16 giugno 2013

L’intervista/Elena Arzuffi Il coraggio dell’artista

 
Dietro l’aspetto fragile si nasconde un’artista forte, questa è Elena Arzuffi. La fotografia, il disegno, il video e l’installazione sono i media ricorrenti del suo fare arte. Attraverso i quali crea suggestioni emotive, flussi di esistenza come flussi di tempo. Intrecciando storia personale e identità femminile in relazione a una quotidianità dove convivono le piccole cose di ogni giorno e i grandi temi dell’esistenza

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Elena Arzuffi, alle pareti puzzle grafico: 8 pagine del libro Che tu sia per me il coltello, con intervento grafico e/o collage, 2011/2013, dimensioni variabili; sul pavimento Copernico, 2013, corda nera, perle di vetro, ceramica e peltro, dimensioni variabili. Courtesy Rossana Ciocca Arte Contemporanea, Milano

Il 14 maggio scorso ha inaugurato la personale “ParlaconLei3459059834” alla Galleria Rossana Ciocca di Milano, il cui concept è in continuum con l’analisi che Elena Arzuffi fa del quotidiano, costruita intorno a una costante raccolta di indizi visivi, sonori e verbali che guidano l’artista alla scoperta di nuovi ambiti da indagare. Pertanto le situazioni e i contesti che ‘avvicina’ mutano in significanti di senso fruibili nella mostra, sia nella dimensione oggettuale che grafica e video. 
“Che tu sia per me il coltello” è un romanzo di David Grossman che narra il processo di svelamento tra individui sconosciuti che vincono il timore del contatto, ‘contatto’ dell’anima e del corpo. Intorno al tema del libro ruota la centralità di “ParlaconLei3459059834” che già nel titolo svela il vero e proprio congegno propulsivo: il numero di telefonia mobile di Elena Arzuffi che campeggia su una delle pareti dello spazio espositivo. Per mezzo, dunque, di un contatto telefonico s’avvia un dialogo giornaliero con persone diverse, interessate a comunicare con l’artista via sms, messaggi vocali o grafici, pertinenti alle sollecitazioni visive della mostra. 
Nell’ambiente della mostra ha preso avvio il nostro dialogo.
C’è qualcosa che vuoi aggiungere sulla mostra in atto. Una sorta di ‘dietro le quinte’?
«La mostra è decollata, con l’invio di sms ogni giorno. Qui la nuova sfida è determinata dalla costruzione dei puzzle grafici composti dalle pagine del libro di David Grossman. Mi spiego: la mia sfida è stato ricercare ogni giorno un nuovo equilibrio, necessario a proseguire. Il ‘dietro le quinte’, come dici tu, riguarda la decisione di non mostrare in originale l’opera Il segreto linguaggio del corpo, ma mostrarla nella forma di multiplo formato fotocopia, in quanto quel lavoro rappresenta uno snodo fondamentale nel mio percorso dove l’autoanalisi sembrava la chiave di tutto. Ma poi, di fronte all’infinito desiderio di mettermi in gioco, ho scelto la via dell’imprevisto». 
Elena Arzuffi, Deadline, 2003, cm 100x70, fotografia digitale. Courtesy Rossana Ciocca Arte Contemporanea, Milano.
È soprattutto il segno la cifra che ti contraddistingue e che struttura i caratteri delle tue ‘storie’ che vivono come ‘segni in movimento’ al quale affidi flussi di tempo, flussi di vita… Il dispositivo narrativo dei tuoi video rappresenta e interpreta la continua volontà d’interazione dell’individuo con il proprio mondo?
«I lavori si costruiscono già attraverso un’interazione con quello che accade nello spazio culturale e sociale in cui siamo immersi. La crescita delle domande e delle problematiche che creano la nascita iniziale del desiderio di sviscerare un argomento è già frutto di ciò che succede intorno a me. La nostra attuale condizione di totale immersione in ciò che sta accadendo ci trasforma in contenitori che continuano a rimodellarsi in base agli stimoli che ricevono. Il cervello stesso continua a modificarsi durante tutta la vita e ci rende persone in grado di evolvere e di chiedere e di dare alla propria esistenza sempre diverse domande e risposte. L’uomo esiste come individuo proprio perché si confronta con il mondo. Il lavoro è questo dar senso alle mie riflessioni in base alla sua capacità di porre domande».
La tua è una narrazione costruita su una sequenza d’immagini che tracciano un percorso. Un percorso che attraversa paesaggi interiori, che ‘disegna’ una geografia dell’anima: un viaggio per ri-disegnare la propria strada. Pensi che fare video-arte sia uno strumento adatto a seguire le tracce di una storia personale? 
«Attraverso l’ascolto delle mie esperienze avvio riflessioni sulla loro non unicità ma particolarità e le uso per aprire agli altri riflessioni visive e acustiche che mi offrono altre informazioni per ampliare la percezione e la comprensione della conoscenza. Inizialmente notavo che fotografando e disegnando mi appropriavo più consapevolmente dell’esistenza. Tuttavia è importante che non siano solo le mie  pulsioni e percezioni, ma riesca a farle diventare complesse emozioni dove agli altri sia facile riconoscervi le loro proprie esperienze e riconoscersi per rileggersi e da lì ripartire. La partenza è personale e privata, intima, ma vale solo come stimolo iniziale, poi, per essere funzionale, deve trasformarsi e generare un dialogo anche se solo visivo o mentale».
Elena Arzuffi, Senza Titolo, 2004, cm 30x45, fotografia. Courtesy Rossana Ciocca Arte Contemporanea, Milano
Oblivius, mi scrivesti, «è un video che nasce dal bisogno di capire le emozioni e le sensazioni più reali, insegue il vano tentativo di controllare ciò che in realtà si appropria di noi, se ci lasciamo attraversare dalla vita in quello che essa ci offre di più coinvolgente». Personalmente, complice il Madrigale di Scarlatti, vi leggo il timore di un’esistenza che ‘cade nel tempo’. Arte è cura? è protezione di sé? 
«Il lavoro artistico ha la capacità di prolungare il flusso magnetico delle nostre esperienze trasformandole in opere che restano nel tempo. Si può credere che in qualche modo esorcizzi almeno parzialmente l’ansia che ci affligge per il trascorrere del tempo. Garantisce sicuramente un metodo per guardare avanti anche rileggendo ciò che è stato, in qualche modo mettendo in ordine i pensieri nello sforzo di comunicarli. La conoscenza della produzione artistica in generale favorisce la condivisione della condizione umana contemporanea, rendendo evidenti i nodi esistenziali che emergono più lucidi attraverso l’arte e la sua rielaborazione. Quando realizzo una mia opera sono certa che ho bisogno di farlo per essere più soddisfatta, ma non so etichettare questo processo e non voglio farlo. Credo che essere artisti sia un modo di vivere e di esistere nel mondo. Proprio Oblivius è un video che entra nell’ambiente e chiede al pubblico di essere attraversato per essere letto, sentito, così come è stato per me vivere il contenuto che lo ha generato».
È cosa antica la capacità tutta femminile di rinunciare a mettersi in gioco per non affrontare logoranti competizioni quotidiane (e non solo in ambito lavorativo), senza così avvalersi della possibilità di costruire e significare le proprie intenzioni e azioni, in altre parole, la propria esistenza. In questo senso qual è la tua esperienza? 
«Penso che creare, prendendo spunto dalla propria esistenza, sia il desiderio di guardare oltre il presente con lucidità e coraggio. Vorrei che questo succedesse sempre in ogni progetto, perché credo che il lavoro dell’artista sia funzionale quando è una costruzione in divenire, capace di rimettere in gioco, anche con fatica e sofferenza, tutte le sfumature della nostra esistenza. È una condizione scomoda e difficile, ma realisticamente è la descrizione dell’esserci alla ricerca di uno spazio in cui essere reali. Esserci, indifferentemente dal sesso di appartenenza, dotati di sensibilità e intraprendenza e con la volontà di rimettere tutto in discussione, per sgretolare le nostre poche certezze, consapevoli che solo così siamo gli unici artefici di un’esistenza che valga la pena di essere vissuta».
Elena Arzuffi, Anoressia, 2012, disegno cm 21 x 29.7, 1/1, su due fogli sovrapposti, tecnica mista. Courtesy Rossana Ciocca Arte Contemporanea, Milano.
Scorrendo le tue opere fotografiche, emerge un’attenzione all’adolescenza, che è un fenomeno universale e una fase temporanea della vita pervasa dall’urgenza di conoscere il mondo e tutto ciò che verrà. I processi che la caratterizzano sono rivolti alla soggettivazione di sé e alla costruzione mentale dell’immagine del proprio corpo anche come valore di identità di genere. Deadline è un lavoro fotografico che hai presentato nel 2010 nella Galleria Muratcentoventidue di Bari, testimoniando il desiderio di un’adolescente di entrare nella vita ‘prendendo il volo’, mettendo alla prova il proprio corpo come strumento, fulcro in cui il fare coincide con il conoscere. Sarebbe interessante se dicessi come ha accolto e vissuto tua figlia quella vostra collaborazione.
«Da quando ho iniziato il mio percorso artistico ho collaborato con mia figlia, unendo così quasi con la spontaneità del gioco, le nostre due sensibilità esistenziali. Seppur partendo da posizioni diverse e forse lontane, ci incontravamo nel fare ricerche espressive e spaziali. Io le suggerivo dei temi e lei li interpretava, il lavoro era la selezione delle immagini che esprimevano meglio ciò che cercavo e trovavo anche grazie al suo aiuto. Inizialmente era una ricerca molto intima e privata poi si è allargata anche nutrendosi di spunti e immagini non sempre e non solo pensate per l’occasione, ma anche rubate da altri canali. L’adolescenza è un periodo dell’esistenza che ha permesso di incontrarci ed anche in questo caso abbiamo rotto gli schemi e le barricate che talvolta i ruoli e gli umori ci impongono. Un periodo emblematico che in sé contiene molte incertezze che, se non risolte, possono permanere anche in età adulta. Partendo dalle mie non risposte, ho fatto un percorso a ritroso, prendendo per mano le sue non conoscenze e senza timore mi sono affiancata a lei per ripercorrere quel percorso. Questo ha dato origine a numerosi lavori che affrontano tematiche come il senso del pudore o i disturbi alimentari (Rosalin, Anorressia e Il linguaggio segreto del corpo), così come le paure: della solitudine (E se piovesse, Senza titolo e Looking for another like me), del tempo che scorre (Impronte, Prescription, Cervello mio) e della perdita dell’amore (Crunchy love e Oblivius) ed infine i pericoli nascosti nella complessità dei legami familiari (Pelo di cane) per trovare in ogni piccolo grande dramma la forza di ritrovare fiducia in noi stessi».
Elena Arzuffi, Paesaggio, 2012, disegno cm 21 x 29.7, 1/1, su due fogli sovrapposti e frame del video Oblivius (6’10”). Courtesy Rossana Ciocca Arte Contemporanea, Milano
Il tuo è un curriculum ricco. Hai partecipato a mostre importanti, curate da personalità internazionali come Francesco Bonami. Secondo te, qual è l’ingrediente che fa di una mostra un vero evento?
«Penso sia fondamentale che tutti i soggetti coinvolti vivano l’evento espositivo come una sorta di viaggio capace di lasciare una traccia in chi lo compie. Inoltre, una mostra dovrebbe riuscire a far parlare di sé anche solo non facendosi dimenticare». 
Quali sono i tuoi prossimi impegni?
«Ho inaugurato una collettiva che è un anche un workshop e durerà alcuni mesi, a cura di Francesca Baboni e Stefano Taddei. Si concentra sull’osservazione emotiva del paesaggio lacustre e si svolge all’Università Internazionale della Vela a Campione del Garda. Sto anche sperimentando il montaggio di un nuovo video in cui le parole sono protagoniste anche se usate in modo ermetico». 

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