20 marzo 2013

L’intervista/Francesco Pantaleone Il mondo, da Palermo

 
Un altro trasloco e un nuovo corso per una delle più interessanti gallerie italiane, che da giovane in una manciata di anni è diventa mid-career. Stiamo parlando di Francesco Pantaleone, che dopo l'apertura del nuovo spazio milanese, un anno tra poco, cambia sede nella sua Palermo. Una chiacchierata con il gallerista, che con Exibart tira un po' di somme rispetto ai suoi otto anni di attività

di

galleria Francesco Pantaleone ai Quattro Canti, Palermo, photo G. D'Aguanno

La Sicilia, e Palermo in particolare, come finestra dalla quale guardare il mondo. Francesco Pantaleone, ci racconta in questa intervista, cambia pelle. E diventa grande. La galleria compie otto anni di attività, e trasloca di qualche centinaio di metri, da via Garraffello ai Quattro Canti, dove domani apre la mostra personale di Julieta Aranda. Una nuova sede che arriva a quasi un anno dall’opening dello spazio milanese di Brera, BAD, e che conferma la volontà di Pantaleone di continuare a promuovere arte e cultura nella sua regione. Motivazioni, speranze e perché di alcune scelte piuttosto che di altre? Eccole qui, in questo ritratto che traccia punti di arrivo e partenze.
Iniziamo con la domanda di rito, prima di passare a qualcosa di più stimolante: Perché cambi sede? Cosa ti ha spinto in questa direzione e cosa prevedi di realizzare con questo trasloco?
«In realtà non c’è stata nessuna premeditazione. Diciamo piuttosto che questo spostamento di sede coincide con una serie di evoluzioni naturali della mia stessa esistenza, che hanno comportano cambiamenti e nuove scelte. Una sorta di serpente che cambia pelle. Nel senso che prima o poi arriva un momento in cui ciascuno sente il bisogno di ricominciare da capo, facendo tesoro di ciò che è stato. Questo spazio rappresenta una crescita, come mettere le radici, significa mettersi “l’abito buono” dopo anni passati in blue jeans…che però mi piacciono ancora moltissimo!»
Galleria Francesco Pantaleone, Foto G. D'Aguanno

BAD a Milano e Francesco Pantaleone a Palermo: come ti trovi a lavorare su due fronti, e in due scenari, in qualche modo molto diversi?
«Mi trovo abbastanza a mio agio. Sono abituato al dinamismo, occuparsi seriamente d’arte vuol dire saper agire su più fronti, allo stesso tempo. Ovviamente si tratta di due realtà molto differenti, ma che possono appoggiarsi l’una all’altra e beneficiare delle loro diversità. La galleria di Palermo è una realtà consolidata, ho lavorato sodo in questi anni per costruire credibilità, dimostrando che esiste un Sud pienamente contemporaneo, che può fare bene e dialogare con il resto del mondo. Milano è la vera metropoli dell’arte, è un ponte verso l’Europa, Bad New Bussines è una scommessa,  trae la sua forza da FPAC, dalla mia Isola, perché è da lì che è partito tutto. Le due realtà insieme, sebbene sia per me un lavoro enorme e non sempre facile, sono ciò su cui voglio impegnarmi nel prossimo immediato futuro. In tempi di scissioni e campanilismi io invece punto ad unire e capitalizzare le energie!»
Galleria Francesco Pantaleone, Foto G. D'Aguanno

Sei nel comitato di ZAC, Zisa Arte Contemporanea, e sei anche responsabile per le arti visive del Pride a Palermo che quest’anno sarà nazionale. Che cosa ti spinge a restare in Sicilia per lavorare anziché passare in toto in altre città forse più “semplici” sotto il profilo dell’arte contemporanea? È una sfida o senti che, mentre tutti se ne vanno, la vera rivoluzione va fatta a partire da casa propria?
«Credo che nel mio comportamento e nelle mie scelte sia insita la risposta. Ho sempre creduto che le cose difficili alla fine sono sempre le migliori. Avrei potuto restare negli Stati Uniti, dove ho vissuto, oppure trasferirmi in qualsiasi parte del mondo, quando ho iniziato ero molto giovane e tutto per me era possibile. Ma in cuore mio credo di avere sempre saputo che sarei tornato in Sicilia, perché lì vedevo il mio posto. Una terra cosi contraddittoria e affascinante è perfetta per uno spirito come il mio. Io sono un po’ come un’isola, in balia del clima e del vento. Amo il cambiamento, lo scambio che deriva dalla contaminazione culturale. Non nascondo che ogni giorno incontro difficoltà, talvolta enormi, negarlo non sarebbe onesto; ma poi lavorando sul campo s’impara presto ad aggirare gli ostacoli. Si apprezza di più anche il più piccolo risultato e s’impara a saper aspettare. Poi posso viaggiare, mi muovo spesso, incontro molta gente, cerco di restare connesso più che posso e questo mi arricchisce, mi rende parte di qualcosa di più grande. Senza confini. Restare non è una rivoluzione, è semplicemente una delle opportunità possibili, io ho scelto di restare. Le conferme che hai citato nella domanda mi ancorano ancora di più ad una responsabilità verso quello che faccio e mi danno maggiore entusiasmo a fare bene. Anche l’esperienza di docenza all’Accademia di belle Arti rappresenta per me una opportunità stupenda che non vorrei mai sprecare perdendo il mordente verso ciò in cui credo. Lo dico sempre ai miei giovani allievi e loro mi danno un energia enorme».
Galleria Francesco Pantaleone, Foto G. D'Aguanno

Parliamo del sistema-Italia. Esistono, secondo te, i margini per una rivoluzione culturale (che passi anche per la revisione di molte questioni legislative e fiscali per esempio) per poter rendere il mercato dell’arte italiano competitivo? Per far sì che anche in Italia si possano promuovere i propri artisti? 
«Il problema è che secondo me in Italia non esiste un “sistema”. La cultura è stata abbandonata dalla politica già da molto tempo e la pressione fiscale è altissima. C’è persino un ministro che ha sostenuto che “con la cultura non si mangia”, dunque che dire? Penso che il mercato dell’arte italiano continui a vivere grazie agli sforzi dei galleristi e soprattutto grazie alla vitalità degli artisti, sono molti quelli di talento, apprezzati internazionalmente. Però è una situazione molto complicata, altalenante, incerta. Anche i collezionisti vanno incoraggiati, il loro apporto è fondamentale per il corretto funzionamento dell’equilibrio del sistema. Credo che in Italia, pur essendo il Paese dove è nato il collezionismo, penso ai Medici, ai Borghese, ai Doria Panphilij, non ci sia oggi una vera e propria “tradizione” del collezionismo del contemporaneo, piuttosto un gusto personale, una pratica ancora recente, che forse per consolidarsi ha bisogno di passare di generazione. Auspico invece una marcia in avanti a sostegno dei giovani artisti, credo che coltivare questo delicato e importantissimo aspetto sia una grande risorsa per la cultura del nostro Paese, perché il futuro passa attraverso i loro occhi e i loro sentimenti».
Francesco Giordano e Francesco Pantaleone, foto Juergen Teller

Domanda di bilancio: Cos’è cambiato da quando hai inaugurato nel 2005, e cosa è rimasto, del tuo essere gallerista? Che cosa consiglieresti a chi vuole avvicinarsi a questo lavoro? 
«I bilanci non mi sono mai piaciuti, lasciamoli agli economisti. Io direi che forse innanzitutto sono cambiato io. Otto anni sono lunghi, sono successe moltissime cose. Invece non sono cambiati i punti di riferimento, ad esempio è rimasta la mia insostituibile e solida amicizia con Pamela Erbetta, la mia socia di allora, con cui ho sempre uno stupendo dialogo. È rimasto l’entusiasmo con cui affrontare ogni nuovo progetto e la voglia di progredire umanamente e professionalmente con gli artisti con cui lavoro. È rimasto il senso “alto” del lavoro, che deriva dall’insegnamento dei miei genitori, in particolare mio padre. È rimasta la stessa voglia di divertirmi. Nel frattempo è arrivato Francesco Giordano, il mio socio di oggi, con la sua freschezza; sono arrivate nuove idee e nuovi compagni di viaggio, con cui cerco di avere sempre un rapporto sereno, sincero ed onesto. Come gallerista oggi per me si apre una nuova avventura, ho uno spazio da costruire da un lato con la consapevolezza che deriva dall’esperienza di questi anni, dalle relazioni importanti con artisti, soprattutto quelli che sono per me una luce, dall’altro sento anche “l’ansia buona” di chi crede ciecamente nell’arte e nella forza rinnovatrice del suo messaggio. Dopo tanti anni sento come il primo giorno la voglia irresistibile di trovare il senso pieno della contemporaneità, ogni giorno. Credo che sia questo ciò che posso consigliare a quanti pensano di intraprendere il mio stesso percorso».
Julieta Aranda, courtesy FPAC Julieta Aranda, courtesy FPAC

Chiudiamo con un progetto per il 2013? Che cos’è che non hai ancora fatto e che vuoi realizzare nei tuoi spazi? 
«Subito inauguriamo il 2013 con la personale di Julieta Aranda, Where There’s Smoke, curata da me con Laura Barreca per il ciclo “Domani, a Palermo”, frutto della residenza di Julieta che si è rivelata piena di sorprese e di stimoli, a volte anche inaspettati. Poi un progetto per il 2013 al quale penso con grande attesa è un nuovo lavoro su Palermo con Per Barclay. Non posso ancora anticipare nulla, ma si tratta di un lavoro emozionante e assolutamente completo, nato dalla raffinata sensibilità di un artista straordinario e dalla sorprendente bellezza dell’arte siciliana, potente incubatore di culture». 

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