rappresentare una scena immaginaria dell’infanzia con un certo pathos viscerale.
Nel 1982 la svolta per il successo con Monkey Island, una performance-installazione allestita alla Metro Pictures e alla Rosamund Felsen Gallery nel 1983, originata da una visita dell’artista allo zoo di Los Angeles. Tra affermazioni internazionali e le solite detrazioni, la storia è continuata fino all’altroieri.
[m.b. – a.p.]

5 Commenti

  1. Cerchiamo di non vedere in uno spazio nero cose mitologiche e romanzate.

    Se Mike Kelley fosse stato palermitano “Michele Cheliaco”, in quel “NERO” avremo visto solo una macchina fotografica che non funzionava bene…..lo stesso sistema educativo americano ha formato tante persone FELICI E AMANTI DELLA VITA. Quindi?

    Evitiamo anche un certo colonialismo esterofilo che ci attrae a los angles incapaci di trovare artisti per le vie di Milano …(vedi emi fontana). In italia soffriamo ancora tutta una generazione folgorata, più o meno giustamente, da tutto ciò che viene dagli USA e sembra essere da BAD BOY….che palle!

    Kelley ha semplicemente contaminato negli anni 80 l’arte pop con la sua vita e con il presente(buona intuizione)….anche lui figlio di Warhol, insieme a tanti della sua generazione….niente di così eccezionale. Significativo, ma niente di chè, bravi gli americani a creare il mito ovunque, provincialotti tutti quelli che ci credono troppo….emi fontana compresa…

  2. Luca Rossi, sei sgradevole e banale. Mike Kelley è stato un grande artista, la tua polemica è meschina e patetica. Lascia perdere quello che non capisci.

  3. Il quotidiano inutile “magutt” Rossi non perde
    occasione per mettere in evidenza il suo sapere-mancante-sull’arte contemporanea.Sta un po’ di qua e un po di là e per questo, a sua insaputa, è molto divertente- inteso,che fa
    ridere- e atteso.Senza dubbio meriterebbe
    maggior visibilità, sopratutto quando c’è molta nebbia(non solo in Valpadana).

  4. • Caro Guido Pavesi, io starei un pò più attento a rilasciare giudizi assolutisti su determinati artisti. C’è di vero, e con ciò concordo con Luca Rossi, che siamo davvero una colonia americana assuefatta a modi di fare imposti e considerati “in” per cui chi non segue e condivide i dettami di certe proposte imposte a tavolino viene tacciato come incompetente e ignorante. La verità è un’altra. La critica, in questo caso potrebbe avere ancora il ruolo a risvegliare la riflessione piuttosto che scimmiottare e assopirsi ai margini di un sistema omologato.
    Cordialmente

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