30 gennaio 2002

exibinterviste la giovane arte – Adriano Nardi

 
La pittura è il veicolo principale (ma non unico) della ricerca artistica del giovane Adriano Nardi, protagonista dell’Exibintervista di questa settimana e di cui si inaugura, proprio il 31 gennaio, una nuova personale presso la Galleria Maniero a Roma...

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Come nasce una tua opera? Cos’è che ti suscita l’ispirazione e ti fa sentire la necessità di progettarla e realizzarla?
La Pittura è luogo di conoscenza: come tale spesso è lei che progetta così che io possa realizzare la mia esperienza. L’ispirazione mi indica il completamento dell’esperienza.

La pittura è il fulcro della tua ricerca artistica, eppure molte tue opere partono dalla carta stampata, immagini tratte dalle riviste e foto. Che tipo di affinità lega la tua pittura alla stampa?
Con una sola parola che evochi una spazialità per me ampia, in cui attualmente mi muovo con il disegno, un disegno mentale che mi aiuta a ricomporre le coordinate di una complessità in cui mi sento bene: la stampa infatti, mi dà la possibilità, paradossalmente, di concentrare la ricerca sul colore, sulla pittura intesa nel senso più alto, sulla luce. Traccio una linea spaziale. La tecnologia digitale permette oggi di vedere ovunque, quando lo si vuole. Essere in quel luogo determinato però richiede un lavoro di immedesimazione percettiva: in parte il lavoro potrebbe essere risolto dall’uso di impeccabili tecniche di stampa. Poi abbiamo il cartaceo, l’universo caldo di altri mondi, vicini o lontani: da questo parte il viaggio verso l’interno, di un volto o di un corpo, che scelgo accuratamente, per riordinare, dipingendolo ad olio, il ‘fulcro’.

Nei tuoi quadri figure femminili interloquiscono con lo spettatore: sguardi o gesti sembrano acclamare la sua attenzione, come fosse un appello silenzioso e assordante al tempo stesso.
L’emozione di una modella come fosse una persona che ho incontrato e fotografato personalmente. Una portata umana che diventi spessore morale adatto al nuovo ambiente: è questo che cerco. La sua esistenza, ma senza prescindere dalla luce, della materia che la riproduce. All’occhio distratto, la mia Pittura, concentrata adesso in queste figure femminili, appare iperrealista. Non lo è, fin dentro le sue radici culturali: dipingo cercando la rivelazione, concreta, della Pittura, e non della figurazione. Di conseguenza non dipingo per la riproducibilità, per la stampa, ma oggettivamente su di essa. Ciò mi porta a ridurre le proporzioni del segno pittorico avvicinandomi alle proporzioni mimetiche (figurali) dell’ambiente-stampa.
Immaginiamo una figura umana come se fosse un astro da cui ci allontaniamo nello spazio per scoprirne le infinite differenze costitutive: ogni cosa in essa contenuta risulterà molto piccola, ed avrà un aspetto necessario, inscindibile dall’ambiente in cui esiste.

La scelta stilistica di dipingere a olio su immagini digitali scaricate da internet nasce dall’esigenza di imporre la propria individualità in un momento in cui si parla addirittura di clonazione umana…
L’individualità deve cambiare. Nel 1992, dipingendo, ho simbolicamente troncato il vertice di una piramide. In quel momento la mia attenzione era rivolta al disastro umano ed ecologico operato dal conflitto, tutt’ora in atto, nei territori della Guerra nel Golfo. Quella piramide tronca, poi l’ho naturalmente costruita, di tele e telai: l’asportazione del vertice crea una apertura parallela alla base interna attraverso cui è possibile vedere la pittura sul fondo. Nella dialettica vitale con la pittura al suo interno, i lati si aprono nello spazio. Questa macchina tridimensionale del vedere, ha rivelato poi una potenzialità organica di crescita numerica. Grandi e piccoli quadri invendibili e immostrabili se non come soggetti dialoganti. Il punto pieno di questa fase della ricerca l’ho presentato nella mia prima personale (Antipop) nel 1998: un organismo di piramidi tronche, aperte e scalanti (ancora un lavoro legato alla teoria dei frattali, il lato più piccolo unito al lato più grande della successiva) sulla cui base dipinta apparivano monitors che man mano liberavano trasversalmente il linguaggio pittorico di luce e colore, fino a diventare, tra altri esiti di sintesi, in una zona di quella rete comunicante, pietre cubiche, ‘sampietrini’. Una forma estrema dello spazio figurativo, che ho poi associato come inevitabilmente propiziatoria alla nascita del movimento di Seattle del 30 Novembre 1999. Quella fase della ricerca terminava con uno sviluppo radicale, mentre il germe di una comunicazione pittorica esplicitamente umanizzata, era già presente in mostra in un piccolo ritratto femminile ad olio: Amazonas. I primi ritratti ad olio in RGB (Le naviganti, 2000), mi hanno preso per mano e portato inevitabilmente dentro l’immagine digitale trasferita su tela. Per rendere tutto più chiaro e fluido ho trovato molto naturale abitare quadri che contenessero immagini dinamiche legate ai movimenti del nuovo pensiero mondiale, così da creare logiche e funzioni radicalmente diverse.
Nell’applicazione della ricerca scientifica si evidenziano scelte sempre più problematiche che sono in realtà il risultato di un’utopia non solo globale, ma cosmologica, mai realmente affrontata. In questa estensione bisogna guidare l’individualità verso un’etica dell’utopia dell’etica. A questo proposito, nel mio piccolo, ricordo un lavoro del 1991 che ho intitolato Ecotopia.

La tua arte entra in polemica con gli esiti dell’arte digitale, che giudizio hai formulato in merito?
La riflessione sulla base numerica nella mia pittura esiste dal 1987. Il liberamento del codice binario è già un manifesto in Transgredior, un dittico ad olio supportato oggettivamente da due binari metallici presentato al pubblico nel 1990. Preferisco l’applicazione del digitale come strumento di riorganizzazione della comunicazione: è fin troppo facile sbagliare e impadronirsi culturalmente di uno strumento collettivo trasformandolo in un surrogato tecnico colonizzante.

Cosa ti aspetti dal pubblico? (mi riferisco alle tematiche che affronti es. ecologia, equilibrio tra Stati, globalizzazione…)
Cerco di trasferirgli un’esperienza, di educarmi visibilmente.

A cosa stai lavorando attualmente e quali sono i tuoi impegni per il prossimo futuro?
Vertical horizons è il nome della mia prossima personale a Roma, alla galleria Maniero. E’ un nome che ho estratto dal titolo di un piccolo lavoro che ho realizzato nel maggio 2001, Dizzy horizons: parla di uno stato della visione, o di una qualità della percezione.
E’ anche una idea dello spazio e della Pittura: verticalizzare l’orizzonte geometrico (immaginate di vederlo), cioè elevarsi concettualmente ad una privazione di gravità, non nel senso di una perdita di peso reale, ma affrancarsi dal proprio contingente, per tentare di vedere da qui, nel grande e per tutti.
In questi ultimi tempi, per me dipingere equivale a rendere visibile la propiziazione.

Bio
Adriano Nardi nasce il 12 Marzo 1964 a Rio de Janeiro. Dal 1970 risiede a Bologna. Nel 1978 (anno in cui si iscrive al Liceo artistico) ha inizio il suo percorso culturale nell’ambiente artistico bolognese. Nel 1990 si diploma all’Accademia di Belle Arti di Bologna. La prima personale, a Roma, la città dove attualmente vive, è del 1998, al Museo Laboratorio dell’Università La Sapienza.

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Exibinterviste-la giovane arte è un progetto editoriale a cura di Paola Capata

[exibart]

3 Commenti

  1. Decisamente interessante quest’artista. Soprattutto l’uso che fa della tecnica pittorica, che viene decisamente reinventata attraverso una contaminazione ragionata e consapevole. Il mezzo più tradizionale diviene nuovamente veicolo di messaggi ed idee. Complimenti Nardi, siamo curiosi di vedere il seguito.

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