05 marzo 2012

India e Sud America unite da un clic

 
La mostra ospitata presso l'ex Ospedale sant'Agostino di Modena mette in scena volti, storie e città, ma anche la natura spietata di mondi culturalmente lontani. A legarli non è più l'esotismo, ma l'essere i nuovi punti nevralgici del business dell’arte. Un fermento creativo che trova riscontri attraverso Buenos Aires Photo, San Paulo Photography Show o India Art Summit. A Modena però il focus è sulle radici coloniali, gli sguardi diversi di realtà [di Manuela de Leonardis]

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La scena artistica indiana è sostenuta da un’intensa attività espositiva locale, esportata anche attraverso kermesse itineranti come “Indian Highway” (recentemente approdata anche al MAXXI di Roma) e consolidata da collaborazioni transcontinentali, di cui è un esempio brillante la joint venture della galleria Nature Morte di New Delhi (diretta da Peter Nagy) con Bose Pacia di New York.

La pulsione nasce dalla creatività, ma anche dalla determinazione degli artisti stessi, consapevoli del cambiamento epocale di cui sono qualcosa in più che semplici osservatori.

«Questioni in gran parte legate al passato e al presente di popoli e genti che, pur depositari di tradizioni millenarie, guardano al futuro con entusiasmo e con la consapevolezza di poter essere presto protagonisti. Il tutto sullo sfondo di una natura possente e invadente, tanto generosa quanto spietata nel suo dare e prendere, per nulla domata, ma forse, nel bene e nel male finalmente addomesticata.», scrive il curatore Filippo Maggia nel catalogo della mostra “Decimo Parallelo Nord. Fotografia contemporanea da India e Sudamerica” (fino al 29 aprile), motivando così la scelta del trait-d’union tra due aree geograficamente, storicamente e culturalmente tanto distanti.

Dal subcontinente indiano (diaspora inclusa) e dall’America del Sud provengono, infatti, i ventidue artisti le cui opere (oltre cento tra fotografie, video, animazioni e installazioni) costituiscono l’acquisizione più recente della collezione di Fondazione Fotografia, curata da Maggia per la Cassa di Risparmio di Modena.

Una collezione di fotografia contemporanea internazionale che un pubblico sempre più ampio ha modo di conoscere attraverso le mostre (tutte gratuite) che si succedono dal 2007 nel grande contenitore dell’ex Ospedale Santo Spirito della città emiliana, rafforzate da un’attività correlata che include didattica, film e concerti.

Dopo i focus sull’Estremo Oriente, l’Europa dell’Est, l’Africa e il Medio Oriente – con la parentesi della straordinaria antologica di Daido Moriyama e l’omaggio alla fotografia storica di Ansel Adams, che sarà seguita in autunno dalla retrospettiva dedicata a Edward Weston (in collaborazione con il CCP di Tucson) – questa nuova ricognizione, apparentemente un po’ forzata, è un significativo passepartout per ampliare gli orizzonti geografici delle arti visive. Altro punto di forza della Fondazione Fotografia, l’organizzazione del Master di Alta Formazione sull’Immagine Contemporanea con una serie di workshop, a cominciare da quello tenuto da Nikhil Chopra.

Presente in Decimo Parallelo Nord con Yog Raj Chitrakar: Memory Drawing X, Part 2 (2010) –  installazione che contempla tre fotografie di Shivani Gupta, un grande disegno a grafite e pastello secco, la parrucca, il ventaglio e alcuni oggetti d’antiquariato, oltre che l’abito femminile tardo ottocentesco indossato dall’artista indiano durante la performance al Bhau Daji Lad Museum di Mumbai), Chopra partendo da elementi autobiografici mescolati sempre alla fantasia, ricorre alla performance per esorcizzare i fantasmi del colonialismo, ancora fortissimi nel suo Paese, e per esplorare in chiave critica tematiche legate al razzismo, esotismo, sessualità. Una lettura trasversale – la sua – in cui alla fotografia spetta il ruolo di documentazione della performance.

L’eredità coloniale – contrassegnata da tempi e modalità diverse – accomuna, del resto, tanto un’area che l’altra, e si riflette in lavori ora metaforici ora più esplicitamente legati alla documentazione sociale, come la serie in bianco e nero Las flores y las piedras (2010) dell’argentino Sebastián Szyd, nata dall’incontro con le vedove dei minatori del Serro Hermoso a Potosí (Bolivia): volti tipicamente andini, o “cholos”, come tuttora vengono chiamati gli indios con tono dispregiativo dall’elite bianca.

Sulla stessa linea il reportage di Dayanita Singh, Myself Mona Ahmed, che ha segnato l’esordio della fotografa indiana. In mostra sono esposte 21 foto del cospicuo corpus datato 1989-2001, focalizzato sul quotidiano di Mona, eunuco di Mumbai, «fuoricasta tra i fuoricasta»: quando, tra le mura domestiche, mostra i lividi delle percosse, ma anche mentre abbraccia la figlia adottiva, la scimmietta, il coniglio.

Sono stampe ai sali d’argento anche le due straordinarie fotografie della svizzera naturalizzata brasiliana Claudia Andujar, che segnano l’inizio del percorso espositivo. Fanno parte del progetto A casa (1972-76), realizzato presso la popolazione amazzonica degli Yanomami, il cui territorio è stato riconosciuto dal governo brasiliano anche grazie al contributo di attivista, oltre che di fotografa, di Andujar. Dai forti contrasti emerge un accento profondamente poetico che sembra, per un attimo, prendere le distanze dalla più canonica fotografia sociale, di cui è un esempio notevole il lavoro del fotoreporter Raghubir Singh (Jaipur 1942 – New York 1999), con l’uso magistrale del colore.

Sconfina in un linguaggio metaforico e onirico anche Adriana Bustos a cominciare dal titolo stesso di Antropología de la mula (work in progress iniziato nel 2007), giocato sul doppio senso del termine “mula”. Non solo l’animale più sfruttato dall’uomo, ma le donne usate nel traffico della droga, che stando alle ricerche dell’autrice costituiscono il 60% dei casi nella prigione di Córdoba. Nei dittici dell’artista argentina l’ambiguità è sottolineata dalla contaminazione dei linguaggi fotografia/disegno, bianco e nero/colore, sogno/realtà.

L’urgenza di esplorare le potenzialità della fotografia all’interno di più ampi orizzonti visivi è particolarmente sentita da artisti come Marco Pando e Fariba Salma Alam.

Il peruviano Pando è soggiogato dal fascino cinematografico (non a caso il primo cinema della città di Cajamarca apparteneva alla sua famiglia) quando realizza il video di animazione El Rey de las Montanas (2006), ispirandosi alla biografia del celebre cantante Lorenzo Palacios Quispe che ridisegna sulla pellicola. Una storia personale che diventa storia collettiva.

Alla memoria personale attinge anche Fariba Salma Alam, americana del Massachusetts ma di famiglia orginaria del Bangladesh con l’installazione di 16 mattonelle di ceramica (Send me a telegram, 2009), su cui è stampata un’immagine nata dalla manipolazione di foto dell’archivio paterno, che rimanda a luoghi e situazioni diversi. All’interno della moschea di Isfhan si colloca, infatti, una scena ibrida con giovani uomini in costume da bagno (fotografati sulla spiaggia di Coney Island), uccelli in volo e una donna in sari in primo piano: tutti maneggiano una macchina fotografica. La ripetizione speculare dell’immagine all’interno della composizione la trasforma quasi in pattern, in cui la presenza degli uccelli rimanda esplicitamente all’idea di migrazione, che contempla anche la modalità di comunicazione affidata – in un’epoca antecedente a internet – al telegramma, più sicuro della lettera, nell’incertezza dell’aritmia temporale tra partenza e presumibile arrivo.

Riprende le foto di famiglia – scattate dal nonno Umrao Singh Sher-Gil (1870-1954) – anche l’indiano Vivan Sundaram. Nei suoi fotomontaggi di gusto retro e dichiarata finzione storica, trovano spazio i complessi rapporti psicologici che legano i vari personaggi (la zia Amrita, pittrice, sua mamma Indira e il nonno stesso) alla cultura del tempo.

Con un’operazione inversamente proporzionale, Mauro Restiffe – fotografo brasiliano – ricorre al bianco e nero proprio per prendere le distanze dal reale, come vediamo nella serie Mirante #5 (2010) in cui la scena (momenti di svago in mezzo ad un paesaggio naturalistico) vengono isolati – cristallizzati – in una dimensione atemporale. Poetica e contraddittoria affermazione della natura – attraverso le foglie di un albero in controluce – uno dei quattro atti del film A Love Story (2010) del regista indiano Amar Kanwar: nella discarica di una periferia metropolitana dell’India, avvolta nella luce crepuscolare, si alternano momenti fortemente connotati di incertezza e precarietà. Un po’ come in Viaje a las Islas Hormiga (2008), installazione di Luz María Bedoya (l’artista peruviana è protagonista anche della personale Esercizi di utopia, a cura di Francesca Lazzarini alla Fondazione Collegio San Carlo di Modena), con il rumore costante di un motore e l’impatto di una barca che solca le onde. Nel video, l’inquadratura fissa sull’orizzonte si muove, stimolando nell’osservatore quel senso di nausea tipico di chi – in mare – s’imbatte nell’onda lunga. Le isole stesse diventano quasi una fantasia delirante, confermata anche dai booklets in cui vengono descritte non in termine di luogo fisico, ma di possibilità. Anche le tracce audio con le interviste a vari personaggi (un cartografo, un biologo marino, un capitano di nave), non sono particolarmente rassicuranti: nessuno ha qualcosa di più da aggiungere. Forse, quella sagoma del Paese, tracciata lievemente a matita in un angolo della parete, potrebbe essere l’auspicata password, ma il dubbio non trova pace.

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