27 agosto 2012

Le “Quattro Stagioni” tornano a Venezia

 
Al “Common Ground”, la tredicesima edizione della Biennale d'Architettura. Come sarà il Padiglione Italia e quali saranno i suoi punti nevralgici? Ne abbiamo parlato con il curatore, Luca Zevi, che ci ha raccontato la scommessa di far convivere i vari settori di un Paese ricchissimo come l'Italia. A partire da una questione fondamentale: la spinta verso un'economia rigorosamente verde, che deve riappropriarsi del suo territorio [di Matteo Bergamini]

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“Le Quattro Stagioni”. È questo il titolo del Padiglione Italia per l’attuale edizione della Biennale d’Architettura di Venezia, che si inaugura ufficialmente domani pomeriggio all’Arsenale. Sembra quasi un luogo comune: ricorda una delle pizze più famose, il valzer di Vivaldi, l’idea di una circolarità. Ed è forse quest’ultimo punto a fare più presa nell’immaginario progettuale che contraddistingue l’idea curatoriale di Luca Zevi, urbanista e architetto “figlio d’arte” (il padre era il più noto Bruno Zevi) da sempre impegnato intorno alle questioni delle energie rinnovabili e alla rivisitazione del passato culturale italiano, la cui nomina alla direzione del Padiglione Italia ha suscitato non poche polemiche.
Per l’occasione Zevi ha deciso di partire dall’esperienza di Adriano Olivetti, imprenditore e politico dallo sguardo “ampliato” verso un modello di ricostruzione dell’Italia che guardava al federalismo e alla costituzione di una serie di comunità sociali, ambienti culturalmente omogenei ed economicamente indipendenti. Il “Common Ground” di questo nuovo Padiglione Italia, insieme a una serie di conferenze, incontri e dibattiti che, alla fine dei tre mesi di esposizione, porteranno alla stampa di un quaderno di esperienze e soluzioni plausibili, progetti e ipotesi di lavoro, si costituisce proprio intorno a questi assunti: dove vanno il settore primario, l’industria e il paesaggio urbano in Italia? Come si può riscattare un Paese che per buona parte spesso è ancora privo di infrastrutture di sviluppo? Sono solo alcune delle domande, talvolta più filosofiche o inerenti al puro progetto, altre volte inclini a un cambiamento attuabile nel tessuto della penisola, che vengono a galla dal progetto della mostra veneziana. Ne abbiamo parlato direttamente con lui. Anche per capire quale “stagione” ci apprestiamo a vivere, e quale dobbiamo ricordare.

Partiamo dalla fine: cosa si vedrà al Paglione Italia? Come sarà strutturata la mostra e in quali spazi?
«Il progetto del Padiglione Italia sarà innanzitutto molto attento alla dimensione della sostenibilità. La struttura espositiva è articolata in due grandi sezioni: la prima, denominata “Bosco Italia”, racconta l’infanzia del paesaggio italiano prima della sua antropizzazione ed è anche un luogo ove fermarsi a riflettere e, non in ultimo, ove i bambini possono giocare;  la seconda sezione e’ invece tecnologica e racconta la storia, breve ma intensa, dell’architettura del Made in Italy e le sue prospettive future».

Diviso in quattro “tempi”  il primo passaggio della mostra, dedicato all’esperienza di Olivetti, è sottotitolato “nostalgia del futuro”. Dovremmo in qualche modo avere anche oggi una sorta di nostalgia per il passato costruttivo, di cui siamo stati testimoni, per avere un nuovo presente?
«Non credo che si debba avere nostalgia del passato. L’approccio di Adriano Olivetti ci interessa perchè si è rivelato l’unico grande futuro che abbiamo ancora in serbo per l’Italia.  In barba a tutti i miti della metropoli e della grande industria, il nostro Paese continua a essere caratterizzato dal capitalismo di territorio, da un invidualismo imprenditoriale creativo. Olivetti aveva compreso in pieno questo fenomeno e cercato di avviare una nuova stagione dell’ “Italia delle Cento Città”. È stato per questo tacciato di visione tardo-ottocentesca, ma in realtà la sua proposta  si è rivelata l’unica vera possibilità praticabile di modernizzazione del nostro territorio.
Presentiamo quindi lo “stato dell’arte” e lanciamo alle imprese del “Made in Italy” la sfida di porsi alla testa di un progetto di rinnovamento nel segno della “green economy”, ovvero di quello che laicamente Aldo Bonomi ha definito un “capitalismo che ha incorporato il concetto di limite nel suo processo di accummulazione”, che  comprende come la valorizzazione dell’ambiente e del paesaggio sia componente strategica dell’unico sviluppo oggi possibile».

La figura di Adriano Olivetti è dunque il nume tutelare dell’indagine?
«Non si tratta di una commemorazione ma, in primo luogo, di un chiarimento sul piano culturale di quale possa essere davvero la modernizzazione del nostro paese. Rappresenta pertanto un presioso punto di ‘ripartenza’».

Vi sono stati problemi organizzativi rispetto ai tempi della nomina, giunta un po’ tardivamente rispetto agli altri Paesi?
«I tempi sono stati stretti, certo, ma devo dire che tutta la mobilitazione che c’è stata all’interno e all’intorno all’Istituto Nazione di Architettura [della cui sezione laziale Luca Zevi è presidente n.d.r.] ci ha consentito di comunicare al meglio il nostro messaggio».

Quali sono le strategie, oggi, per una riforma strutturale dell’architettura in Italia, con un relativo impatto sul paesaggio, sulle infrastrutture e la conservazione dei Beni Culturali? C’è un modello che si sentirebbe di adottare per la sua validità o vanno cercate soluzioni molto specifiche?
Bisogna passare a una prospettiva di crescita organica, che comprenda la produzione agricola come quella industriale come la riqualificazione delle città, quelle ‘cento città’ che rendono così preziosa la nostra penisola. A differenza che in altri Paesi, in Italia è necessario tenere conto di una particolarità: la progettazione del paesaggio agricolo storico non è meno ‘architettonica’ di quella delle città storiche. Per questo bisogna  pensare a un rilancio dell’agricoltura come componente essenziale dello sviluppo del Made in Italy, come abbiamo cercato di dimostrare anche attraverso il contributo di Expo 2015 che lavora sul tema strategico di “nutrire il pianeta”.
Allo stesso tempo non si può prescindere  dallo sviluppo delle energie rinnovabili, puntando a farle diventare una valida alternativa ai combustibili fossili, anche solo per la banale considerazione che disponiamo di sole e vento in abbondanza, mentre il petrolio e l’uranio non li abbiamo. Al riguardo abbiamo bandito anche un concorso, che verrà presentato domani, all’inaugurazione, intitolato “Viale alberati del terzo millennio”, per cercare di far diventare autostrade e ferrovie anche delle centrali lineari di produzione di energia da fonti rinnovabili, con l’obiettivo di promuovere uno sviluppo sostenibile attraverso interventi di autentica arte ambientale. Così come gli acquedotti romani non solo non hanno deturpato il paesaggio, ma l’hanno valorizzato e reso unico nel rispondere a una necessità pratica, anche le nuove centrali energetiche potranno diventare un grandioso intervento paesaggistico capace di valorizzare il nostro territorio».

In occasione dell’ultima edizione di Documenta, a Kassel, si è parlato molto di “agenti”, ovvero di personalitá spesso non appartenenti al mondo dell’arte ma che possono contribuire in maniera preziosa a una “restaurazione”. Quali saranno gli agenti, se ve ne saranno, del Padiglione Italia e quale sarà il loro ruolo? Mi riferisco anche agli eventi collaterali e alla produzione di materiale teorico.
«Il Padiglione Italia 2012 è anzitutto un ‘viaggio in Italia’, che, per ragioni di tempo, non abbiamo potuto compiere in prima persona – eravamo bloccati alle nostre postazioni di lavoro – e che abbiamo quindi intrapreso avvalendoci degli occhi generosi  dei ‘viaggiatori incantati’ che abbiamo invitato ad accompagnarci, per aiutarci a capire su quali risorse puntare nel promuovere, nei nostri limiti, una ripresa del nostro paese fondata davvero sulle nostre radici e potenzialità. Questi nuovi amici preziosi saranno al nostro fianco anche nel corso dei mesi di apertura della mostra, per continuare a fare del Padiglione Italia un laboratorio di ricerca e di confronto».

Una delle tematiche di Venezia sarà anche “nutrire”, azione chiave su cui ruoterà anche il prossimo Expo 2015. Come può l’architettura porsi come medium di ‘sostentamento’ e non solo in termini filosofici? Se dovesse indicare un esempio globale di architettura per il futuro, dove punterebbe il dito?
«Per il futuro indicherei un ripensamento in chiave contemporanea dei terrazzamenti agricoli della Liguria e di Ponte Vecchio a Firenze, come modelli – certamente da reinterpretare in chiave modernissima – rispettivamente di architettura del paesaggio e di infrastruttura abitata complessa. Oggi è necessario reinterpretare la nostra tradizione in chiave completamente diversa, per raccogliere le forze indispensabili a compiere un salto in avanti, senza nostalgia ma irrobustiti da una grande tradizione».

Nelle parole chiave del progetto “Gran touristas” figura anche la voce “visionarietà”: quanto si può spingere oltre l’architettura, e quanto deve tenere presente la realtà dell’uomo e della collettività nel progetto?
«Visione e partecipazione sono complementari: l’architettura non può venir meno al suo compito fondamentale di delineare, di volta in volta, gli scenari territoriali capaci di interpretare al meglio risorse, esigenze e desideri della propria epoca; nello stesso tempo, non può prescindere da un confronto serrato con la committenza – che non è solo il singolo cliente, ma anche la cittadinanza – per giungere a un grande progetto collettivo e condiviso».

Come sarà il “Common ground” di questa Biennale? 
«La tematica lanciata da Chipperfield è stata molto stimolante per il team del Padiglione Italia : ne è emerso un common ground multidisciplinare, altamente impegnato nella conoscenza della realtà italiana e dei suoi possibili sbocchi positivi.
E’ certamente importante assolvere ai compiti di risanamento del bilancio che ci richiedeno gli organismi internazionali, ma non sarà con sole operazioni finanziarie, per quanto virtuose, che riusciremo a risolvere i problemi in buona parte creati proprio dalla finanza. Sviluppare la capacità di produrre, di creare, di avere un approccio sostenibile, di non dimenticare gli ultimi attraverso azioni di solidarietà sistematiche: queste le risorse sulle quali puntare per il nostro futuro, mirando a una società efficiente e socialmente coesa, anche ricostruendo in altra forma uno stato sociale al cui smantellamento si è proceduto troppo sbrigativamente. 
La coesione sociale è decisiva non soltanto per evitare disparità inaccettabili sul piano civile, ma anche per incrementare la categoria dei consumatori – gravemente colpita dalla crisi – che a sua volta alimenta il mercato interno della produzione industriale. 
Dunque, avanti verso una Quarta Stagione del Made in Italy caratterizzata da quell’approccio olistico che è proprio delle grandi epoche della nostra storia, quando abbiamo saputo coniugare – non integralmente, ma in un mix accettabile – efficienza, creatività, bellezza e giustizia sociale.

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