29 novembre 2012

TALENT ZOOM Beatrice Marchi

 
Pop, romantica, a volte sembra svanita. Ma in lei, come nel suo lavoro, di svanito non c’è proprio nulla. Si muove tra il racconto intimo e quello di una socialità giovanile che viaggia sull’altalena tra la tragedia e il trucco da rifare. Poi mescola tutto dentro un impasto messo alla verifica del prodotto e del consumo, tra vestiti da bancarella e profumi Chanel di cui ci ricorda l’origine vegetale. Sperimenta tra il video, la scultura e l’installazione, senza paura di testare le deformazioni, giocando sugli errori e chiedendo pareri solo per avanzare più spedita sulle idee. Registra il circostante come una telecamera mai spenta. Elabora, sottopone alla sua intimità e poi risputa sul piatto dell’immagine: la cena è servita. A volte agrodolce…

di

Chi è: Beatrice Marchi. Luogo e data di nascita: Gallarate, 1986. Vive e lavora a Milano. Formazione: Accademia di Belle  Arti di Brera a Milano, scuola Garutti. Gallerie di riferimento: nessuna

Credi necessario, parlando di arti visive, aggiungere alla parola arte la parola contemporanea?


«Credo che non sia necessario storicizzare un’opera, i grandi artisti spesso hanno saputo dialogare con diverse generazioni ed è proprio questa potenzialità – atemporale e universale – che mi fa battere il cuore di fronte a un’opera d’arte».

Quale è stato l’incontro più significativo nella tua formazione?

«Quando ero all’accademia ho conosciuto Clemens Von Wedemeyer, artista tedesco che stimo profondamente per la sua capacità di rendere magiche delle storie quotidiane attraverso film laconici. L’ho incontrato per un’intervista e da quel momento è nata un’amicizia».

Qual è il progetto realizzato che ti ha dato maggiore soddisfazione?

«Ho un bellissimo ricordo di “Hooockuurch”, mostra personale di Derek Di Fabio nel 2010 presso la galleria Room a Milano, in cui ero stata invitata insieme ad Alessandro Agudio e Michele Gabriele per realizzare un’opera che potesse comunicare con quelle degli altri. Per l’occasione ho girato il video Bye, Bye, Bye all’interno dello spazio dove sarebbe stata allestita la mostra. Eravamo sempre tutti di corsa e ognuno contribuiva a completare il lavoro dell’altro».

L’artista che vorresti conoscere da vicino e con il quale vorresti parlare e lavorare?


«Mi piacerebbe poter ballare e cantare con i grandi dei musical di Broadway o con le popstar di Mtv».

Quali sono i media che più si avvicinano alla tua ricerca e alle tue aspettative?

«Il montaggio. È uno strumento con cui mi confronto da alcuni anni e che influenza molto la mia percezione delle narrazioni e delle immagini, anche quando non utilizzo il video come mezzo espressivo».

Come potresti descrivere il tuo lavoro o l’opera che più ti rappresenta?

«In questo momento sto lavorando alla progettazione, attraverso collage digitali, di un colore di capelli che possa assecondare le aspettative, i cliché e i desideri comuni di ogni donna: una tinta dorata. Trovo molto tenero e dolce quando una persona subisce un fallimento nel tentativo di imitare un modello ideale».

Come ti mantieni?

«Lavoro come montatrice di video e condivido un appartamento a Milano con altri artisti: Alessandro Agudio, Anna Mostosi e Davide Stucchi».

Vorresti vivere in altre città, fare altre esperienze in Paesi stranieri?

«Mi piacerebbe vivere in una città dove si possa assistere a una valida molteplicità di mostre e di opere d’arte. L’ideale sarebbe una città anche economica, calda e sul mare».

Pensi che sia importante per un giovane artista avere una galleria di riferimento?

«La figura del gallerista può essere molto significativa nell’affiancare un giovane artista se esiste una parità dello sguardo e uno scambio reciproco volto a migliorare la ricerca e non solo la vendita».

La figura del curatore: un riferimento professionale, personale, una chiave di accesso al sistema o un mediatore inutile?

«Ho avuto tra le più interessanti conversazioni parlando con dei curatori. Un bravo curatore è capace di compensare le mancanze teoriche di un artista, in questo senso è una figura fondamentale. Il ruolo del curatore “nel curare una mostra” a volte invece può essere superfluo. Alcune mostre, costruite intorno a operazioni artistiche, possono diventare più interessanti quando non richiedono un’organizzazione teorica: in molti casi l’artista riesce a sostituire con la propria visione di mostra la presenza del curatore».

Il critico?

«Il critico è una chiave molto importante per definire la carriera di un artista. Il caso di Carol Rama, che è stata lanciata non proprio giovanissima, mi fa riflettere su queste strane dinamiche».

Progetti recenti, progetti futuri?

«A ottobre partecipo alla mostra, curata da Luca Cerizza, degli allievi di Alberto Garutti alla GAM di Milano. L’inaugurazione sarà una mega-rimpatriata di diverse generazioni, sono curiosa di vedere cosa succede».

Hai mai paura di fare quello che fai?

«No, piuttosto provo dei forti sentimenti di altro genere: la preoccupazione costante, il desiderio di essere amata, l’ansia voler fare troppo…»

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 80. Te l’eri perso? Abbonati!

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