31 luglio 2012

L’intervista/Gianluca Marziani La scultura c’est moi

 
Spoleto terra d'arte. Anzi, di festival. Oltre alla controversa kermesse di Sgarbi e il Festival dei Due Mondi, quest'anno si è affacciato sulla scena cittadina anche “+ 50 Sculture in città”, nato da un'idea del direttore di Palazzo Collicola, Gianluca Marziani. Che ha ripreso idealmente il filo rosso tracciato da Giovanni Carandente cinquant'anni fa. Ecco come sono andati i fatti, raccontati, e celebrati, direttamente da lui in questa intervista

di

Burri, Pomodoro e Consagra, e una schiera di artisti più giovani, più o meno famosi, tra cui Alex Pinna, Robert Gligorov e Michele Manzini, per riprendere un discorso sulla scultura, sull’installazione contemporanea, a cinquant’anni esatti dal progetto di Giovanni Carandente, che mise in piazza a Spoleto tutti i più grandi artisti dell’avanguardia internazionale. E che fece parecchio discutere, perché si trattava di un nuovo modo di interagire la scultura: non più una serie di statue, mezzibusti o equestri, da fruire con “deferenza”, ma il contemporaneo che si spalancava, che era reduce da interrogazioni parlamentari, di cui fu vittima proprio Alberto Burri nel 1959, con Grande Sacco, perché considerato troppo estraneo all’arte “tradizionale”. E invece Carandente portò a Spoleto, nel tessuto medioevale della città, Chillida e Fontana, Manzù e Moore, Paolozzi e Somaini, solo per citarne alcuni. La “poesia” si era espressa nel creare una nuova dimensione, una modalità di guardare alla statuaria, che sfuggisse ai dogmi codificati, al classico.
Oggi il nuovo direttore di Palazzo Collicola, Gianluca Marziani, prova a raccoglierne il testimone. Non un’impresa semplice, soprattutto perché se mentre nel 1962 il campo era sgombro da esperimenti di sorta, oggi si devono fare i conti con una serie di sfumature molteplici, che vanno dalla Public Art ai temi relazionali, che necessitano l’inclusione del pubblico e di un intervento realizzato ad hoc per il territorio. Una modalità di riproposizione che, insomma, deve fare i conti col presente. E che deve cercare di reggere l’impatto non facile con i grandi Maestri del Novecento. Abbiamo intervistato il curatore di “+50 – Sculture in città” per capire come tutto ha preso forma. Mantenendo un pensiero fisso: potrebbe Spoleto diventare la Münster italiana?

Cinquant’anni sono passati dalla prima edizione di “Sculture in città”: cosa vuole essere questa mostra? Un omaggio? Un contributo postumo?
«Volevo riaprire un dialogo filologico tra Spoleto e la scultura contemporanea, rinsaldando un legame che negli ultimi anni aveva perso organicità per colpe molteplici. Non ci dimentichiamo che qui hanno operato svariati giganti internazionali, maestri come Sol LeWitt hanno lasciato patrimoni in termini di opere e progetti, dovunque giro trovo memorie vive di Kounellis, Kosuth, Buren, Calder, Clemente, Ontani, Burri, Mochetti… “+50” parte proprio dal disegno della memoria per diventare una piattaforma con porte d’accesso laterali e due varchi principali: uno per alimentare il passato con la ricollocazione di alcune opere del 1962, la creazione di un archivio, la realizzazione di una mappatura del 1962 tramite totem fotografici nei luoghi in cui si trovavano le opere, l’altro per elaborare il presente attraverso la mostra estiva, il grande catalogo in preparazione, gli eventi collaterali previsti fino alla fine di ottobre, un convegno autunnale sulla scultura e nuove sinergie sul territorio. “+50” apre ufficialmente la vita futura di Palazzo Collicola, fatta di livelli molteplici che corrispondono ai vari piani dell’edificio: il nuovo Collicolab che sto dedicando a giovani e giovanissimi; la Collezione e la Biblioteca Carandente, che a breve verrà allestita dentro cinque sale del piano nobile, che rappresentano il patrimonio della memoria a cui si aggiungerà un nuovo archivio e una sala video; il Piano Nobile che permette i cortocircuiti tra passato e contemporaneità; il Piano Mostre che si dividerà in varie anime espositive. Proprio qui dedicherò una zona alla nuova collaborazione con la Fondazione Burri, al cui Maestro attualmente è dedicata una sala con i cellotex neri. Creerò nuove sale della Collezione e curerò una serie di mostre imprevedibili: su Richard Prince, poi un progetto su Sol LeWitt e la ricollocazione del doppio cerchio di Richard Serra. Ma ho già ospitato un intero ciclo di Luigi Ontani. Direi che non posso lamentarmi se penso ai budget modesti di cui dispongo».
             

A proposito, come e da chi è stata finanziata la manifestazione?
«La Regione Umbria è un partner importante che crede nel mio progetto strategico. Il Comune di Spoleto e la Cassa di Risparmio di Spoleto sono i due partner locali che hanno fatto il possibile per supportare il progetto in termini effettivi. Pochi soldi ma molta rete di supporto sul territorio, a conferma che le manchevolezze economiche a volte si possono superare con un network funzionale in termini di gestione tecnica. Credo di essere un caso unico sul territorio italiano: nell’estate in cui tutti i musei giocano al ribasso, ho costruito un evento espositivo importante e sostanzioso, ricco di strategie e indicazioni, corredato da tutto ciò che una mostra del genere deve avere. Ho davvero ottimizzato il poco che avevo, giocando su un costante equilibrio strategico, apprezzato dai molti soggetti che ho messo in campo. Non è un caso l’appoggio incondizionato del Festival dei Due Mondi: dopo aver pubblicamente allontanato Vittorio Sgarbi con le sue mostre discutibili: sono stato il primo a non accettare alcuna collaborazione con lui per difendere la filologia curatoriale del mio progetto, il Festival ha supportato le mie mostre come non aveva mai fatto per il settore arte».

Com’è nata l’idea del progetto 2012 di “Sculture in città”?
«Col mio insediamento da direttore. Ho subito immaginato il 2012 come momento centrale per le attività di Palazzo Collicola. “Sculture nella città” doveva essere la memoria fondativa, ma anche il volano energetico del presente. Ho ripreso il filo dialettico del 1962, usando le “parole visive” che era giusto recuperare, aggiungendo nuovi soggetti, nuovi aggettivi, nuovi verbi. L’intento principale intendeva focalizzare le differenze e non le somiglianze, capendo dove è andata la scultura in questi cinquant’anni, come sono cambiati i materiali e i linguaggi, le tematiche e gli approcci installativi. Ho scelto l’Italia per un intento di chiara difesa del territorio culturale, immaginando una selezione tra artisti delle ultime tre/quattro generazioni, senza alcun volere enciclopedico o compilativo. Mi sarebbe piaciuto produrre opere di artisti internazionali ma i budget non lo permettevano. Non sono un curatore che dice di avere certi artisti solo perché un collezionista ha prestato un’opera».

Giovanni Carandente aveva portato i più grandi protagonisti della scultura dell’epoca, creando una frattura nel modo di concepire l’arte negli spazi pubblici. Cosa significa oggi misurarsi con un tema del genere?
«Significa raccogliere la sfida più difficile che esista, ovvero, rendere l’intera città un museo diffuso dove tutto abbia un senso, dove ogni opera dialoghi con quel contesto, dove le sculture possano creare simbologie non solo estetiche. Era una sfida impervia, ma la città sta rispondendo con sensibilità e cura amorevoli. Volevo ragionare in termini aperti, senza limitare la scultura a materiali e tecniche classiche. L’antologica di Gligorov al Piano Mostre o la retrospettiva di Giovanni Albanese dentro la Collezione sono esempi riusciti per valutare cosa sia diventata la scultura nel suo status ambientale, polimaterico e combinatorio. Quando ho scelto di approfondire il tema del marmo, ho chiamato artisti come Michelangelo Galliani e Affiliati Peducci/Savini, cercando le ragioni più attuali di una materia continuamente rinnovabile. Stesso discorso con Gehard Demetz: volevo l’artista più bravo tra coloro che lavorano il legno e l’altoatesino mi sembrava la miglior risposta al caso. O il caso della facciata di Palazzo Collicola: ho pensato da subito ad Alex Pinna che ha ideato un intervento mimetico dal taglio dinamico. Non potevo fare scelte migliori».

“+50- Sculture in città” potrebbe diventare un festival? Un format futuro?
«L’idea su cui sto ragionando da tempo tocca la rinascita del Premio Spoleto, ovviamente ripensato in una chiave adeguata al momento storico, al territorio specifico, alla situazione internazionale. Il Premio si inserirebbe nel progetto più ampio di rendere Spoleto un laboratorio permanente per la scultura in tutte le sue declinazioni».
Definisce “+50-sculture in città” un progetto di Arte Pubblica o di scultura urbana? E può motivare la definizione?
«Preferisco parlare di arte diffusa. Mi piace pensare al territorio come ad una medusa: il cappello dell’animale è Palazzo Collicola, i filamenti sono tutti i luoghi che Spoleto esprime nella sua alta qualità urbanistica. È fondamentale che i filamenti espositivi abbiano sempre un terminale da cui tutto parte e dove tutto torna».

Anche in questo caso lavora con molti dei “suoi” artisti, alcuni dei quali sono stati messi in ombra da nuove leve e forse messi anche un po’ da parte dalla critica. Fedeltà, convinzione delle scelte passate o altro?
«Che brutto il termine “suoi” artisti, mi sembra così dittatoriale e poco umano. Gli artisti appartengono a se stessi e a chi sceglie di fruirli. Ho la mia macchina, la mia moto, i miei vestiti, i miei orologi, ho anche i miei quadri ma non ho mai avuto i miei artisti. Cambiamo la prospettiva: diciamo che sono un curatore che gli artisti amati li difende con coerenza e continuità, cosa che tutti i miei colleghi dovrebbero fare per supportare la propria visione in termini teorici ed espositivi. Avete mai sentito di un produttore musicale che mette sotto contratto alcuni autori e poi difende i musicisti non suoi? La scelta risponde ad un criterio di onestà curatoriale, sia rispetto alla mia storia ma soprattutto rispetto al valore dei singoli percorsi artistici. Potrei citare decine di giovani curatori che hanno fatto scelte sul momento senza riuscire a difenderle nel corso degli anni. La differenza tra un curatore solido e un curatore debole riguarda proprio la capacità di supportare gli artisti nel corso del lungo periodo, una forza individuale che nasce da un progetto culturalmente solido, dalla conoscenza delle radici e non solo del presente più modaiolo, da una visione personale con una fuoriuscita collettiva, dalla capacità di scegliere ciò in cui si crede e non solo ciò che il momento storico impone. Ho invitato scultori con venticinque anni di ricerca, gente che ha fatto biennali e quadriennali, mostre in Italia e all’estero, artisti che hanno lavorato in passato con grandi gallerie, autori con rassegne stampa e cataloghi importanti; alcuni di loro oggi vanno meno di moda, non sono sull’onda del successo da copertina ma l’arte, non dimentichiamolo, è roba per maratoneti o fondisti, vincono quelli solidi e resistenti, i velocisti recitano la parte delle nuvole nel cielo. Il tempo mette in ordine le pedine e si esprime come un tribunale degli eventi: vediamo tra dieci anni quali scultori resisteranno e quali crolleranno lungo il loro cammino. Sapessi quanti artisti ho visto scomparire: mi vien voglia di dire “come lacrime nella pioggia”».

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