02 agosto 2012

Qui New York L’avanguardia è donna. Quasi femminista

 
Le mostre in corso a New York e quelle appena conclusesi hanno visto protagonista l'altra metà del cielo. Artiste che danno una visione del mondo attraverso il loro sguardo. Consacrate ormai non solo dalla critica, ma anche dal mercato. Con una domanda aperta rispetto al femminismo, vecchio e nuovo. Ma soprattutto con la capacità dimostrata di aver cambiato la scena dell'arte. Anche quella maschile [di Ylinka Barotto]

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«Uomini e donne tendono a supporre molte cose, specialmente quando si tratta di uomini e donne. Trockel non privilegia uno rispetto all’altro, ma indica le contraddizioni e le incongruenze inerenti ad entrambi. Individua le norme che costituiscono l’identità e le disperde in frammenti che rifiutano di avere un senso». Così la pensa Anthony Huberman, direttore dell’Artist Institute di New York dove un paio di settimane fa si è conclusa la mostra di Rosemarie Trockel. Nello spazio del Lower East Side, per sei mesi si sono alternate opere, film screenings, discussioni e performance dell’artista tedesca. I temi analizzati dalla Trockel sono molteplici e quasi impossibili da elencare. Ritenuta una delle artiste che hanno cambiato la visione dell’identità femminile contemporanea, il suo lavoro ha introdotto e affrontato delle tematiche ormai entrate di diritto nel panorama artistico e nel mercato dell’arte contemporaneo.

Sembra quasi anacronistico, oggi, parlare di proporzioni uomo-donna, dando per scontato uno spaccato di storia dell’arte che sembra essere un fantasma: “c’era una volta il femminismo”. Spesso additato in modo dispregiativo, il più delle volte come corrente radicale, il femminismo, ha indotto un’evoluzione della scena artistica contemporanea femminile ma anche maschile. Ha trasformato, con la sua massa critica di voci, strumenti e mezzi utilizzati, l’arte in sé, e la sua percezione generale.

L’identità femminile e le tematiche ad essa correlate sono inevitabilmente cambiate: una donna, in quanto tale, prima di tutto è considerata un’artista. O almeno così ci fa credere il mercato dell’arte contemporanea. Non a caso da qualche mese a New York sono le donne ad essere protagoniste indiscusse nella programmazione museale.  E le artiste non si definiscono necessariamente femministe, la loro presenza sulla scena dell’arte è acquisita, per parafrasare il famoso motto delle Guerrilla Girls, potremmo dire che “le donne (non) devono più essere nude per entrare al Met”. Questo significa che si pensa meno ideologicamente e si agisce con meno coraggio? Forse. Ma dipende dal mercato che sta accettando condizioni e produzioni realizzate da donne che prima sembravano intollerabili, o meglio, invendibili.

Dopo Marina Abramović, il MoMA ha proposto una retrospettiva di Cindy Sherman. Nell’arco di trent’anni, il suo lavoro ha analizzato lo studio dell’archetipo femminile nella cultura di massa, la sua identità creata dalla visione maschilista e le tematiche sociali intrinseche della realtà odierna espresse attraverso l’autoritratto che, da personale, diventa universale.

Dei 170 lavori inclusi nella retrospettiva, sono da ri-guardare con attenzione Untitled #173, 1986 e Untitled #190, 1989. Forse perché danno un momento di tregua apparente allo sguardo del visitatore. Per un istante, infatti, sembra di non essere né circondati, né pervasi dalla Sherman stessa, in ogni forma e dimensione, come accade con le altre immagini.

L’artista è mascherata dalla luce. Il corpo, a differenza degli altri lavori, non è palesemente presentato all’osservatore, almeno non ad uno sguardo immediato. Percezione che, azzardando un’iperbole, si può applicare a quasi tutta la produzione di Sherman.

Interessante è cogliere il punto di vista dell’artista riguardo i recenti murales, esposti alla scorsa Biennale di Venezia e per la prima volta in mostra negli Stati Uniti. In un’intervista con Carol Vogel pubblicata sul “New York Times” Sherman dice: «Mi ha fatto pensare com’è presuntuoso da parte degli artisti uomini, semplicemente riempire l’intera parete con il loro lavoro che diventa un’installazione di dimensioni giganti. E mi ha fatto realizzare come molte artiste donne non la pensino allo stesso modo». La mostra ora è di scena al San Francisco Museum of Modern Art.

Lo spettatore rimane passivo e forse anche un po’ turbato di fronte alla brutalità e all’esuberante radicalità dei cinque video di “The Parade: Nathalie Djurberg with Music by Hans Berg” conclusasi la settimana scorsa al New Museum.

In tutta la produzione filmica dell’artista svedese, la figura femminile, è violata, divorata da animali o uomini grotteschi. La donna è vittima di una violenza cruda. È un individualismo femminile macabro dove le figure di plastilina all’apparenza rassicuranti e quasi infantili contrastano con il contenuto brutale. Djurberg non esprime la stessa forza dei video nelle sculture. Questa volta in mostra sono circa ottanta uccelli di misure diverse che non fanno altro che riempire lo spazio, più che aggiungere qualche cosa di significativo all’economia della mostra stessa.

Più contemplativi e di un magnetismo meno squillante, ma di altrettanto fascino, sono i lavori di Rineke Djikstra in mostra al Guggenheim. Presentati in modo labirintico in uno spazio di per sé già difficile, i 70 lavori che includono foto e video sono assolutamente imperdibili. Djikstra non analizza palesemente il concetto femminile se non in una serie di immagini dove, poco dopo il parto, le figure monumentali di donne diventano fragile eroine ritratte. Riprese senza sfarzi, mostrano una femminilità che mette a disagio, forse perché estranea allo scenario comune. Provocano un senso di imbarazzo, i soggetti che guardano dritti in camera, con il sangue che cola tra le gambe e lo sguardo fiero ma stanco. Un’adolescenza persa con il parto che porta in primo piano la vulnerabilità della donna stessa.

L’individualità femminile al limite della shizofrenia è analizzata da Yayoy Kusama «È una ripetizione ossessiva», l’ha definita Donald Judd dopo aver visto Accumulation nel 1961. Il fallo è ripetuto, moltiplicato, all’infinito. È quasi una perdita del sé nei pois e nella ripetizione in conflitto con l’autocelebrazione narcisista della propria individualità espressa in una continua autorappresentazione.

Ma prima di perdersi nei colori sgargianti di Kusama, merita una lunga visita, sempre al Whitney Museum, la mostra di Sharon Hayes. «Il college è il luogo dove sono diventata una femminista, una lesbica e poi un’artista, esattamente in quest’ordine», dice lei intervistata da Roger Cook per “Frieze” nel marzo 2010. La mostra si concentra sul linguaggio contemporaneo e su come si possa parlare alle nuove audience. Lo spettatore viene incoraggiato a pensare come le vecchie forme di protesta possano informare sul presente e come i discorsi pubblici siano alterati nel processo di documentazione.

«Penso che quello che faccia un movimento sia catalizzare l’energia, coglierla, mantenerla e darle la possibilità di andarsene via, e non mi sembra che questo succeda adesso con il nome di “movimento femminista”». È così che Sharon Hayes, durante la conferenza Reconsidering Feminism, nel Novembre del 2007 del MoMA, ha spiegato la sua ambivalenza nei confronti della persistenza dell’uso della parola femminismo.

Rimane una questione aperta: cosa vuol dire parlare di femminismo oggi? Non è necessario che la memoria carica di significati ci ancori ad un passato obsoleto e nostalgico legato, con tutte le sue fasi, agli anni Sessanta e Settanta. Andiamo oltre, con il post-femminismo, sebbene sarebbe meglio non accantonasse il “pre”.

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